giovedì 25 dicembre 2014

SETTIMA GIORNATA - INTRODUZIONE

SETTIMA GIORNATA – INTRODUZIONE

Quasi tutte le stelle erano scomparse, tranne Lucifero, perché ormai albeggiava, quando il siniscalco, alzatosi, andò con molti viveri alla Valle delle Donne per disporre ogni cosa secondo gli ordini del suo signore.
Dopo poco si alzò anche il re, svegliato dal frastuono dei servi e delle bestie, frastuono che fece svegliare anche tutti i giovani e le donne.
Non erano spuntati ancora completamente i raggi del sole che già tutti si erano messi in cammino, mentre gli usignuoli e gli altri uccelli cantavano allegramente, come non mai, accompagnandoli con il loro canto fino alla valle.
Quivi giunti, la visitarono nuovamente con grande attenzione ed essa parve loro ancora più bella del giorno precedente, perché l’ora era più adatta.
Dopo che ebbero fatto colazione con buon vino e con dolciumi, perché non fossero superati dal canto degli uccelli, cominciarono a cantare, accompagnati dalle dolci note degli uccelli,mentre l’eco ripeteva le loro stesse canzoni.
Giunta l’ora del pranzo, messe le tavole sotto gli alberi ombrosi, si sedettero intorno al laghetto, come volle il re. Mentre mangiavano vedevano i pesciolini muoversi nell’acqua a schiere e ne discutevano.
Finito il pranzo, tolte le tavole, ancora più lieti di prima cominciarono a cantare.
Frattanto il siniscalco aveva fatto disporre in più luoghi della piccola valle letti ricoperti di stoffe leggere e circondati da tende chiuse, per cui, con il permesso del re, chi voleva poteva andare a dormire; chi non voleva si dedicò ai soliti giochi di società, come gli piaceva.
Dopo che si furono svegliati, venuta l’ora del novellare, come volle il re, tutti si riunirono intorno al laghetto, vicino a dove avevano mangiato, e si sedettero su tappeti distesi sull’erba.
Il re comandò ad Emilia di cominciare ed ella ,sorridendo lietamente, iniziò a raccontare la prima novella della giornata.







mercoledì 17 dicembre 2014

SESTA GIORNATA - CONCLUSIONE

SESTA GIORNATA – CONCLUSIONE

La novella appena narrata offrì alla brigata grandissimo divertimento e fece ridere tutti di frate Cipolla, del suo pellegrinaggio e delle reliquie.
La regina, sentendo che era finita, alzatasi, si tolse la corona e la mise sul capo di Dioneo esortandolo a reggere e a guidare le donne, in modo che, al termine della sua reggenza, esse lo potessero lodare.
Dioneo, presa la corona, ridendo, rispose che egli non era prezioso come il re degli scacchi, che tutti ben conoscevano, ma avrebbe fatto del suo meglio per accontentarle.
Poi , fatto venire il siniscalco, ordinò tutto quello che doveva esser fatto nel periodo della sua signoria. Rivolgendosi, infine, alle donne disse loro che la presenza di donna Licisca gli aveva suggerito il tema delle novelle del giorno seguente. Ella aveva detto che non c’era stata una fanciulla che fosse andata vergine al matrimonio e che conosceva tutte le beffe che le maritate facevano ai mariti.
Perciò, ritenendo che donna Licisca ne avesse fornito il motivo, stabiliva che l’indomani si sarebbe narrato delle beffe che, per amore o per salvarsi, le donne avevano fatto ai loro mariti, sia che essi se ne fossero accorti, sia che non se ne fossero accorti.
Alcune donne, che non erano d’accordo ,temendo che fosse un argomento sconveniente per loro, lo pregarono affinché cambiasse la proposta.
Dioneo rispose che ben comprendeva la difficoltà del tema trattato, ma non avrebbe cambiato idea, ritenendo che, in tempi come quelli, ogni discorso era consentito agli uomini e alle donne che evitavano di comportarsi disonestamente.
Esse sapevano che, per la pestilenza di quel tempo, i giudici avevano abbandonato i tribunali, le leggi divine e umane tacevano e ,per sopravvivere ,era concessa ad ognuno massima libertà di costumi .Perciò se si era un po’ più liberi e spinti nel raccontare, non per fare cose sconvenienti ,ma solo per divertire loro e gli altri, non  vedeva alcun motivo valido per essere rimproverati ,in futuro, da qualcuno.
Del resto la loro brigata, fino a quel momento, non si era macchiata di alcun atto sconcio e non se ne sarebbe macchiata in seguito, con l’aiuto di Dio.
Aggiunse che tutti conoscevano l’onestà delle donne presenti, che non poteva essere sminuita né da discorsi divertenti, né dal terrore della morte. E, in verità, riteneva che chi avesse saputo che non avevano voluto discutere di quelle stupidaggini, avrebbe potuto sospettare che avessero peccato in tal senso, perciò non ne volevano parlare. Egli, senza discutere, aveva accettato tutti gli argomenti proposti, mentre, avendolo fatto loro re, volevano imporgli ciò che non doveva dire, Lasciassero, dunque, ogni scrupolo e serenamente ciascuno pensasse alla novella da raccontare. Le donne, udito ciò, non obiettarono più.
Poi il re lasciò ognuno libero di fare ciò che volesse, fino all’ora di cena.
Il sole era ancora molto alto, perché le novelle narrate erano state brevi, perciò Dioneo si mise a giocare a tavole.
Elissa, chiamate le altre donne, disse loro che voleva condurle, cosa che aveva desiderato da quando erano lì, in un luogo che nessuna conosceva, chiamato la Valle delle Donne. Il momento opportuno le sembrava proprio quello, perché era ancora alto il sole.
Le donne risposero che erano pronte e, chiamate le fantesche, senza dire niente ai giovani, si avviarono.
Dopo poco più di un miglio giunsero alla Valle delle Donne. Entrarono in essa attraverso un sentiero assai stretto, che era bagnato ,su un lato, da un fiumicello. Trovarono la valle assai bella e gradevole specialmente in quel periodo di un caldo inimmaginabile.
Come ognuna riferì, nellaValle c’era una pianura, così rotonda, come se fosse stata fatta con un compasso.
Essa era contornata da sei montagnette, non troppo alte, e sulla sommità di ognuna vi era un palazzo simile a un bel castello. I declivi di quelle montagnette scendevano verso la pianura, come si vedevano nei teatri, dalla sommità fino ai gradini più bassi, ordinatamente , stringendo il cerchio. I declivi che erano rivolti a mezzogiorno erano tutti pieni di vigne, di ulivi, di mandorli, di ciliegi, di fichi e di ogni altro genere di alberi da frutta, senza che rimanesse scoperto nemmeno un po’ di terreno. Quelli esposti a Nord erano tutti boschetti di querce, di frassini, e di altri alberi verdissimi e dritti.
La pianura successiva era piena di abeti, di cipressi, di allori e di alcuni pini così ordinati che sembrava fossero stati piantati dal miglior artista del mondo. Fra i loro rami filtrava poco sole, solo quando era in alto.
Oltre a quello, offriva grande piacere un fiumicello che da una delle valli ,che divideva due di quelle piccole montagne, scorreva giù su rocce di pietra viva. Cadendo provocava un rumore molto gradevole e sembrava argento vivo. Quando l’acqua giungeva alla pianura si raccoglieva in un bel canaletto e giungeva velocissima al centro della pianura, dove formava un bel laghetto, come i vivai che si vedevano nei giardini di Firenze. Il laghetto non era molto profondo, mostrava chiarissimo il fondo, con una ghiaia piccolissima, i cui ciottoli si sarebbero potuti contare. Non si vedeva nell’acqua soltanto il fondo, ma tanti piccoli pesci che andavano di qua e di là, come se chiacchierassero, cosa straordinaria.
Sull’altra riva ,il laghetto era chiuso dal suolo del prato, tanto più verde, quanto più era umido. L’acqua in eccesso finiva in un altro canaletto , che uscendo dalla valle, correva verso le parti più basse.
Lì giunte, le donne, dopo aver ammirato il luogo, poiché faceva molto caldo, vedendo il laghetto, senza timore di esser viste, decisero di bagnarsi. Dopo aver comandato alla fantesca di rimanere sulla strada e di avvisarle se arrivava qualcuno, tutte e sette si spogliarono ed entrarono in esso.
Il lago era così trasparente che nascondeva i loro corpi come un bicchiere di vetro una rosa rossa.
Esse, senza provare alcuna vergogna, cominciarono ad inseguire i pesci, cercando di prenderli con le mani.
Dopo essersi trattenute in acqua per un certo tempo ed aver catturato alcuni pesci, essendo ormai giunta l’ora di ritornare a casa, uscirono dall’acqua e si misero in cammino  a passo lento, parlando della bellezza del luogo.
Giunte presto al palazzo, trovarono i giovani che stavano giocando dove li avevano lasciati.
Pampinea disse loro che li avevano ingannati e raccontò da dove venivano, com’era il luogo e a quale distanza si trovava. Il re, sentendo parlare della bellezza del luogo, desideroso di vederlo, ordinò rapidamente la cena.
Dopo aver cenato, i tre giovani, con i loro servi ,lasciate le donne, andarono alla valle, che ritennero una delle più belle del mondo.
Poi, dopo che si furono bagnati e rivestiti, tornarono a casa, dove trovarono le donne che danzavano su un’aria cantata da Fiammetta. Con loro lodarono la bellezza della Valle delle Donne.
Subito dopo il re ordinò al siniscalco che la mattina seguente apparecchiasse nella Valle e facesse portare anche qualche letto, se qualcuno volesse dormire o riposare fino al pomeriggio. Ordinò. Inoltre, di accendere i lumi e di portare vino e dolci.
Dopo essersi rifocillati, il re ordinò ai giovani di ballare e chiese ad Elissa di cantare una canzone.
Elissa, sorridendo, con dolce voce cominciò a cantare una canzone in cui chiedeva ad Amore, suo signore, che l’aveva imprigionata con le sue catene, di liberarla dalle pene d’amore. Soltanto così avrebbe potuto rimuovere il dolore e ritrovare tutta la sua bellezza. Ella terminò il canto con un sospiro.
Tutti si meravigliarono delle parole, ma nessuno poté comprendere il motivo di tale canto.
Il re, molto allegro, fece chiamare Tindaro e gli comandò di prendere la sua cornamusa e suonare mentre le danze proseguivano.
Trascorsa buona parte della notte, disse a tutti di andare a dormire.


























 



















Finisce qui la Sesta Giornata del Decameron e incomincia la Settima, nella quale, sotto il comando di Dioneo si ragiona delle beffe, le quali per amore o per salvarsi le donne hanno fatto ai loro mariti, senza
che essi se ne accorgessero o essendosene accorti.








giovedì 11 dicembre 2014

SESTA GIORNATA - NOVELLA N.10

SESTA GIORNATA – NOVELLA N.10

Frate Cipolla promette a certi contadini di mostrare loro la penna dell’Angelo Gabriele, al posto della quale trovando carboni, dice che quelli erano i carboni che arrostirono San Lorenzo.

Avendo tutti componenti della brigata finito di raccontare, era arrivato il turno di Dioneo che, senza aspettare alcun ordine, cominciò a parlare rivolgendosi alle vezzose donne.
Disse che, pur avendo libertà di scegliere l’argomento della sua novella, voleva rimanere nel tema del giorno.
Voleva ,infatti, mostrare come uno dei frati di Sant’Antonio, con spirito pronto, riuscì a sfuggire allo scorno che gli avevano preparato due giovinastri.
Non si dovevano infastidire perché la novella era un po’ più lunga; era ancora presto e il sole era a metà del cielo.
Continuò dicendo che Certaldo, come tutti sapevano, era un castello di Valdelsa, nella campagna fiorentina, che, sebbene piccolo, fu abitato da uomini nobili e ricchi.
Perché da quel castello si ricavavano buone offerte, vi si recava, una volta all’anno, per raccogliere le elemosine fatte dagli sciocchi abitanti, uno dei frati di Sant’Antonio, il cui nome era frate Cipolla, perché quel terreno produceva cipolle famose in tutta la Toscana.
Frate Cipolla era piccolo di persona, con i capelli rossi, sorridente, il miglior brigante del mondo. Oltretutto, pur essendo ignorante, era un grande e arguto parlatore, tanto che chi l’avesse conosciuto avrebbe pensato che fosse Cicerone stesso o Quintiliano. Era compare di quasi tutti gli abitanti della contrada.
Secondo la sua abitudine, nel mese di Agosto, il frate andò a Certaldo una domenica mattina, quando tutti gli uomini e le donne del circondario si erano recati nella canonica a sentir messa.
Quando gli sembrò opportuno, si fece avanti e ricordò ai parrocchiani che era loro usanza ogni anno mandare ai poveri di Sant’Antonio offerte di grano e di biade, chi poco e chi molto, secondo la grandezza della proprietà e della devozione; tanto offrivano perché Sant’Antonio custodisse i buoi, gli asini, i porci e le pecore loro.
Oltre a ciò, ricordò che essi pagavano, una volta all’anno, una piccola somma in denaro, soprattutto gli iscritti alla Compagnia di Sant’Antonio. Egli era stato incaricato dall’Abate della riscossione di tali cose, perciò circa alle tre del pomeriggio, quando avrebbero sentito suonare le campane, tutti dovevano uscire dalla chiesa nella strada dove, al solito modo, avrebbe fatto una predica e avrebbe fatto baciare loro la Croce.
Inoltre, poiché sapeva che erano devotissimi di Sant’Antonio, per concessione speciale avrebbe mostrato loro una santissima reliquia, che aveva portato con sé dall’Oriente. La reliquia era una delle penne dell’Angelo Gabriele, che era rimasta nella camera di Maria Vergine, quando l’angelo era andato a Nazareth per l’Annunciazione. Detto ciò tacque e ritornò a celebrare la Messa.
Quando frate Cipolla diceva tali cose vi erano in chiesa, insieme agli altri, due giovani molto astuti, l’uno chiamato Giovanni del Bragoniera e l’altro Biagio Pizzini. Essi ,dopo aver riso un po’ della storia della reliquia, sebbene fossero suoi amici, decisero di fargli un brutto scherzo.
Avendo saputo che il frate la mattina pranzava al castello con un suo amico, come sentirono che era a tavola, scesero in strada ed andarono all’albergo dove il frate era alloggiato. Biagio doveva intrattenere il servitore di frate Cipolla, mentre Giovanni doveva cercare tra le cose del frate la famosa penna e sottrargliela, per vedere che cosa poi  egli avrebbe detto al popolo.
Frate Cipolla aveva un servo ,da alcuni chiamato Guccio Balena, da altri Guccio Imbratta e da altri ancora Guccio Porco, che era così stupido che nemmeno Lippo Topo, che era così stupido, ne aveva combinate tante. Spesse volte ,con la sua brigata, lo prendeva in giro dicendo che quel suo servo aveva in sé nove cose, che se una sola di esse l’avesse avuta Salomone o Aristotele o Seneca, avrebbe guastato ogni loro virtù, ogni loro giudizio, ogni loro moralità.
Avendogli più volte domandato quali fossero queste nove cose, messele in rima, rispondeva “ Egli è lento, sporco e bugiardo; negligente, disobbediente e maldicente; trascurato, smemorato e scostumato. Inoltre ha altri piccoli difettucci che è meglio tacere. Infine, quello che fa ridere di più è che vuole, a tutti i costi, prender moglie e lasciare la casa a pigione. Poiché ha una barba grande, nera e unta, si sente tanto bello e gradevole che pensa che tutte le donne che lo vedono si innamorino di lui  e, se lo lasciano ,corre loro dietro a tutte, perdendo anche la cintura.   
In verità mi è di grande aiuto perché ,se c’è qualcuno che mi vuol parlare in segreto, egli vuol sentire tutto.
Se sono interrogato su qualche cosa, ha tanta paura che io non sappia rispondere, che subito risponde si o no, come gli sembra opportuno”.
A quel servo, lasciandolo in albergo, il frate aveva raccomandato di controllare che nessuno toccasse le sue cose, soprattutto, le bisacce, dove erano le cose sacre.
Ma Guccio Imbratta desiderava stare in cucina più che l’usignolo sui verdi rami, specialmente se c’era una serva. Nella cucina dell’oste ne aveva vista una grassa, grossa, piccola e sgraziata, con un paio di poppe che parevano due cestoni per il letame, con un viso bruttissimo come quelli dei Baronci, tutta sudata, unta, che puzzava di fumo..
Subito, come un avvoltoio si gettava di solito su una carogna, lasciata la camera di frate Cipolla aperta e tutte le sue cose abbandonate, inseguì la serva. E, sebbene fosse Agosto, si sedette accanto al fuoco e cominciò a chiacchierare con quella, che si chiamava Nuta.
Le disse che era un gentiluomo, che aveva un sacco di fiorini, esclusi quelli che aveva prestato, che erano più o meno tanti, e che sapeva fare e dire tante cose, quante il suo padrone.
Non tenne conto del suo cappuccio, il quale era così unto che avrebbe potuto condire il pentolone della minestra d’Altopascio, del suo giubetto rotto e rappezzato intorno al collo e sotto le ascelle, tutto sporco con più macchie e più colori delle stoffe tartare e turche, delle scarpette tutte rotte, delle calze bucate. E continuò dicendo, come se fosse stato il re di Castiglione, che voleva rivestirla, rimetterla in forma e toglierla da quella sventura di stare a servire presso altri, senza alcuna ricchezza..
Voleva, infine, darle la speranza di una vita più fortunata e tante altre cose. Tutto ciò ,sebbene fosse stato detto con grande affetto, si trasformava in niente, come se fosse stato vento.
I due giovani, dunque, trovarono Guccio Porco occupato a far la corte a Nuta. Contenti di ciò, perché si erano risparmiati metà della fatica, senza nessuna difficoltà entrarono nella camera di frate Cipolla, che era aperta.
Per prima cosa cercarono la bisaccia, in cui era la penna; apertala, trovarono una piccola cassettina avvolta in un gran telo di seta. Nella cassettina trovarono una penna come quelle della coda di un pappagallo, che ritennero fosse quella che il frate aveva promesso di mostrare ai certaldesi.
Certamente egli poteva farlo credere perché le raffinatezze d’Egitto erano, allora, poco conosciute in Toscana, mentre, in seguito, erano arrivate in grande abbondanza, corrompendo tutto. Se erano poco conosciute in Italia, gli abitanti di quella contrada, perdurando la rozza onestà degli antichi, non le conoscevano per niente e non avevano mai visti, né uditi i pappagalli.
Tutti contenti i due giovani presero la penna e, per non lasciare la cassetta vuota, la riempirono con dei carboni, che avevano trovato in un angolo della camera.
Chiusero la cassetta e sistemarono ogni cosa come l’avevano trovata, senza essere visti. Poi se ne ritornarono con la penna e cominciarono ad aspettare ciò che il frate avrebbe detto, trovando carboni al posto della penna.
Gli uomini e le donne di umili origini che erano in chiesa, dopo aver udito che avrebbero visto la penna dell’angelo Gabriele, verso le tre del pomeriggio, finita la messa se ne tornarono a casa.
Ognuno lo disse al suo vicino, una comare all’altra, per cui , come ebbero finito di pranzare, un gran numero di uomini e di femmine accorse al castello, che a stento ci entravano, in attesa ansiosa di vedere la penna.
Frate Cipolla, dopo aver mangiato a sazietà e poi avendo dormito un po’, alzatosi poco dopo le tre e sentendo che era venuta una moltitudine di contadini col desiderio di vedere la penna, mandò a dire a Guccio Imbratta che, quando avesse sentito suonare le campane, doveva portare lassù le bisacce.
Guccio, strappato di mala voglia dalla cucina e dalla Nuta, faticosamente andò su ,portando le cose richieste. Giunto sulla collina, ansando perché il bere l’aveva fatto ingrassare, andato sulla porta della chiesa su comando del frate, cominciò a suonare con forza le campane.
Radunato tutto il popolo ,frate Cipolla, non essendosi accorto che le sue cose erano state smosse, cominciò la predica e, tenendo presente il suo obiettivo, disse molte parole.
Dovendo mostrare la penna dell’angelo Gabriele, fatta prima la confessione con grande solennità, fece accendere due grosse candele e con delicatezza, aprendo il telo, dopo essersi tolto il cappuccio, ne tirò fuori la cassetta. Dette prima alcune parole in lode dell’Angelo, aprì la cassetta. Come la vide piena di carboni, non sospettò che quella cosa fosse opera di Guccio Balena, perché non lo conosceva capace di tanto, né lo maledisse perché non aveva controllato che altri non lo facessero.
Se la prese ,tacitamente, con sé stesso perché lo aveva messo a guardia delle sue cose, ben sapendo che era negligente, disobbediente, trascurato e smemorato.
Senza cambiare colore, alzate le mani, disse a voce alta per essere udito da tutti “ O Iddio, sia sempre lodata la tua potenza”.
Poi, richiusa la cassetta, si rivolse al popolo dicendo “ Signori e donne, dovete sapere che quando io ero ancora giovane, fui mandato dal mio superiore in Oriente, per cercarvi oggetti particolari che, anche se non costano niente, sono più utili agli altri che a noi. Mi misi in cammino ,partendo da Vinegia, poi ,cavalcando per il reame del Garbo e per Baldacca, giunsi in Parione da dove, dopo un certo tempo, arrivai nella località di Sardigna. Ma perché vi sto indicando tutti i paesi che visitai? Giunsi ,dopo aver passato il Braccio di San Giorgio, in Truffia e in Buffia, paesi molto popolosi , e di lì nella terra di Menzogna, dove trovai molti nostri frati ed altri, i quali tutti per amor di Dio, sfuggendo la povertà, inseguivano la loro utilità, poco curandosi delle fatiche altrui, spendendo niente altro che parole. Poi passai in Abruzzo, dove gli uomini e le femmine vanno con gli zoccoli su per i monti, facendo le salsicce con le loro stesse budella. Poco oltre trovai genti che portavano il pane sui bastoni e il vino negli otri. Di lì giunsi alle montagne dei bachi ,dove le acque scorrono all’ingiù. E, in breve, tanto camminai che arrivai in India Pastinaca, là dove, vi giuro sull’abito che porto indosso, vidi volare i pennuti, cosa incredibile. Infine trovai quel buffone di Maso del Saggio, gran mercante, che schiacciava noci e vendeva gusci. Non avendo trovato quello che cercavo, poiché bisognava proseguire per mare, tornai indietro e arrivai in quelle terre sante, dove d’estate il pane freddo costa quattro denari e il caldo non costa niente. Qui incontrai il venerabile padre messer Nonmiblasmete Sevoipiace, degno patriarca di Gerusalemme. Egli, per rispetto all’abito di Sant’Antonio, che io ho sempre portato, volle che vedessi tutte le sante reliquie che aveva con sé; erano veramente tante che non ve le potrei assolutamente descrivere tutte.
Pure, per rallegrarvi, ve ne citerò alcune. Dapprima mi mostrò il dito dello Spirito Santo, poi il ciuffetto del Serafino che apparve a San Francesco, poi una delle unghie dei cherubini , una delle costole del “Verbum” e una delle vesti della Santa Fede Cattolica. E ,ancora, mi fece vedere alcuni raggi della stella cometa che apparve ai tre Magi in Oriente e un’ampolla del sudore di San Michele, quando combatté col diavolo, e la mascella della Morte di San Lazzaro ed altre.
Per questo  io gli copiai alcuni passi di Monte Morello in volgare e alcuni capitoli del Crapezio, che aveva a lungo cercato. Poi mi donò uno dei denti del Crocifisso e, in una piccola ampolla, il suono   delle campane del tempio di Salomone e la penna dell’angelo Gabriele, della quale vi ho già parlato, e uno degli zoccoli di san Gherardo di Villamagna ( il quale donai in Firenze a Gherardo di Bonsi, poco tempo fa).
Infine mi diede alcuni carboni con i quali fu arso il beatissimo martire San Lorenzo. Ho conservato devotamente tutte queste cose e le ho tutte. Il mio superiore non ha voluto che ve le mostrassi fino a che non fosse stato certificato che erano autentiche. Ora, per certi miracoli che esse hanno fatto e per certe lettere ricevute dal Patriarca, è sicuro della loro autenticità, perciò ha acconsentito che ve le mostri. Le porto sempre con me, temendo di affidarle ad altri.
In verità porto sempre con me la penna dell’angelo Gabriele, perché non si guasti, in una cassetta, e i carboni con i quali fu arrostito San Lorenzo in un’altra. Le due cassette si assomigliano molto ,per cui spesso viene presa l’una per l’altra, come è avvenuto ora. Perciò, credendo di aver preso la cassetta dov’era la penna, ho portato quella dov’erano i carboni.
Ritengo, comunque, che non si tratti di un errore, ma della volontà di Dio. Dio, infatti, pose nelle mie mani la cassetta con i carboni, ricordandomi io, appena adesso, che fra soli due giorni ci sarà la festa di San Lorenzo. Dio vuole che io, mostrandovi i carboni con i quali il Santo fu arrostito, riaccenda in voi la devozione per San Lorenzo. Per questo mi fece prendere, non la penna come volevo, ma i benedetti carboni spenti dal sangue del Santo. Per questo, figliuoli benedetti, toglietevi i cappucci e avvicinatevi qui per vederli devotamente.
Ma voglio che sappiate che chiunque sarà toccato da questi carboni con il segno della croce può vivere sicuro che per tutto quest’anno non sarà bruciato dal fuoco, senza che se ne accorga”.
Dopo aver detto ciò ,cantando una laude di San Lorenzo, aprì la cassetta e mostrò i carboni.
La folla dei fedeli, credulona, dopo averli visti, si accalcò tutta intorno a frate Cipolla, dando molte più offerte del solito, pregando che il frate li segnasse tutti.
Frate Cipolla, presi in mano i carboni, sopra i camicioni bianchi dei contadini, sopra i corpetti e sopra i veli delle donne cominciò a fare grandi croci, dicendo che sebbene i carboni si consumavano nel fare le croci, poi ricrescevano nella cassetta, così come egli aveva molte volte constatato.
In tal modo segnò con la croce tutti i certaldesi, con suo grandissimo vantaggio. Con questo accorgimento fece rimanere beffati coloro che, togliendogli la penna, avevano creduto di beffare lui.
I due briganti, che erano stati presenti alla predica e avevano udito la soluzione da lui trovata e quanto da lontano era partito con le parole, si erano sganasciati dalle risate.
Dopo che il popolo si fu allontanato, andarono da lui, gli raccontarono, con grande allegria, ciò che avevano fatto e gli restituirono la sua penna, che egli utilizzò l’anno successivo con lo stesso profitto che, in quel giorno, gli avevano procurato i carboni.  







giovedì 4 dicembre 2014

SESTA GIORNATA - NOVELLA N.9

SESTA GIORNATA – NOVELLA N.9

Guido Cavalcanti con un motto arguto e garbato offende certi cavalieri fiorentini che l’avevano circondato.

La regina, sentendo che Emilia aveva finito la sua novella e che restava da raccontare soltanto a lei e a Dioneo, che aveva avuto il privilegio di essere l’ultimo, cominciò a parlare.
Iniziò dicendo che due novelle che aveva pensato di dire erano già state raccontate, gliene rimaneva, comunque, da raccontare una ,che si concludeva con un motto tanto saggio che non se ne era sentito altro.
Continuò affermando che in Firenze, nei tempi passati, vi erano usanze assai belle e lodevoli, di cui, in quel tempo, non ne era rimasta nessuna a causa dell’avarizia che era cresciuta con le ricchezze e le aveva scacciate tutte.
Tra queste ce ne era una, per la quale i gentiluomini delle contrade si radunavano in diversi luoghi di Firenze, formavano brigate di un certo numero, facendo in modo che oggi l’uno, domani l’altro, e così in ordine, tutti potessero offrire un banchetto, ciascuno nel giorno stabilito, a tutta la brigata.
Spesse volte invitavano anche gentiluomini forestieri, quando capitava, e anche cittadini. E, nello stesso modo, almeno una volta all’anno si vestivano in maniera somigliante e con le persone più importanti cavalcavano per la città. Gareggiavano con le armi soprattutto durante le feste o quando arrivava in città qualche buona notizia di vittoria o d’altro.
Tra queste brigate ce n’era una di messere Betto Brunelleschi, nella quale Betto e i compagni avevano cercato di far entrare Guido ,figlio di messere Cavalcante dei Cavalcanti, a buon motivo. Infatti Guido, oltre ad essere uno dei migliori loici del mondo e ottimo filosofo naturalista (cose delle quali la brigata poco si curava), era ricchissimo ed era un gradevolissimo e garbato parlatore, molto abile ad esprimere con le parole le cose che ritenesse valide.
Messer Betto non c’era mai riuscito e , con i suoi compagni, riteneva che ciò succedesse perché Guido quando cominciava a fare il filosofo si astraeva dagli uomini . Teneva, poi, in gran conto la filosofia di Epicuro, per cui la gente del popolo diceva che egli voleva solo dimostrare che Dio non esisteva.
Un giorno Guido se ne partì dall’Orto di San Michele e andò per il Corso degli Adimari, fino a San Giovanni, tragitto che faceva spesso. Lì c’erano grandi tombe di marmo, che poi erano state portate in Santa Reparata, e molte altre intorno a San Giovanni. Egli si trovava tra le colonne di porfido, le tombe e la porta di San Giovanni, che era chiusa.
Messer Betto, venendo a cavallo con la sua brigata, vedendo Guido tra quelle tombe, propose di andare ad infastidirlo. Spronati i cavalli, prima che se ne accorgesse, lo circondarono scherzosamente e gli dissero “Guido, tu rifiuti di far parte della nostra brigata; ma quando avrai dimostrato che Dio non esiste, che cosa avrai fatto?”.
Guido, vedendosi circondato, subito rispose “Signori, voi a casa vostra mi potete dire ciò che vi piace”. E, posta la mano su una delle tombe, che erano grandi,  molto agilmente la scavalcò e ,liberatosi, se ne andò.
Tutti, guardandosi l’un l’altro, cominciarono a dire che Guido era uno stupido e ciò che aveva risposto non voleva dire nulla. Infatti si trovavano in un luogo che non aveva niente a che fare con loro, né con gli altri
cittadini e, tanto meno, con Guido.
Messer Betto, rivolto ai compagni, disse che erano loro gli stolti, che non avevano capito nulla. Invece Guido, con garbo e con poche parole, aveva detto la più grande villania del mondo, perché, se avessero guardato bene, quelle tombe erano le case dei morti, infatti in esse erano sepolti e dimoravano i morti. Se egli diceva che erano a casa loro, voleva dire che loro e gli altri uomini ignoranti, che non erano letterati, a confronto con lui e con gli uomini colti, erano peggio che uomini morti ,e, perciò, trovandosi lì, erano a casa loro.
Allora ciascuno comprese quello che Guido aveva voluto dire ,si vergognarono e non gli dettero mai più fastidio. Da quel momento in poi tennero in gran conto messer Betto, ritenendolo un brillante ed             intelligente cavaliere.


mercoledì 26 novembre 2014

SESTA GIORNATA - NOVELLA N.8

SESTA GIORNATA – NOVELLA N.8

Fresco consiglia alla nipote di non specchiarsi , se le persone spiacevoli, come diceva, le sembravano noiose da vedere.
La novella di Filostrato aveva fatto un po’ vergognare le donne che ascoltavano, sul cui viso comparve un velo di rossore. Poi, guardandosi l’un l’altra ,non poterono trattenersi dal ridere.
Finito il racconto, la regina, voltandosi verso Emilia, le fece segno di proseguire.
Ella precisò che un pensiero l’aveva distratta per molto tempo, per cui avrebbe narrato una novella più breve di quanto avrebbe fatto se avesse concentrato la sua attenzione sul novellare.
Iniziò, dunque, narrando di una giovane che era stata rimproverata dallo zio con un motto molto garbato, se l’aveva ben compreso.
Un tale, che si chiamava Fresco da Celatico, aveva una nipote chiamata con il vezzeggiativo di “Cesca”, che aveva un bel corpo e un bel viso, anche se non proprio angelici, come quelli che ogni tanto si vedevano.
Ella, dal canto suo, si credeva così bella e nobile, che aveva preso l’abitudine di criticare uomini ,donne e ogni cosa che vedeva, senza tener conto di sé stessa. Risultava , perciò, sgradevole , antipatica e odiosa a tutti; ed, oltre a ciò, era superba ,come se appartenesse ai Reali di Francia.
Quando camminava per la strada aveva una faccia così disgustata e storceva continuamente il muso, come se sentisse che tutte le persone che vedeva e incontrava puzzassero.
Tralasciando gli altri suoi modi sgradevoli, un giorno, mentre era tornata a casa ,dove era anche Fresco, postasi a sedere, non faceva altro che sbuffare. Allora Fresco le domandò perché, essendo un giorno di festa, era ritornata a casa così presto.
Al che ella ,tutta sorrisi e moine, rispose che era tornata così presto a casa perché, mai come in quel giorno, sulla terra aveva visto tanti uomini e donne così sgradevoli e non ne era passato uno per la strada che non le fosse risultato antipatico. Concluse che non c’era niente di peggio per lei che vedere persone sgradevoli, perciò se ne era ritornata così presto a casa.
Allora Fresco, al quale i modi altezzosi della nipote non piacevano per niente, le disse “ Figliuola ,se tanto ti dispiacciono le persone spiacevoli, se vuoi vivere lieta, non ti guardare mai nello specchio”.
Ma Cesca, vuota come una canna, che pensava di avere la saggezza di Salomone, non diversamente da come avrebbe fatto uno stupido montone, rispose che si voleva specchiare come le altre.
E così nella sua presunzione e nella sua stupidità  rimase e rimaneva ancora.





giovedì 20 novembre 2014

SESTA GIORNATA - NOVELLA N.7

SESTA GIORNATA – NOVELLA N. 7

Madonna Filippa , dal marito col suo amante trovata,chiamata in giudizio, con una pronta e piacevole risposta libera sé stessa, e fa modificare la legge.

Già Fiammetta taceva e ognuno ancora rideva per l’argomento originale con cui lo Scalza aveva nobilitato i Baronci, quando la regina fece cenno a Filostrato di iniziare la narrazione.
E Filostrato, rivolto alle donne, cominciò dicendo che era, senz’altro, una cosa bella saper parlare in ogni circostanza, ma era bellissimo saperlo fare quando le circostanze lo richiedevano.
Così seppe fare, appunto, la donna di cui avrebbe parlato, la quale, con la sua risposta, non solo divertì tutti gli ascoltatori, ma si liberò dai lacci di una morte vergognosa.
Nella terra di Prato era in vigore uno statuto, in verità biasimevole e crudele, che ordinava che fosse arsa la donna che fosse colta dal marito in flagrante adulterio con l’amante, al pari di una prostituta, che fosse stata per denari con qualunque uomo.
Mentre vigeva questa legge, avvenne che una gentildonna bella e molto innamorata, di nome madonna Filippa, una notte fu trovata da Rinaldo dei Pugliesi, suo marito, nelle braccia di Lazzarino dei Guazzagliotri, giovane nobile e bello di Prato, che l’amava nella stessa misura.
Rinaldo vedendo ciò, adirato, si trattenne a fatica dal gettarsi loro addosso e dall’ucciderli e, se non avesse temuto di essere condannato, seguendo l’impeto d’ira, li avrebbe uccisi.
Trattenutosi, dunque, pretese di ottenere la morte della sua donna, come prevedeva lo statuto di Prato.
Perciò trovò dei testimoni e, venuto il giorno, senza riflettere ulteriormente, accusata la donna, la fece chiamare in tribunale.
La donna, che era di animo generoso, come erano ,di solito, le donne molto innamorate, sebbene sconsigliata da parenti e amici, decise di comparire in giudizio e di confessare la verità. Preferiva morire coraggiosamente, piuttosto che vivere fuggendo vilmente e vivere in esilio, condannata in contumacia, indegna di un amante valoroso, come era colui, nelle cui braccia era stata la notte passata.
Accompagnata da un folto gruppo di donne e di uomini, che le consigliavano di negare, giunta davanti al podestà, gli chiese, con coraggio, di essere interrogata.
Il podestà, vedendola bellissima e molto garbata, e, come dimostravano le sue parole, di gran valore, cominciò ad avere compassione di lei. Temeva che ella potesse confessare qualche cosa per cui, nel rispetto della legge, dovesse condannarla a morte.
Dovendo, dunque, interrogarla in relazione a ciò di cui era accusata, le disse che Rinaldo, suo marito, l’aveva denunziata, perché diceva che l’aveva trovata in adulterio con un altro uomo ; chiedeva ,come previsto dallo statuto, che fosse punita con la morte.
Il giudice precisava che non poteva condannarla se ella non confessava, perciò la invitava a riflettere bene a ciò che rispondeva e a dire se era vero quello di cui il marito l’accusava.
La donna, senza scomporsi, con voce dolce rispose che era vero che Rinaldo, suo marito, l’aveva trovata, la notte passata, nelle braccia di Lazzarino, nelle quali, per l’amore grande che gli portava, era stata molte volte, né l’avrebbe mai negato.
Ma aggiunse che, come tutti sapevano, le leggi dovevano essere uguali per tutti e dovevano essere fatte con il consenso di coloro cui riguardavano.
Per quella legge non era avvenuto così, infatti essa puniva solo le donne, meschine, le quali potrebbero soddisfare molti uomini. Inoltre, mai nessuna donna aveva approvato tale legge, né era stata chiamata a farlo. Per quel motivo tale legge era ingiusta e crudele.
Proseguì dicendo che il giudice poteva applicarla con danno del corpo di lei e della propria anima. Ma lo pregava, prima di emettere il giudizio, di chiedere al marito se si era mai rifiutata di concedersi a lui, con tutta sé stessa, ogni volta che glielo aveva chiesto.
Rinaldo, senza aspettare che il podestà glielo chiedesse, rispose che la donna, senza alcun dubbio, gli aveva concesso tutta sé stessa per il suo piacere ogni volta che glielo aveva chiesto.
Allora la donna, prontamente, chiese al podestà “ Se mio marito ogni volta che ne ha avuto bisogno e gli è piaciuto si è preso tutto quello che ha voluto, di quello che è avanzato che cosa io ne avrei dovuto fare? Forse gettarlo ai cani? Non è stato molto meglio offrirlo ad un gentiluomo che amo, invece di lasciarlo perdere o guastare? “.
Tutti i pratesi lì accorsi, udendo la donna, risero e, immediatamente, quasi ad una voce, gridarono che la donna aveva ragione e diceva bene.
Prima di allontanarsi, con il parere favorevole del podestà, modificarono lo statuto crudele e lasciarono che esso si applicasse solo alle donne che tradissero i mariti per denaro.
 In conclusione Rinaldo, molto confuso, si allontanò dal giudizio, mentre la donna ,libera e lieta per aver aver evitato di essere arsa, se ne tornò trionfante a casa sua.







giovedì 13 novembre 2014

SESTA GIORNATA - NOVELLA N.6

SESTA GIORNATA – NOVELLA N. 6


Michele Scalza prova a certi giovani , come i Baronci sono i più nobili uomini del mondo o di Maremma e vince una cena.

Le donne ancora ridevano per la bella e arguta risposta di Giotto, quando la regina ordinò alla Fiammetta di continuare. Ed ella incominciò a parlare dicendo che il fatto che Panfilo avesse ricordato i Baronci, che tutte conoscevano bene, le aveva fatto ricordare una novella che avrebbe dimostrato la loro nobiltà, rimanendo nel tema della giornata.
Non era ancora passato molto tempo da quando era vissuto a Firenze un giovane , chiamato Michele Scalza.
Egli era l’uomo più simpatico e divertente del mondo e aveva sempre novelle insolite e originali da raccontare, perciò i giovani fiorentini, quando erano in comitiva, desideravano averlo con loro.
Un giorno, mentre era a Montughi, con un gruppo di amici, si cominciò a discutere su quali fossero gli uomini più nobili di Firenze e di più antica nobiltà. Alcuni dicevano gli Uberti, altri i Lamberti, e chi uno e chi un altro, come gli diceva la testa.
Udendoli, lo Scalza si mise a ridere, dicendo che erano degli stupidoni, che non sapevano che i geniluomini di più antica nobiltà, non solo di Firenze, ma di tutto il mondo o della Maremma, erano i Baronci, loro vicini di Santa Maria Maggiore.
Quando i giovani sentirono ciò, lo derisero dicendo che conoscevano bene ,come lui, i Baronci, e non li doveva
ingannare. Lo Scalza rispose che non intendeva ingannarli, ma diceva la verità. Aggiunse che se c’era qualcuno che voleva scommettere una cena e pagarla a chi vinceva, con sei compagni scelti dal gruppo, l’avrebbe scommessa volentieri; avrebbe accettato il giudizio di un giudice proposto da loro.
Tra quelli vi era un giovane ,che si chiamava Neri Vannini ,che disse di essere disposto a scommettere per vincere la cena. Si accordarono tutti per avere come giudice Piero di Fiorentino, nella cui casa si trovavano.
Andati da lui, gli raccontarono ogni cosa, desiderosi di veder perdere lo Scalza.
Piero, che era un giovane prudente, udite le parole di Neri, si rivolse allo Scalza e gli chiese come poteva dimostrare le cose che affermava. Prontamente lo Scalza rispose che avrebbe dimostrato quello che affermava in modo da convincere non solo Piero, ma anche colui che lo aveva negato.
Proseguì, poi, dicendo che, come tutti, sapevano, gli uomini più erano antichi , più erano nobili; egli avrebbe dimostrato che i Baronci erano gli uomini più antichi, così avrebbe vinto la disputa.
Tutti sapevano ,infatti, che i Baronci furono fatti da Dominedio al tempo in cui aveva cominciato ad imparare a dipingere, ma tutti gli altri uomini furono fatti quando Dio già sapeva dipingere.
A dimostrazione di ciò che diceva, li invitò a confrontate i Baronci e gli altri uomini.    
Dal confronto risultava evidente che, mentre gli altri uomini avevano visi armoniosi e ben proporzionati, i Baronci avevano visi lunghi e stretti, uno largo oltre misura, uno col naso molto lungo, uno col naso corto, alcuni col mento in fuori e rivolto in su e con le mascelle enormi, che sembravano quelle di un asino. E vi era un tale che aveva un occhio più grosso dell’altro, così come solevano essere i visi che facevano i bambini che imparavano a disegnare.
Perciò, come aveva detto loro, era evidente che Dominedio li aveva fatti quando imparava a dipingere, per questo i Baronci erano i più antichi e i più nobili degli altri uomini.
Tutti si ricordarono dell’aspetto dei Baronci, sia Piero, che era il giudice, sia Neri che tutti gli altri.
Avendo udito il divertente discorso dello Scalza, tutti cominciarono a ridere e affermarono che lo Scalza aveva ragione e aveva vinto la cena.
Infatti era vero che i Baronci erano i più nobili e i più antichi uomini che c’erano, non solo a Firenze ma nel mondo o in Maremma.
Perciò, concluse Fiammetta, aveva avuto ragione Panfilo, quando, volendo mostrare la bruttezza di messer Forese, aveva detto che era più brutto di uno dei Baronci.



giovedì 6 novembre 2014

SESTA GIORNATA - NOVELLA N.5

SESTA GIORNATA  -  NOVELLA N.5

Messer Forese da Rabatta e maestro Giotto , pittore, venendo dal Mugello, l’uno punge motteggiando l’aspetto smunto dell’altro.

Come Neifile tacque ,le donne mostrarono di essersi molto divertite per la risposta di Chichibio.
Subito Panfilo ,per volere della regina, si rivolse alle donne. Disse che spesso come la Fortuna nascondeva grandissimi tesori sotto vili arti, così la Natura nascondeva sotto uomini di aspetto bruttissimo meravigliosi ingegni. Il che si vedeva chiaramente in due cittadini fiorentini dei quali Panfilo voleva parlare.
L’uno si chiamava messer Forese da Rabatta, piccolo e sformato nel corpo, col viso piatto e cagnesco, che sarebbe sembrato orribile anche per uno qualsiasi dei Baronci, ma così esperto nelle leggi che fu ritenuto da molti uomini di cultura un vero pozzo di scienze.
L’altro, di nome Giotto, fu dotato di un ingegno tanto eccellente che sapeva dipingere ogni cosa data dalla natura ,creatrice e madre, con lo stilo o la penna o il pennello del tutto simile, che anzi sembrava proprio quella, tanto che quando gli uomini vedevano le cose dipinte da lui pensavano che fossero vere.
Giotto poteva essere ritenuto, a ragione, una delle luci della gloria fiorentina.
Aveva, infatti, ridato splendore all’arte del dipingere che , per molti secoli, era rimasta sepolta sotto gli errori di alcuni, che dipingevano per dilettare gli occhi degli ignoranti e non l’intelletto dei saggi. Era ancora più meritevole perché ottenne la gloria con grandissima umiltà, sempre rifiutando di essere chiamato maestro. Tale titolo, sebbene rifiutato, risplendeva in lui, mentre era desiderato e ambito da tanti altri che sapevano meno di lui. Ma, sebbene la sua arte fosse grandissima, egli non era nel corpo e nell’aspetto più bello di messer Forese.
Panfilo proseguì dicendo che , avendo messer Forese e Giotto dei possedimenti nel Mugello, messer Forese era andato a vedere i suoi, nel periodo estivo, durante le ferie.
Per caso, mentre andava su un ronzino, incontrò Giotto, il quale, avendo visitato le sue terre, se ne tornava a Firenze. Tutti e due, mal conciati, sia per la cavalcatura che per il resto, come due vecchi se ne andavano insieme, facendosi compagnia.
All’improvviso scoppiò un temporale, per sfuggire alla pioggia, più velocemente che potevano, si rifugiarono nella casa di un contadino loro amico e conoscente.
Dopo un certo tempo, poiché non smetteva di piovere e dovevano essere in giornata a Firenze, fattisi prestare due mantellacci vecchi e due cappelli molto consumati, ché migliori non ve ne erano, cominciarono a camminare. Camminarono per un po’ e si inzupparono tutti di fango per gli schizzi che i ronzini facevano con gli zoccoli, andando nelle pozzanghere; la qual cosa non accrebbe la loro rispettabilità.
Rischiaratosi il tempo, dopo un lungo silenzio, ricominciarono a parlare.
Messer Forese, cavalcando e ascoltando Giotto, che era un ottimo conversatore, cominciò a guardare il maestro dal capo ai piedi, dappertutto. Vedendolo così brutto e malridotto, senza pensare al proprio aspetto, cominciò a ridere e disse “ Giotto, tu pensi che, se, per caso, ci venisse incontro un forestiero che non ti avesse mai visto, crederebbe che tu sei il migliore pittore del mondo, come ,in realtà,  sei?”.
E Giotto, prontamente, gli rispose “Messere, forse che egli, guardando voi, potrebbe credere che sapete l’abicì?”. Udendo ciò messer Forese riconobbe il suo errore e si vide ripagato con la stessa moneta.




giovedì 30 ottobre 2014

SESTA GIORNATA - NOVELLA N.4

SESTA GIORNATA – NOVELLA N. 4

Cichibio, cuoco di Corrado Gianfigliazzi, con un’arguta risposta in sua discolpa, trasforma in riso l’ira di Corrado e scampa sé stesso dalle minacce di Corrado.

Finito il racconto di Lauretta, piacevolmente commentato, la regina diede ordine di continuare a Neifile.
La giovane cominciò dicendo che, sebbene l’ingegno pronto offriva parole belle e utili a chi parlava, la fortuna, alcune volte aiutava i paurosi, offrendo loro sulla lingua parole che chi parlava non avrebbe mai potuto trovare in situazioni tranquille, come voleva, appunto, dimostrare con la sua novella.     
Corrado Gianfigliazzi, come tutte loro avevano udito e veduto, era stato in Firenze un cittadino importante che si era dilettato di fare vita cavalleresca, andando continuamente a caccia con i suoi cani.
Egli con un suo falcone aveva ammazzato una gru , presso Peretola. Vedendo che era bella grassa e giovane, la mandò al suo cuoco veneziano, chiamato Chichibio, dicendogli che la arrostisse ben bene per la cena.
Chichibio, che sembrava un sempliciotto, preparò la gru, la mise sul fuoco e, prontamente, la cominciò a cuocere. Quando la gru era quasi cotta e mandava un ottimo profumo, una donnetta della zona, di nome Brunetta, di cui Chichibio era molto innamorato, entrò in cucina e, sentendo l’odore della gru e vedendola, pregò insistentemente Chichibio di dargliene una coscia.
Chichibio rispose ,in veneziano, che non l’avrebbe mai avuta da lui.
Brunetta ,offesa, ribatte che se non gliel’avesse data, non avrebbe avuto più niente che gli piacesse da lei.
Alla fine il giovane, per non rattristare la sua donna, staccata una delle cosce della gru, gliela diede.
Servì, poi, a cena a Corrado e ad un suo ospite la gru senza una coscia.
Corrado, meravigliatosi di ciò, gli domandò dove fosse finita l’altra coscia della gru.
Il veneziano bugiardo ,prontamente, rispose che le gru avevano una sola coscia e una sola gamba.
Corrado, turbato, rispose che non era possibile e che non era la prima volta che vedeva una gru.
Chichibio insistette e aggiunse che ,se il gentiluomo avesse voluto, glielo avrebbe fatto vedere dal vivo.
Corrado, per amore dei suoi ospiti, non volle continuare a discutere. Disse, comunque, che quella mattina stessa voleva andare a verificare se quello che il cuoco diceva  e che egli non aveva mai visto né sentito era vero. Giurava , sul corpo di Cristo, che se Chichibio aveva detto una menzogna lo avrebbe fatto conciare in tal maniera che ,finché fosse rimasto in vita, non avrebbe più dimenticato il nome di Corrado.
La mattina dopo, sul far del giorno, Corrado, la cui ira non era ancora svanita per il sonno, si alzò e comandò che fossero portati i cavalli.
Fatto montare Chichibio su un ronzino, lo condusse verso il fiume, sulla cui riva ogni giorno all’alba si vedevano le gru. Precisò che avrebbero presto visto chi aveva mentito la sera precedente se Chichibio o egli stesso.
Chichibio, vedendo che l’ira di Corrado ancora durava e che doveva dar prova di aver detto la verità, non sapendo come fare, cavalcava dietro al padrone, pieno di paura. Se avesse potuto, sarebbe fuggito, ma non potendo, guardava ora avanti, ora indietro, sicuro di vedere tutte le gru poggiate su due piedi.
Ma, giunti vicino al fiume, vide sulla riva ben dodici gru, le quali erano tutte ritte su un solo piede, come erano solite fare quando dormivano. Immediatamente le mostrò a Corrado dicendogli “ Messere, potete ben vedere come ieri sera io dissi la verità, che le gru hanno una sola coscia e un sol piede, come vedete guardando quelle che stanno là”.
Corrado gli disse di aspettare, perché gli avrebbe dimostrato che di gambe ,le gru, ne avevano due. E, fattosi più vicino a loro, gridò “Ho, ho”.
A quel grido le gru, mandato giù l’altro piede, cominciarono a fuggire..
Allora Corrado rivolto a Chichibio gli disse che era un imbroglione e doveva ammettere che le gru di gambe ne avevano due.
Chchibio, sbalordito, non sapendo egli stesso da dove gli venisse la risposta, replicò “Messere, è vero, ma voi ieri sera non gridaste “Ho, ho” ; che se aveste gridato come adesso, la gru ,sicuramente, avrebbe mandato fuori l’altra coscia e l’altro piede, come hanno fatto queste”.
 A Corrado quella risposta piacque tanto che trasformò in allegria e in riso tutta la rabbia e rispose, che Cichibio aveva proprio ragione, così avrebbe dovuto gridare la sera prima.
Così, dunque, la pronta e divertente risposta evitò a Chichibio la cattiva sorte e lo rappacificò con il suo padrone.







giovedì 23 ottobre 2014

SESTA GIORNATA - NOVELLA N.3

SESTA GIORNATA – NOVELLA N.3

Madonna Nonna dei Pulci con una risposta adatta impone silenzio al motto scortese del vescovo di Firenze.

Quando Pampinea finì di raccontare la novella, tutti apprezzarono la risposta di Cisti.
La regina invitò Lauretta a continuare ed ella iniziò dicendo che avevano detto il vero Pampinea e Filomena, quando parlavano della bellezza dei motti. La loro natura doveva essere tale da mordere l’uditore come mordeva una pecora, non come mordeva un cane: perché se il motto avesse morso come un cane non sarebbe stato un motto, ma una villania. Così fecero le parole di madonna Oretta e la risposta di Cisti.
In verità, se chi rispondeva mordeva come un cane, voleva dire che prima era stato morso come da un cane. Perciò bisognava guardare come, quando, con chi e dove si motteggiava.
A tale proposito voleva raccontare come, prestando a queste cose poca attenzione, un loro prelato aveva ricevuto un morso non inferiore a quello che aveva dato.
Mentre era vescovo di Firenze Antonio d’Orso, valoroso e saggio prelato, venne a Firenze un gentiluomo catalano, chiamato messer Diego della Ratta, ufficiale di re Roberto d’Aragona, bellissimo di corpo e gran conquistatore di donne. Tra le donne fiorentine gliene piacque una, che era assai bella ed era la nipote del fratello del vescovo. Avendo sentito che il marito di lei era avarissimo e cattivo, sebbene fosse di buona famiglia, concordò con lui che gli avrebbe dato 500 fiorini d’oro, se l’avesse lasciato giacere una notte con la moglie.
Poi, fatte dorare delle monete di poco valore gliele diede, dopo aver giaciuto con la donna, sebbene contro la volontà di lei.
Saputasi la cosa, al marito malvagio rimasero il danno e le beffe.
Il vescovo, saggiamente, finse di non aver sentito niente.
Essendo divenuti molto amici, il vescovo e l’ufficiale, il giorno di San Giovanni, mentre cavalcavano uno accanto all’altro, videro, nella strada dove si correva il palio, delle donne. Tra esse vi era una giovane, che la pestilenza successivamente ,ormai anziana, aveva ucciso, che si chiamava madonna Nonna dei Pulci, fresca, bella e di grande spirito. Il vescovo che, poco tempo prima, aveva celebrato le sue nozze in Porta San Pietro, la mostrò all’ufficiale. Poi le si avvicinò e le chiese “Nonna, che ti sembra di costui? Crederesti che egli ti possa vincere?”.
 A madonna Nonna sembrò che quelle parole offendessero la sua onestà alla presenza di tante persone che l’avevano udito. Perciò, volendo ricambiare colpo su colpo, rispose prontamente “ Messere, forse egli non vincerebbe me, ma vorrei essere pagata con una moneta vera, non falsa”.
Udite queste parole, il capitano e il vescovo, ugualmente colpiti, l’uno perché aveva ingannato la nipote del vescovo, l’altro perché aveva finto di ignorare l’offesa fatta alla nipote del proprio fratello, senza guardarsi, vergognosi e in silenzio, se ne andarono, senza dirle più niente.
Così, dunque, la giovane, essendo stata morsa, non evitò di mordere gli altri, rispondendo con un motto.





giovedì 16 ottobre 2014

SESTA GIORNATA - NOVELLA N.2

Cisti fornaio con una sola parola fa ravvedere messer Geri Spina di una sua frase azzardata.

La frase pronunciata da madonna Oretta fu molto lodata sia dalle donne che dagli uomini.
Subito dopo la regina ordinò a Pampinea di proseguire; ed ella incominciò dicendo che non sapeva bene se sbagliava più la natura, mettendo un’anima nobile in un corpo vile, o la fortuna, dando un lavoro umile ad un uomo dotato di anima nobile.
Come era, appunto ,accaduto con Cisti, cittadino di Firenze, e con molti altri uomini ancora.
La fortuna fece fornaio Cisti, fornito di altissimo ingegno.
Pampinea aggiunse che certamente avrebbe maledetto sia la natura che la fortuna, se non avesse saputo che la natura era attentissima e la fortuna aveva mille occhi, anche se gli sciocchi la raffiguravano cieca.
Entrambe facevano come spesso facevano i mortali che, incerti del futuro, nascondevano le loro cose più care nei luoghi più sporchi e abbandonati delle loro case. Di lì ,poi, le traevano quando ne avevano bisogno, avendole conservate, in quei luoghi abbandonati ,meglio che in una bella camera. Così la natura e la fortuna, che reggevano il mondo, spesso nascondevano le loro cose più care all’ombra dei mestieri ritenuti più umili, in modo che, portate alla luce in caso di necessità, apparisse più chiaro il loro splendore. Come avvenne con Cisti fornaio che con una piccola frase fece rifletter messer Geri Spina.
A dimostrazione di ciò avrebbe raccontato una novella molto breve, che le era ritornata alla mente, parlando di madonna Oretta, che era la moglie di Geri Spina.
Durante il pontificato di papa Bonifacio VIII, dal quale Geri Spina era molto stimato, il papa mandò a Firenze alcuni suoi nobili ambasciatori per concludere degli affari.
Durate la loro permanenza in casa di messer Geri, quasi ogni mattina, trattando i loro affari, tutti insieme passavano davanti alla chiesa di Santa Maria Ughi, dove Cisti fornaio aveva il suo forno ed esercitava personalmente la sua arte. Egli la esercitava così bene che, sebbene la fortuna gli avesse dato un’arte così umile, pure era diventato ricchissimo e, non volendola abbandonare per nessun’altra, viveva splendidamente, avendo anche i migliori vini che si potevano trovare in Firenze e nel contado.
Cisti, vedendo passare ogni mattina davanti alla sua porta messer Geri e gli ambasciatori del papa, poiché faceva molto caldo, pensò che sarebbe stata cosa molto cortese dar loro da bere un buon bicchiere del suo vino bianco.
Considerata la sua condizione e quella di messere Geri, non osò invitarlo ma pensò di fare in modo che il  gentiluomo si invitasse da sé stesso.
Egli, avendo sempre indosso un gilè bianchissimo e un grembiule sempre fresco di bucato, che lo facevano sembrare più un mugnaio che un fornaio, ogni mattina, più o meno all’ora in cui erano soliti passare messer Geri e gli ambasciatori, si poneva davanti alla sua porta.
Si faceva portare lì una secchia nuova, piena di acqua fresca e una piccola brocca, fatta a Bologna, piena di buon vino bianco, con due bicchieri che parevano d’argento, tanto erano lucidi. Postosi a sedere, quando essi passavano, dopo aver sputato un paio di volte, cominciava a bere il suo vino, con tanto gusto che ne avrebbe fatta venir voglia anche ai morti.
Messer Geri, vista questa scena per due mattine, alla terza chiese al fornaio che cos’era ciò che stava bevendo e se era buono. Cisti ,alzatosi immediatamente, offrì al signore il vino, perché lo assaggiasse.
Messer Geri, che aveva una gran sete , per la calura e per il desiderio di saggiare il vino che Cisti beveva con tanto gusto, rivolgendosi agli ambasciatori, propose loro di saggiare insieme con lui il vino affertogli e si diresse verso Cisti.
Il fornaio, fatta portare una bella panca, li pregò di sedere. Poi, ai loro servitori, che già si facevano avanti per lavare i bicchieri, disse di allontanarsi ,perché avrebbe servito personalmente il vino, e di non permettersi di assaggiarne nemmeno una goccia.
Così detto, egli stesso, lavati quattro bicchieri, si fece portare una piccola brocca di buon vino e lo versò da bere a messer Geri e ai compagni.
A tutta la compagnia il vino sembrò il migliore di quello che avevano bevuto da lungo tempo e, finché gli ambasciatori si trattennero ,ogni mattina messer Geri, insieme a loro, andò a berlo.
Dovendo costoro partire, dopo aver concluso i loro affari, Messer Geri fece un magnifico banchetto, invitò tutti i cittadini più onorevoli di Firenze e anche Cisti, che assolutamente non volle andarvi.
 Messer Geri ordinò, allora, ad un suo servo di andare da Cisti con un fiasco, per farsi dare un po’ di vino , per darne, prima del pranzo, mezzo bicchiere ad ogni uomo. I servitore, forse sdegnato perché nei giorni precedenti
non aveva potuto saggiare il vino, prese un fiasco molto grande.
Appena Cisti lo vide, subito disse che non era messer Geri che lo mandava, perché quel fiasco doveva andarlo a riempire in Arno.
Quando il servitore riferì la risposta al suo padrone, egli volle vedere il fiasco che quello stupido servo aveva portato da riempire al fornaio.
Comprese che Cisti aveva ragione e, rimproverato il servo, gli fece portare un fiasco più piccolo.
Cisti, vedendolo, questa volta, credendo che veramente l’aveva mandato messer Geri, lietamente glielo riempì.
Poi, nello stesso giorno, fece riempire una piccola botte del suo vino, lo fece portare a casa del nobiluomo, accompagnando egli stesso il servitore.
Trovato Messer Geri,gli disse che non era stato spaventato dal gran fiasco che aveva mandato quella mattina. Ma, come aveva dimostrato ogni mattina, servendo il vino in piccole brocche, aveva temuto che messer Geri  avesse dimenticato che quello non era vino per la servitù e glielo aveva voluto ricordare.
La botte ,che aveva fatto portare ,era un dono tutto per lui e ne poteva fare quel che voleva.
Messer Geri gradì moltissimo il dono e lo tenne in gran conto. Ringraziò Cisti e, da quel momento ,lo stimò suo amico.




giovedì 9 ottobre 2014

SESTA GIORNATA - NOVELLA N.1

SESTA GIORNATA – NOVELLA N. 1

Un cavaliere dice a madonna Oretta di portarla a cavallo raccontandole una novella: e, dicendola disordinatamente, è da lei pregato di farla andare a piedi.

Filomena cominciò a raccontare dicendo che come le stelle erano l’ornamento del cielo sereno e in primavera i fiori ornavano i prati verdi e gli alberelli i colli, così i motti erano ornamenti dei bei ragionamenti. Essi, siccome erano brevi, erano più adatti alle donne che agli uomini, perché alle donne più che agli uomini non si addiceva parlare molto.
A quel tempo , in verità, non sapeva bene la ragione, o per malvagità dell’ingegno femminile o per volontà del cielo, erano rimaste ben poche donne che, al momento opportuno, sapessero dirne alcuno o comprenderlo, se era detto da un altro, il che era una vergogna per tutte le donne.
Ma ella, per far comprendere la bellezza dei motti, detti a tempo debito, avrebbe raccontato come una gentildonna con una frase garbata aveva fatto tacere un cavaliere.
Come tutte sapevano, viveva in quel tempo a Firenze una donna gentile, garbata e che sapeva parlar bene.
Si chiamava madonna Oretta ed era la moglie di Geri Spina.
Ella, per caso, se ne andava a spasso per la campagna, come stavano facendo loro, insieme con donne e cavalieri, che il giorno aveva avuto come ospiti a pranzo. Essendo ancora lungo il percorso per raggiungere il luogo dove avevano deciso di andare, uno dei cavalieri della brigata disse “ Madonna Oretta, quando lo vogliate, vi porterò, per gran parte della strada, a cavallo, raccontandovi una delle più belle fiabe del mondo”.
La donna accettò ben volentieri.
Il cavaliere, che non era per niente un buon cavaliere, padrone della lingua, cominciò una novella, la quale, di per sé, era bellissima. Ma egli, ripetendo tre, quattro, cinque volte la stessa parola, ritornando indietro, spesso sbagliando i nomi, mettendone uno al posto dell’altro, guastava enormemente il racconto, senza tener conto delle persone cui raccontava.
Madonna Oretta, udendolo, fu presa da un sudore e da uno sfinimento, come se stesse per morire.
Non potendo più resistere, accortasi che il cavaliere era entrato in confusione e non sapeva più uscirne, allegramente disse “ Signore, questo vostro cavallo ha un trotto troppo duro, perciò vi prego di farmi andare a piedi”.
Il cavaliere che, per fortuna, era miglior intenditore che narratore, compreso il motto e scherzando, cominciò a raccontare altre novelle, senza finire quella che aveva iniziato e mal narrato.





CONCLUSIONE QUINTA GIORNATA -INTRODUZIONE SESTA GIORNATA

QUINTA GIORNATA – CONCLUSIONE


Finita la novella di Dioneo, le donne risero poco ,per vergogna, anche se la storia era piaciuta.
La regina, visto che il racconto era finito, si tolse la corona d’alloro e la pose sul capo di Elissa, alla quale toccava di comandare.
Elissa, ricevuto l’incarico, fece come coloro che l’avevano preceduta.
Diede ordine al siniscalco di predisporre ciò che serviva per il periodo della sua signoria, con soddisfazione della brigata.
Comunicò ,poi, che il giorno seguente si sarebbe trattato di chi, provocato da una battuta, si era difeso con una pronta risposta, evitando un danno o un pericolo o uno scorno.
Dopo vari commenti dei presenti, la regina, alzatasi, licenziò tutti fino all’ora di cena.
Dopo che le cicale smisero di cantare, richiamati, andarono tutti a cena.
Per volere della regina, Emilia già aveva cominciato a danzare, mentre  Dioneo ebbe l’ordine di cantare una canzone. Egli comincio “Monna Aldruda ,levate la coda, ché buone novelle vi reco”.
Tutte le donne cominciarono a ridere, soprattutto la regina che ordinò di lasciare quella e di dirne un’altra.
 E Dioneo ne propose molte altre che non furono gradite alle donne, finché la regina gli intimò di smettere di scherzare e di dirne una bella, altrimenti si sarebbe adirata.
Il giovane, allora ,lasciate stare le sciocchezze, cominciò a cantare che egli era schiavo d’amore e degli occhi belli della sua donna. La fiamma d’amore, passando dagli occhi di lei ai suoi, lo aveva reso seguace e servo d’Amore. Ormai egli si consumava d’amore e si disfaceva a poco a poco. Perciò chiedeva ad Amore di intercedere con lei in suo favore.
Dioneo, finita la canzone, tacque.
Dopo diversi commenti, essendo ormai notte inoltrata, la regina, sentendo che il caldo del giorno era vinto dalla freschezza della notte, comandò a tutti di andare a riposare fino al giorno seguente.























































Finisce qui la Quinta Giornata del Decameron: incomincia la Sesta, nella quale, mentre è regina Elissa, si ragiona di chi, provocato da un leggiadro motto, si sia difeso e con una pronta risposta o considerazione abbia evitato un danno o un pericolo o uno scorno.


























SESTA GIORNATA . INTRODUZIONE

Era quasi giorno, la luna aveva perduto la sua luce, mentre il cielo si schiariva da ogni parte, quando la regina, alzatasi, fece chiamare tutta la compagnia.
Poi, tutti insieme, camminando lentamente sull’erba bagnata dalla rugiada, si allontanarono un po’ dal palazzo, discutendo della bellezza delle novelle raccontate.
Frattanto il sole si era alzato e l’aria si cominciava a riscaldare, perciò a tutti parve opportuno ritornare verso casa, dove erano già state apparecchiate le tavole per ordine della regina ,e tutti si misero a mangiare.
Dopo aver pranzato ed aver cantato delle belle canzonette, alcuni se ne andarono a dormire, altri a giocare a scacchi o a tavole. Dioneo insieme a Lauretta cominciò a cantare.
Giunta l’ora di riunirsi, al richiamo della regina, tutti, come erano soliti fare, si sedettero intorno alla fonte.
Mentre la regina stava per ordinare l’inizio della prima novella, avvenne una cosa che non era mai avvenuta prima. Si udì un gran rumore, provocato dai servitori e dai familiari in cucina.
Il siniscalco, interrogato, rispose che il rumore era provocato da Licisca e da Tindaro, ma non ne conosceva il motivo.La regina, fatti chiamare i due, cominciò ad interrogarli.
Mentre Tindaro si accingeva a rispondere, la Licisca, che era anzianotta e piuttosto superba e riscaldata, voltandosi verso di lui, con viso adirato, intimò a quella bestia di uomo di non permettersi di parlare prima di lei e di lasciarle la parola.
Disse, rivolta alla regina, che Tindaro voleva farle conoscere la moglie di Sicofante, come se ella non la conoscesse bene. Aggiunse che Tindaro le voleva far credere che la prima notte in cui Sicofante era giaciuto con la moglie messer Mazza fosse entrato in Monte Nero con la forza e con spargimento di sangue.
Lisisca sosteneva che non era vero, anzi il Mazza entrò pacificamente e con gran piacere di quelli che erano dentro. Era ben stupido Tindaro se credeva che le giovani fossero così sciocche e stessero a perder tempo aspettando che il padre o i fratelli le maritassero. Invece esse si davano da fare molto prima. Sarebbero state fresche se avessero aspettato che il padre o i fratelli le maritassero. Sulla fede di Cristo, poteva giurare che non conosceva fanciulla che non avesse beffato il promesso sposo e anche le maritate ne avevano fatte di tutti i colori ai mariti. E quel pecorone di Tindaro le voleva insegnare come erano fatte le femmine, come se fosse appena nata.
Mentre Lisisca parlava ,le donne si facevano grandi risate, senza riuscire a fermarsi.
La regina, faticosamente, riuscì ad imporre il silenzio ,e ,rivolta a Dioneo, ridendo, gli chiese di dare il suo parere.Dioneo subito rispose che Lisisca aveva ragione e Tindaro era una bestia.
Udendo ciò, Lisisca cominciò a ridere e, rivolgendosi a Tindaro, gli disse che andasse con Dio, stupido che non era altro, egli che, essendo ancora un ragazzino, pensava di saperne più di lei, che, perbacco, non era vissuta invano. E avrebbe continuato ancora a gridare se la regina non le avesse imposto il silenzio, minacciando di frustarla.
Mandati via i due, la regina ordinò a Filomena di dare inizio alle novelle.





giovedì 2 ottobre 2014

comunicato

Cari amici,
siamo giunti a metà del nostro percorso e desidero ringraziarvi per l'interesse e l'attenzione da voi dimostrate verso questo lavoro. La libera interpetrazione del Decameron del Boccaccio è presente integramente su Wikipedia (sez. Cyclopedia) alla voce Decameron.
Il blog "www.decameronapuntate.blogspot.it" ha ricevuto, ad oggi, 2 ottobre 2014, ben 6741 visite da tutto il mondo.
Riporto di seguito i dati più significativi:
Italia                5838 visite
USA                   438
Germania           111
Francia                46
Svizzera               35
India                    23
Argentina            22
Feder.Russa        22
Romania             21
Ucraina               21.
Il blog comincia ad essere usato anche nelle SCUOLE ed è un valido ausilio agli studenti per la comprensione del testo originario.
Grazie ancora e buona lettura.
Luciana De Lisa Coscioni
QUINTA GIORNATA – NOVELLA N.10

Pietro da Vinciolo va a cenare fuori; la sua donna fa venire in casa un giovane, torna Pietro, ella nasconde il giovane sotto una cesta di polli; Pietro racconta che è stato trovato nella casa di Ercolano, dove egli cenava, un giovane, nascosto dalla moglie; La donna biasima la moglie di Ercolano; un asino, per sciagura, mette un piede sulle dita di quello che era sotto la cesta, egli grida, Pietro accorre, lo vede e conosce l’inganno della moglie, con la quale, alla fine rimane in concordia per la sua ribalderia.

Il racconto della regina era finito e tutti avevano lodato Iddio che aveva degnamente compensato Federigo.
Subito  Dioneo, che non aspettava mai l’ordine, incominciò col dire che non sapeva se era per vizio o per crudeltà dei costumi umani o per peccato della natura  il ridere delle cattive cose piuttosto che delle buone opere, soprattutto quando queste non riguardavano direttamente ciascuno.
Egli, con il suo racconto, voleva soltanto allontanare la malinconia e portare riso e allegria, sebbene la materia della novella non era del tutto onesta.
Le donne della brigata, udendola, dovevano raccogliere le rose e lasciar stare le spine, , dovevano lasciar perdere l’uomo ,con la sua disonestà, ridere degli amorosi inganni della sua donna, avendo compassione delle sciagure degli altri.
Viveva in Perugia, non molto tempo prima, un ricco uomo, chiamato Pietro da Vinciolo, il quale ,più per ingannare gli altri e diminuire l’opinione negativa che tutti i perugini avevano di lui, che perché lo desiderasse, prese moglie.
La fortuna gli fece sposare una donna robusta e soda, con i capelli rossi e una carnagione colorita, che di mariti ne avrebbe voluti due, piuttosto che uno; invece il marito aveva rivolto l’attenzione ad un altro uomo, piuttosto che a lei.
Ella si accorse di ciò col passare del tempo, e, vedendosi bella e giovane e sentendosi piena di forze,  ne fu molto turbata  e litigò con il marito, rimproverandogli continuamente la sua vita dissoluta.
In seguito si rese conto che si consumava, ma non correggeva le cattive inclinazioni del marito.
Visto che il marito la abbandonava continuamente per continuare la sua vita disonesta, contro natura, decise di seguire la sua natura di donna. Considerò che lo aveva sposato, portandogli una ricca dote, sapendo che era un uomo e credendolo desideroso di quello che devono desiderare gli uomini, altrimenti non l’avrebbe mai sposato.
Si chiedeva perché , sapendo che era femmina, egli l’aveva presa in moglie se le femmine non gli stavano a cuore. Questo non lo poteva sopportare.
Si ripeteva, ancora, che ,se non voleva vivere nel mondo, si sarebbe fatta monaca, invece voleva vivere nel mondo e non voleva invecchiare aspettando di ricevere piacere dal marito. Non voleva doversi dolere, una volta divenuta vecchia, di aver perduto la sua giovinezza. Inoltre, voleva provare piacere secondo natura, mentre il marito con la sua dissolutezza offendeva le leggi e la natura.
Avendo a lungo meditato, per realizzare le sue intenzioni, la buona donna si confidò con una vecchia, che pareva santa Verdiana che dava da mangiare alle serpi; costei, sempre con un rosario in mano, dava le indulgenze ,non parlava d’altro che della vita dei Santi Padri e delle piaghe di San Francesco ed era ritenuta una santa da tutti.
La vecchia le rispose che Dio ,che conosce tutto,  sapeva che ella faceva molto bene. Non doveva perdere il tempo della sua giovinezza e rammaricarsene poi, dopo averlo perduto, in vecchiaia, quando le donne possono solo guardare le cenere intorno al focolare. La vecchia poteva testimoniare personalmente che provava gran rimorso per aver lasciato andare via il tempo; eppure non era una sciocca e si era data da fare come aveva potuto.E continuò dicendo che mentre gli uomini nascono buoni a fare mille cose, le donne nascono solo per fare l’amore e per fare figli  e per questo sono apprezzate. Si poteva ben vedere, infatti, come una donna poteva stancare molti uomini, mentre molti uomini non potevano stancare una donna.
La giovane faceva, dunque, bene a rendere al marito pan per focaccia, in modo da non doversi rimproverare nulla in vecchiaia. Le donne, a questo mondo, dovevano utilizzare bene il tempo, più che gli uomini, perché quando invecchiavano né il marito, né gli altri le volevano più vedere e le mandavano in cucina a raccontar favole con la gatta e a contare pentole e scodelle., dicendo “ Alle giovani i buoni bocconi e alle vecchie gli stranguglioni”.
Promise ,poi, di aiutarla ad ammorbidire e a recare da lei il giovane che avesse scelto.
Le chiese, infine, di essere partecipe delle sue preghiere e delle indulgenze in modo da farle valere in suffragio.
Le chiese, infine, di essere partecipe delle sue preghiere e delle indulgenze in modo da farle valere in suffragio dei morti di lei ,come lume o candela.
La giovane rimase d’accordo con la vecchia che, se avesse visto un giovinetto che passava spesso da quella strada, lo avrebbe condotto da lei.
Le regalò un pezzo di carne salata e la mandò con Dio.
La vecchia, dopo pochi giorni, di nascosto, le condusse in camera il giovinetto che ella aveva indicato e , dopo poco tempo, un altro, a seconda di come le piacevano, sempre con il massimo riserbo, temendo il marito.
Avvenne che il marito una sera doveva andare a cena da un suo amico, di nome Ercolano.
La giovane, approfittando di ciò, chiese alla vecchia di far andare da lei uno dei giovincelli più belli e gradevoli di Perugia. La vecchia così fece.
Mentre la donna e il giovane si erano messi a tavola per cenare, Pietro chiamò per farsi aprire la porta.
La moglie, sentendo la voce del marito, si ritenne morta.
Immediatamente fece nascondere il giovane sotto una cesta di polli ,che era su un terrazzino vicino alla camera,dove stavano cenando. Gettò sopra la cesta un grosso sacco, che quel giorno stesso aveva fatto vuotare. Ciò fatto, fece aprire al marito e gli chiese spiegazioni riguardo alla mancata cena presso l’amico.
Pietro allora le raccontò che la cena era saltata perché, dopo che si erano messi a tavola ,Ercolano, la moglie ed egli stesso, avevano sentito starnutire una prima ed una seconda volta; ma non vi avevano dato importanza.
Il terzo, il quarto e il quinto starnuto fecero meravigliare tutti, al punto che Ercolano, già sospettoso perché la moglie li aveva fatti aspettare a lungo davanti alla porta senza aprire, le chiese chi era che starnutiva.
Poi, alzatosi da tavola, andò verso una scala che era lì vicino, sotto la quale vi era un ripostiglio chiuso da tavole, dove si poteva riporre qualcosa, come facevano ogni giorno coloro che volevano riordinare la casa.
Sembrandogli che di lì venisse il suono di uno starnuto, aprì la porticina che era davanti.
Come l’ebbe aperta, subito ne uscì il più gran puzzo di zolfo del mondo, puzzo che già avevano sentito prima.
La donna aveva spiegato che, poco prima, aveva pulito i suoi veli con lo zolfo. Poi aveva messo  la teglia sulla quale l’aveva sparso sotto la scala, da cui proveniva l’odore.
Ercolano, dopo che aveva aperto la scala ed era uscito un po’ di puzzo, guardando dentro vide colui che aveva starnutito ed ancora starnutiva, costretto dallo zolfo che aveva respirato e continuava a starnutire ,come nessun altro avrebbe potuto. Ercolano lo vide e gridò contro la moglie che l’aveva ingannato, comprendendo perché ella li aveva tenuti tanto a lungo fuori dalla porta, e minacciò di fargliela pagare.
La donna, udendo le minacce, vedendo che il suo peccato era palese, alzatasi da tavola, fuggì non si sa dove.
Frattanto Ercolano, senza accorgersi che la moglie era fuggita, ordinò più volte a colui che starnutiva di uscire, ma il malcapitato non si poteva muovere.
Ercolano, allora, lo prese per i piedi, lo tirò fuori e corse a cercare un coltello per ucciderlo.
Ma Pietro, temendo le guardie, intervenne impedendo all’amico di ucciderlo e di fargli del male.
Nel mentre sopraggiunsero i vicini che condussero via il giovane.
La cena, turbata da tutti quegli eventi, non era stata, dunque, nemmeno assaggiata
La donna, udendo quelle cose, comprese che vi erano altre donne sagge come ella era e avrebbe volentieri preso le difese della donna di Ercolano con le parole. Invece, per sua tutela, ritenne opportuno inveire contro di lei violentemente, dicendo che sembrava una santarellina, molto spirituale e invece, ormai vecchia, dava un buon esempio alle giovani. Doveva essere una donna perfidissima, vergogna di tutte le donne della terra, che, gettata via la sua onestà e la fede promessa al marito, si era data ad un altro uomo. Proseguì dicendo che non si doveva aver pietà di tali donne, ma si dovevano mandare al rogo da vive e ridurle in cenere.
Poi, ricordatasi del suo amico che era lì vicino nascosto sotto la cesta, pregò Pietro di andare a letto, ché era ormai tempo.
Pietro ,che aveva più voglia di mangiare che di dormire, chiese se c’era qualcosa per cena.
La moglie rispose che c’era da cenare, ma era preferibile per quella sera che egli andasse a dormire.
Nel frattempo erano giunti dalla campagna alcuni lavoratori di Pietro ed avevano messo gli asini, senza dar loro da bere, in una piccola stalla, vicino al terrazzino.
Uno degli asini, per la grandissima sete, era uscito dalla stalla e andava fiutando ogni cosa per cercare l’acqua.
Così andando, si trovò proprio davanti alla cesta sotto la quale era il giovinetto.
Il giovane, poiché stava carponi da molto tempo, stese un po’ le dita d’una mano fuori dalla cesta e, per sua sventura, l’asino vi mise sopra un piede. Egli, sentendo un fortissimo dolore, lanciò un grande urlo.
Pietro, udendo l’urlo, che proveniva da casa sua ,e sentendo ancora urlare perché l’asino non aveva levato il piede dalle dita del giovane ma premeva forte, corse alla cesta. Scopertala, vide il giovinetto, che tremava tutto sia per il dolore delle dita, schiacciate dal piede dell’asino , sia per la paura che l’uomo gli facesse del male.
Pietro riconobbe immediatamente il giovinetto, come il giovane che egli aveva molto corteggiato per il suo vizio. Gli chiese che cosa facesse lì. Il ragazzo non rispose nulla, lo pregò soltanto di non fargli alcun male, per amor di Dio.
L’uomo lo rassicurò e si fece svelare ogni cosa, poi, presolo per mano, lo condusse nella camera ,dove l’aspettava la moglie molto spaventata.
Sedutosi davanti a lei, la rimproverò perché ,poco prima, aveva maledetto la moglie di Ercolano, dicendo che era la vergogna di tutte le donne e che avrebbero dovuto arderla, mentre ella si era macchiata della stessa colpa.
Considerava che le donne erano tutte così fatte che cercavano di coprire i propri errori con le colpe degli altri.
Si augurava, per conto suo, che le donne potessero essere arse, ché erano una pessima razza.
La donna vide che il marito dapprincipio non le aveva fatto altro male che con le parole e le sembrò che egli tutto si gongolava perché teneva per mano un così bel giovanotto. Allora, prese coraggio e disse “ Io sono ben certa che tu vorresti che venisse fuoco dal cielo e ci ardesse tutte, come colui che odia le donne, ma la croce di Dio questo non lo farà mai.. Ma vorrei un po’ ragionare con te per sapere di che cosa ti rammarichi. Starei sicuramente bene se tu mi volessi uguagliare alla moglie di Ercolano, che è una vecchia bacchettona ipocrita che il marito tiene ben cara , come si deve tenere una moglie. Io sono da te ben vestita e ben calzata, ma tu sai bene, come lo so io, da quanto tempo non giacesti con me. Vorrei piuttosto andare in giro vestita di stracci e scalza ma essere ben trattata da te a letto. E intendi bene, Pietro, io sono una donna come le altre e ho voglia di quello che vogliono le altre. Perciò , visto che tu non mi dai ciò che desidero, non puoi giudicarmi male se me lo procaccio altrove; almeno ,io ti faccio onore perché non mi metto né con servi, né con tignosi”.
Pietro comprese che quei discorsi potevano durare tutta la notte, perciò, poco curandosi di lei, le chiese se c’era qualcosa per cena ,perché nessuno aveva ancora cenato quella sera.
La donna rispose che era pronta la cena e che stavano per mettersi a tavola quando era arrivato.
Poi, alzatasi, su richiesta del marito, diede ordine di portare in tavola la cena già preparata e, insieme al marito vizioso e al giovane, lietamente cenò .
Dopo cena il narratore non ricordava che cosa avesse deciso Pietro per accontentare tutti e tre.
Sapeva soltanto che al mattino seguente il giovane giunse in piazza accompagnato dalla moglie e dal marito, non sapendo se la notte era stato più con la moglie o col marito.
Dioneo, infine, consigliò alle donne lì presenti di ricambiare ogni mala azione ricevuta e, se non potevano ricambiarla subito, di attendere il momento opportuno, così che l’asino ricevesse in cambio ogni colpo che dava contro la parete.