giovedì 25 dicembre 2014

SETTIMA GIORNATA - INTRODUZIONE

SETTIMA GIORNATA – INTRODUZIONE

Quasi tutte le stelle erano scomparse, tranne Lucifero, perché ormai albeggiava, quando il siniscalco, alzatosi, andò con molti viveri alla Valle delle Donne per disporre ogni cosa secondo gli ordini del suo signore.
Dopo poco si alzò anche il re, svegliato dal frastuono dei servi e delle bestie, frastuono che fece svegliare anche tutti i giovani e le donne.
Non erano spuntati ancora completamente i raggi del sole che già tutti si erano messi in cammino, mentre gli usignuoli e gli altri uccelli cantavano allegramente, come non mai, accompagnandoli con il loro canto fino alla valle.
Quivi giunti, la visitarono nuovamente con grande attenzione ed essa parve loro ancora più bella del giorno precedente, perché l’ora era più adatta.
Dopo che ebbero fatto colazione con buon vino e con dolciumi, perché non fossero superati dal canto degli uccelli, cominciarono a cantare, accompagnati dalle dolci note degli uccelli,mentre l’eco ripeteva le loro stesse canzoni.
Giunta l’ora del pranzo, messe le tavole sotto gli alberi ombrosi, si sedettero intorno al laghetto, come volle il re. Mentre mangiavano vedevano i pesciolini muoversi nell’acqua a schiere e ne discutevano.
Finito il pranzo, tolte le tavole, ancora più lieti di prima cominciarono a cantare.
Frattanto il siniscalco aveva fatto disporre in più luoghi della piccola valle letti ricoperti di stoffe leggere e circondati da tende chiuse, per cui, con il permesso del re, chi voleva poteva andare a dormire; chi non voleva si dedicò ai soliti giochi di società, come gli piaceva.
Dopo che si furono svegliati, venuta l’ora del novellare, come volle il re, tutti si riunirono intorno al laghetto, vicino a dove avevano mangiato, e si sedettero su tappeti distesi sull’erba.
Il re comandò ad Emilia di cominciare ed ella ,sorridendo lietamente, iniziò a raccontare la prima novella della giornata.







mercoledì 17 dicembre 2014

SESTA GIORNATA - CONCLUSIONE

SESTA GIORNATA – CONCLUSIONE

La novella appena narrata offrì alla brigata grandissimo divertimento e fece ridere tutti di frate Cipolla, del suo pellegrinaggio e delle reliquie.
La regina, sentendo che era finita, alzatasi, si tolse la corona e la mise sul capo di Dioneo esortandolo a reggere e a guidare le donne, in modo che, al termine della sua reggenza, esse lo potessero lodare.
Dioneo, presa la corona, ridendo, rispose che egli non era prezioso come il re degli scacchi, che tutti ben conoscevano, ma avrebbe fatto del suo meglio per accontentarle.
Poi , fatto venire il siniscalco, ordinò tutto quello che doveva esser fatto nel periodo della sua signoria. Rivolgendosi, infine, alle donne disse loro che la presenza di donna Licisca gli aveva suggerito il tema delle novelle del giorno seguente. Ella aveva detto che non c’era stata una fanciulla che fosse andata vergine al matrimonio e che conosceva tutte le beffe che le maritate facevano ai mariti.
Perciò, ritenendo che donna Licisca ne avesse fornito il motivo, stabiliva che l’indomani si sarebbe narrato delle beffe che, per amore o per salvarsi, le donne avevano fatto ai loro mariti, sia che essi se ne fossero accorti, sia che non se ne fossero accorti.
Alcune donne, che non erano d’accordo ,temendo che fosse un argomento sconveniente per loro, lo pregarono affinché cambiasse la proposta.
Dioneo rispose che ben comprendeva la difficoltà del tema trattato, ma non avrebbe cambiato idea, ritenendo che, in tempi come quelli, ogni discorso era consentito agli uomini e alle donne che evitavano di comportarsi disonestamente.
Esse sapevano che, per la pestilenza di quel tempo, i giudici avevano abbandonato i tribunali, le leggi divine e umane tacevano e ,per sopravvivere ,era concessa ad ognuno massima libertà di costumi .Perciò se si era un po’ più liberi e spinti nel raccontare, non per fare cose sconvenienti ,ma solo per divertire loro e gli altri, non  vedeva alcun motivo valido per essere rimproverati ,in futuro, da qualcuno.
Del resto la loro brigata, fino a quel momento, non si era macchiata di alcun atto sconcio e non se ne sarebbe macchiata in seguito, con l’aiuto di Dio.
Aggiunse che tutti conoscevano l’onestà delle donne presenti, che non poteva essere sminuita né da discorsi divertenti, né dal terrore della morte. E, in verità, riteneva che chi avesse saputo che non avevano voluto discutere di quelle stupidaggini, avrebbe potuto sospettare che avessero peccato in tal senso, perciò non ne volevano parlare. Egli, senza discutere, aveva accettato tutti gli argomenti proposti, mentre, avendolo fatto loro re, volevano imporgli ciò che non doveva dire, Lasciassero, dunque, ogni scrupolo e serenamente ciascuno pensasse alla novella da raccontare. Le donne, udito ciò, non obiettarono più.
Poi il re lasciò ognuno libero di fare ciò che volesse, fino all’ora di cena.
Il sole era ancora molto alto, perché le novelle narrate erano state brevi, perciò Dioneo si mise a giocare a tavole.
Elissa, chiamate le altre donne, disse loro che voleva condurle, cosa che aveva desiderato da quando erano lì, in un luogo che nessuna conosceva, chiamato la Valle delle Donne. Il momento opportuno le sembrava proprio quello, perché era ancora alto il sole.
Le donne risposero che erano pronte e, chiamate le fantesche, senza dire niente ai giovani, si avviarono.
Dopo poco più di un miglio giunsero alla Valle delle Donne. Entrarono in essa attraverso un sentiero assai stretto, che era bagnato ,su un lato, da un fiumicello. Trovarono la valle assai bella e gradevole specialmente in quel periodo di un caldo inimmaginabile.
Come ognuna riferì, nellaValle c’era una pianura, così rotonda, come se fosse stata fatta con un compasso.
Essa era contornata da sei montagnette, non troppo alte, e sulla sommità di ognuna vi era un palazzo simile a un bel castello. I declivi di quelle montagnette scendevano verso la pianura, come si vedevano nei teatri, dalla sommità fino ai gradini più bassi, ordinatamente , stringendo il cerchio. I declivi che erano rivolti a mezzogiorno erano tutti pieni di vigne, di ulivi, di mandorli, di ciliegi, di fichi e di ogni altro genere di alberi da frutta, senza che rimanesse scoperto nemmeno un po’ di terreno. Quelli esposti a Nord erano tutti boschetti di querce, di frassini, e di altri alberi verdissimi e dritti.
La pianura successiva era piena di abeti, di cipressi, di allori e di alcuni pini così ordinati che sembrava fossero stati piantati dal miglior artista del mondo. Fra i loro rami filtrava poco sole, solo quando era in alto.
Oltre a quello, offriva grande piacere un fiumicello che da una delle valli ,che divideva due di quelle piccole montagne, scorreva giù su rocce di pietra viva. Cadendo provocava un rumore molto gradevole e sembrava argento vivo. Quando l’acqua giungeva alla pianura si raccoglieva in un bel canaletto e giungeva velocissima al centro della pianura, dove formava un bel laghetto, come i vivai che si vedevano nei giardini di Firenze. Il laghetto non era molto profondo, mostrava chiarissimo il fondo, con una ghiaia piccolissima, i cui ciottoli si sarebbero potuti contare. Non si vedeva nell’acqua soltanto il fondo, ma tanti piccoli pesci che andavano di qua e di là, come se chiacchierassero, cosa straordinaria.
Sull’altra riva ,il laghetto era chiuso dal suolo del prato, tanto più verde, quanto più era umido. L’acqua in eccesso finiva in un altro canaletto , che uscendo dalla valle, correva verso le parti più basse.
Lì giunte, le donne, dopo aver ammirato il luogo, poiché faceva molto caldo, vedendo il laghetto, senza timore di esser viste, decisero di bagnarsi. Dopo aver comandato alla fantesca di rimanere sulla strada e di avvisarle se arrivava qualcuno, tutte e sette si spogliarono ed entrarono in esso.
Il lago era così trasparente che nascondeva i loro corpi come un bicchiere di vetro una rosa rossa.
Esse, senza provare alcuna vergogna, cominciarono ad inseguire i pesci, cercando di prenderli con le mani.
Dopo essersi trattenute in acqua per un certo tempo ed aver catturato alcuni pesci, essendo ormai giunta l’ora di ritornare a casa, uscirono dall’acqua e si misero in cammino  a passo lento, parlando della bellezza del luogo.
Giunte presto al palazzo, trovarono i giovani che stavano giocando dove li avevano lasciati.
Pampinea disse loro che li avevano ingannati e raccontò da dove venivano, com’era il luogo e a quale distanza si trovava. Il re, sentendo parlare della bellezza del luogo, desideroso di vederlo, ordinò rapidamente la cena.
Dopo aver cenato, i tre giovani, con i loro servi ,lasciate le donne, andarono alla valle, che ritennero una delle più belle del mondo.
Poi, dopo che si furono bagnati e rivestiti, tornarono a casa, dove trovarono le donne che danzavano su un’aria cantata da Fiammetta. Con loro lodarono la bellezza della Valle delle Donne.
Subito dopo il re ordinò al siniscalco che la mattina seguente apparecchiasse nella Valle e facesse portare anche qualche letto, se qualcuno volesse dormire o riposare fino al pomeriggio. Ordinò. Inoltre, di accendere i lumi e di portare vino e dolci.
Dopo essersi rifocillati, il re ordinò ai giovani di ballare e chiese ad Elissa di cantare una canzone.
Elissa, sorridendo, con dolce voce cominciò a cantare una canzone in cui chiedeva ad Amore, suo signore, che l’aveva imprigionata con le sue catene, di liberarla dalle pene d’amore. Soltanto così avrebbe potuto rimuovere il dolore e ritrovare tutta la sua bellezza. Ella terminò il canto con un sospiro.
Tutti si meravigliarono delle parole, ma nessuno poté comprendere il motivo di tale canto.
Il re, molto allegro, fece chiamare Tindaro e gli comandò di prendere la sua cornamusa e suonare mentre le danze proseguivano.
Trascorsa buona parte della notte, disse a tutti di andare a dormire.


























 



















Finisce qui la Sesta Giornata del Decameron e incomincia la Settima, nella quale, sotto il comando di Dioneo si ragiona delle beffe, le quali per amore o per salvarsi le donne hanno fatto ai loro mariti, senza
che essi se ne accorgessero o essendosene accorti.








giovedì 11 dicembre 2014

SESTA GIORNATA - NOVELLA N.10

SESTA GIORNATA – NOVELLA N.10

Frate Cipolla promette a certi contadini di mostrare loro la penna dell’Angelo Gabriele, al posto della quale trovando carboni, dice che quelli erano i carboni che arrostirono San Lorenzo.

Avendo tutti componenti della brigata finito di raccontare, era arrivato il turno di Dioneo che, senza aspettare alcun ordine, cominciò a parlare rivolgendosi alle vezzose donne.
Disse che, pur avendo libertà di scegliere l’argomento della sua novella, voleva rimanere nel tema del giorno.
Voleva ,infatti, mostrare come uno dei frati di Sant’Antonio, con spirito pronto, riuscì a sfuggire allo scorno che gli avevano preparato due giovinastri.
Non si dovevano infastidire perché la novella era un po’ più lunga; era ancora presto e il sole era a metà del cielo.
Continuò dicendo che Certaldo, come tutti sapevano, era un castello di Valdelsa, nella campagna fiorentina, che, sebbene piccolo, fu abitato da uomini nobili e ricchi.
Perché da quel castello si ricavavano buone offerte, vi si recava, una volta all’anno, per raccogliere le elemosine fatte dagli sciocchi abitanti, uno dei frati di Sant’Antonio, il cui nome era frate Cipolla, perché quel terreno produceva cipolle famose in tutta la Toscana.
Frate Cipolla era piccolo di persona, con i capelli rossi, sorridente, il miglior brigante del mondo. Oltretutto, pur essendo ignorante, era un grande e arguto parlatore, tanto che chi l’avesse conosciuto avrebbe pensato che fosse Cicerone stesso o Quintiliano. Era compare di quasi tutti gli abitanti della contrada.
Secondo la sua abitudine, nel mese di Agosto, il frate andò a Certaldo una domenica mattina, quando tutti gli uomini e le donne del circondario si erano recati nella canonica a sentir messa.
Quando gli sembrò opportuno, si fece avanti e ricordò ai parrocchiani che era loro usanza ogni anno mandare ai poveri di Sant’Antonio offerte di grano e di biade, chi poco e chi molto, secondo la grandezza della proprietà e della devozione; tanto offrivano perché Sant’Antonio custodisse i buoi, gli asini, i porci e le pecore loro.
Oltre a ciò, ricordò che essi pagavano, una volta all’anno, una piccola somma in denaro, soprattutto gli iscritti alla Compagnia di Sant’Antonio. Egli era stato incaricato dall’Abate della riscossione di tali cose, perciò circa alle tre del pomeriggio, quando avrebbero sentito suonare le campane, tutti dovevano uscire dalla chiesa nella strada dove, al solito modo, avrebbe fatto una predica e avrebbe fatto baciare loro la Croce.
Inoltre, poiché sapeva che erano devotissimi di Sant’Antonio, per concessione speciale avrebbe mostrato loro una santissima reliquia, che aveva portato con sé dall’Oriente. La reliquia era una delle penne dell’Angelo Gabriele, che era rimasta nella camera di Maria Vergine, quando l’angelo era andato a Nazareth per l’Annunciazione. Detto ciò tacque e ritornò a celebrare la Messa.
Quando frate Cipolla diceva tali cose vi erano in chiesa, insieme agli altri, due giovani molto astuti, l’uno chiamato Giovanni del Bragoniera e l’altro Biagio Pizzini. Essi ,dopo aver riso un po’ della storia della reliquia, sebbene fossero suoi amici, decisero di fargli un brutto scherzo.
Avendo saputo che il frate la mattina pranzava al castello con un suo amico, come sentirono che era a tavola, scesero in strada ed andarono all’albergo dove il frate era alloggiato. Biagio doveva intrattenere il servitore di frate Cipolla, mentre Giovanni doveva cercare tra le cose del frate la famosa penna e sottrargliela, per vedere che cosa poi  egli avrebbe detto al popolo.
Frate Cipolla aveva un servo ,da alcuni chiamato Guccio Balena, da altri Guccio Imbratta e da altri ancora Guccio Porco, che era così stupido che nemmeno Lippo Topo, che era così stupido, ne aveva combinate tante. Spesse volte ,con la sua brigata, lo prendeva in giro dicendo che quel suo servo aveva in sé nove cose, che se una sola di esse l’avesse avuta Salomone o Aristotele o Seneca, avrebbe guastato ogni loro virtù, ogni loro giudizio, ogni loro moralità.
Avendogli più volte domandato quali fossero queste nove cose, messele in rima, rispondeva “ Egli è lento, sporco e bugiardo; negligente, disobbediente e maldicente; trascurato, smemorato e scostumato. Inoltre ha altri piccoli difettucci che è meglio tacere. Infine, quello che fa ridere di più è che vuole, a tutti i costi, prender moglie e lasciare la casa a pigione. Poiché ha una barba grande, nera e unta, si sente tanto bello e gradevole che pensa che tutte le donne che lo vedono si innamorino di lui  e, se lo lasciano ,corre loro dietro a tutte, perdendo anche la cintura.   
In verità mi è di grande aiuto perché ,se c’è qualcuno che mi vuol parlare in segreto, egli vuol sentire tutto.
Se sono interrogato su qualche cosa, ha tanta paura che io non sappia rispondere, che subito risponde si o no, come gli sembra opportuno”.
A quel servo, lasciandolo in albergo, il frate aveva raccomandato di controllare che nessuno toccasse le sue cose, soprattutto, le bisacce, dove erano le cose sacre.
Ma Guccio Imbratta desiderava stare in cucina più che l’usignolo sui verdi rami, specialmente se c’era una serva. Nella cucina dell’oste ne aveva vista una grassa, grossa, piccola e sgraziata, con un paio di poppe che parevano due cestoni per il letame, con un viso bruttissimo come quelli dei Baronci, tutta sudata, unta, che puzzava di fumo..
Subito, come un avvoltoio si gettava di solito su una carogna, lasciata la camera di frate Cipolla aperta e tutte le sue cose abbandonate, inseguì la serva. E, sebbene fosse Agosto, si sedette accanto al fuoco e cominciò a chiacchierare con quella, che si chiamava Nuta.
Le disse che era un gentiluomo, che aveva un sacco di fiorini, esclusi quelli che aveva prestato, che erano più o meno tanti, e che sapeva fare e dire tante cose, quante il suo padrone.
Non tenne conto del suo cappuccio, il quale era così unto che avrebbe potuto condire il pentolone della minestra d’Altopascio, del suo giubetto rotto e rappezzato intorno al collo e sotto le ascelle, tutto sporco con più macchie e più colori delle stoffe tartare e turche, delle scarpette tutte rotte, delle calze bucate. E continuò dicendo, come se fosse stato il re di Castiglione, che voleva rivestirla, rimetterla in forma e toglierla da quella sventura di stare a servire presso altri, senza alcuna ricchezza..
Voleva, infine, darle la speranza di una vita più fortunata e tante altre cose. Tutto ciò ,sebbene fosse stato detto con grande affetto, si trasformava in niente, come se fosse stato vento.
I due giovani, dunque, trovarono Guccio Porco occupato a far la corte a Nuta. Contenti di ciò, perché si erano risparmiati metà della fatica, senza nessuna difficoltà entrarono nella camera di frate Cipolla, che era aperta.
Per prima cosa cercarono la bisaccia, in cui era la penna; apertala, trovarono una piccola cassettina avvolta in un gran telo di seta. Nella cassettina trovarono una penna come quelle della coda di un pappagallo, che ritennero fosse quella che il frate aveva promesso di mostrare ai certaldesi.
Certamente egli poteva farlo credere perché le raffinatezze d’Egitto erano, allora, poco conosciute in Toscana, mentre, in seguito, erano arrivate in grande abbondanza, corrompendo tutto. Se erano poco conosciute in Italia, gli abitanti di quella contrada, perdurando la rozza onestà degli antichi, non le conoscevano per niente e non avevano mai visti, né uditi i pappagalli.
Tutti contenti i due giovani presero la penna e, per non lasciare la cassetta vuota, la riempirono con dei carboni, che avevano trovato in un angolo della camera.
Chiusero la cassetta e sistemarono ogni cosa come l’avevano trovata, senza essere visti. Poi se ne ritornarono con la penna e cominciarono ad aspettare ciò che il frate avrebbe detto, trovando carboni al posto della penna.
Gli uomini e le donne di umili origini che erano in chiesa, dopo aver udito che avrebbero visto la penna dell’angelo Gabriele, verso le tre del pomeriggio, finita la messa se ne tornarono a casa.
Ognuno lo disse al suo vicino, una comare all’altra, per cui , come ebbero finito di pranzare, un gran numero di uomini e di femmine accorse al castello, che a stento ci entravano, in attesa ansiosa di vedere la penna.
Frate Cipolla, dopo aver mangiato a sazietà e poi avendo dormito un po’, alzatosi poco dopo le tre e sentendo che era venuta una moltitudine di contadini col desiderio di vedere la penna, mandò a dire a Guccio Imbratta che, quando avesse sentito suonare le campane, doveva portare lassù le bisacce.
Guccio, strappato di mala voglia dalla cucina e dalla Nuta, faticosamente andò su ,portando le cose richieste. Giunto sulla collina, ansando perché il bere l’aveva fatto ingrassare, andato sulla porta della chiesa su comando del frate, cominciò a suonare con forza le campane.
Radunato tutto il popolo ,frate Cipolla, non essendosi accorto che le sue cose erano state smosse, cominciò la predica e, tenendo presente il suo obiettivo, disse molte parole.
Dovendo mostrare la penna dell’angelo Gabriele, fatta prima la confessione con grande solennità, fece accendere due grosse candele e con delicatezza, aprendo il telo, dopo essersi tolto il cappuccio, ne tirò fuori la cassetta. Dette prima alcune parole in lode dell’Angelo, aprì la cassetta. Come la vide piena di carboni, non sospettò che quella cosa fosse opera di Guccio Balena, perché non lo conosceva capace di tanto, né lo maledisse perché non aveva controllato che altri non lo facessero.
Se la prese ,tacitamente, con sé stesso perché lo aveva messo a guardia delle sue cose, ben sapendo che era negligente, disobbediente, trascurato e smemorato.
Senza cambiare colore, alzate le mani, disse a voce alta per essere udito da tutti “ O Iddio, sia sempre lodata la tua potenza”.
Poi, richiusa la cassetta, si rivolse al popolo dicendo “ Signori e donne, dovete sapere che quando io ero ancora giovane, fui mandato dal mio superiore in Oriente, per cercarvi oggetti particolari che, anche se non costano niente, sono più utili agli altri che a noi. Mi misi in cammino ,partendo da Vinegia, poi ,cavalcando per il reame del Garbo e per Baldacca, giunsi in Parione da dove, dopo un certo tempo, arrivai nella località di Sardigna. Ma perché vi sto indicando tutti i paesi che visitai? Giunsi ,dopo aver passato il Braccio di San Giorgio, in Truffia e in Buffia, paesi molto popolosi , e di lì nella terra di Menzogna, dove trovai molti nostri frati ed altri, i quali tutti per amor di Dio, sfuggendo la povertà, inseguivano la loro utilità, poco curandosi delle fatiche altrui, spendendo niente altro che parole. Poi passai in Abruzzo, dove gli uomini e le femmine vanno con gli zoccoli su per i monti, facendo le salsicce con le loro stesse budella. Poco oltre trovai genti che portavano il pane sui bastoni e il vino negli otri. Di lì giunsi alle montagne dei bachi ,dove le acque scorrono all’ingiù. E, in breve, tanto camminai che arrivai in India Pastinaca, là dove, vi giuro sull’abito che porto indosso, vidi volare i pennuti, cosa incredibile. Infine trovai quel buffone di Maso del Saggio, gran mercante, che schiacciava noci e vendeva gusci. Non avendo trovato quello che cercavo, poiché bisognava proseguire per mare, tornai indietro e arrivai in quelle terre sante, dove d’estate il pane freddo costa quattro denari e il caldo non costa niente. Qui incontrai il venerabile padre messer Nonmiblasmete Sevoipiace, degno patriarca di Gerusalemme. Egli, per rispetto all’abito di Sant’Antonio, che io ho sempre portato, volle che vedessi tutte le sante reliquie che aveva con sé; erano veramente tante che non ve le potrei assolutamente descrivere tutte.
Pure, per rallegrarvi, ve ne citerò alcune. Dapprima mi mostrò il dito dello Spirito Santo, poi il ciuffetto del Serafino che apparve a San Francesco, poi una delle unghie dei cherubini , una delle costole del “Verbum” e una delle vesti della Santa Fede Cattolica. E ,ancora, mi fece vedere alcuni raggi della stella cometa che apparve ai tre Magi in Oriente e un’ampolla del sudore di San Michele, quando combatté col diavolo, e la mascella della Morte di San Lazzaro ed altre.
Per questo  io gli copiai alcuni passi di Monte Morello in volgare e alcuni capitoli del Crapezio, che aveva a lungo cercato. Poi mi donò uno dei denti del Crocifisso e, in una piccola ampolla, il suono   delle campane del tempio di Salomone e la penna dell’angelo Gabriele, della quale vi ho già parlato, e uno degli zoccoli di san Gherardo di Villamagna ( il quale donai in Firenze a Gherardo di Bonsi, poco tempo fa).
Infine mi diede alcuni carboni con i quali fu arso il beatissimo martire San Lorenzo. Ho conservato devotamente tutte queste cose e le ho tutte. Il mio superiore non ha voluto che ve le mostrassi fino a che non fosse stato certificato che erano autentiche. Ora, per certi miracoli che esse hanno fatto e per certe lettere ricevute dal Patriarca, è sicuro della loro autenticità, perciò ha acconsentito che ve le mostri. Le porto sempre con me, temendo di affidarle ad altri.
In verità porto sempre con me la penna dell’angelo Gabriele, perché non si guasti, in una cassetta, e i carboni con i quali fu arrostito San Lorenzo in un’altra. Le due cassette si assomigliano molto ,per cui spesso viene presa l’una per l’altra, come è avvenuto ora. Perciò, credendo di aver preso la cassetta dov’era la penna, ho portato quella dov’erano i carboni.
Ritengo, comunque, che non si tratti di un errore, ma della volontà di Dio. Dio, infatti, pose nelle mie mani la cassetta con i carboni, ricordandomi io, appena adesso, che fra soli due giorni ci sarà la festa di San Lorenzo. Dio vuole che io, mostrandovi i carboni con i quali il Santo fu arrostito, riaccenda in voi la devozione per San Lorenzo. Per questo mi fece prendere, non la penna come volevo, ma i benedetti carboni spenti dal sangue del Santo. Per questo, figliuoli benedetti, toglietevi i cappucci e avvicinatevi qui per vederli devotamente.
Ma voglio che sappiate che chiunque sarà toccato da questi carboni con il segno della croce può vivere sicuro che per tutto quest’anno non sarà bruciato dal fuoco, senza che se ne accorga”.
Dopo aver detto ciò ,cantando una laude di San Lorenzo, aprì la cassetta e mostrò i carboni.
La folla dei fedeli, credulona, dopo averli visti, si accalcò tutta intorno a frate Cipolla, dando molte più offerte del solito, pregando che il frate li segnasse tutti.
Frate Cipolla, presi in mano i carboni, sopra i camicioni bianchi dei contadini, sopra i corpetti e sopra i veli delle donne cominciò a fare grandi croci, dicendo che sebbene i carboni si consumavano nel fare le croci, poi ricrescevano nella cassetta, così come egli aveva molte volte constatato.
In tal modo segnò con la croce tutti i certaldesi, con suo grandissimo vantaggio. Con questo accorgimento fece rimanere beffati coloro che, togliendogli la penna, avevano creduto di beffare lui.
I due briganti, che erano stati presenti alla predica e avevano udito la soluzione da lui trovata e quanto da lontano era partito con le parole, si erano sganasciati dalle risate.
Dopo che il popolo si fu allontanato, andarono da lui, gli raccontarono, con grande allegria, ciò che avevano fatto e gli restituirono la sua penna, che egli utilizzò l’anno successivo con lo stesso profitto che, in quel giorno, gli avevano procurato i carboni.  







giovedì 4 dicembre 2014

SESTA GIORNATA - NOVELLA N.9

SESTA GIORNATA – NOVELLA N.9

Guido Cavalcanti con un motto arguto e garbato offende certi cavalieri fiorentini che l’avevano circondato.

La regina, sentendo che Emilia aveva finito la sua novella e che restava da raccontare soltanto a lei e a Dioneo, che aveva avuto il privilegio di essere l’ultimo, cominciò a parlare.
Iniziò dicendo che due novelle che aveva pensato di dire erano già state raccontate, gliene rimaneva, comunque, da raccontare una ,che si concludeva con un motto tanto saggio che non se ne era sentito altro.
Continuò affermando che in Firenze, nei tempi passati, vi erano usanze assai belle e lodevoli, di cui, in quel tempo, non ne era rimasta nessuna a causa dell’avarizia che era cresciuta con le ricchezze e le aveva scacciate tutte.
Tra queste ce ne era una, per la quale i gentiluomini delle contrade si radunavano in diversi luoghi di Firenze, formavano brigate di un certo numero, facendo in modo che oggi l’uno, domani l’altro, e così in ordine, tutti potessero offrire un banchetto, ciascuno nel giorno stabilito, a tutta la brigata.
Spesse volte invitavano anche gentiluomini forestieri, quando capitava, e anche cittadini. E, nello stesso modo, almeno una volta all’anno si vestivano in maniera somigliante e con le persone più importanti cavalcavano per la città. Gareggiavano con le armi soprattutto durante le feste o quando arrivava in città qualche buona notizia di vittoria o d’altro.
Tra queste brigate ce n’era una di messere Betto Brunelleschi, nella quale Betto e i compagni avevano cercato di far entrare Guido ,figlio di messere Cavalcante dei Cavalcanti, a buon motivo. Infatti Guido, oltre ad essere uno dei migliori loici del mondo e ottimo filosofo naturalista (cose delle quali la brigata poco si curava), era ricchissimo ed era un gradevolissimo e garbato parlatore, molto abile ad esprimere con le parole le cose che ritenesse valide.
Messer Betto non c’era mai riuscito e , con i suoi compagni, riteneva che ciò succedesse perché Guido quando cominciava a fare il filosofo si astraeva dagli uomini . Teneva, poi, in gran conto la filosofia di Epicuro, per cui la gente del popolo diceva che egli voleva solo dimostrare che Dio non esisteva.
Un giorno Guido se ne partì dall’Orto di San Michele e andò per il Corso degli Adimari, fino a San Giovanni, tragitto che faceva spesso. Lì c’erano grandi tombe di marmo, che poi erano state portate in Santa Reparata, e molte altre intorno a San Giovanni. Egli si trovava tra le colonne di porfido, le tombe e la porta di San Giovanni, che era chiusa.
Messer Betto, venendo a cavallo con la sua brigata, vedendo Guido tra quelle tombe, propose di andare ad infastidirlo. Spronati i cavalli, prima che se ne accorgesse, lo circondarono scherzosamente e gli dissero “Guido, tu rifiuti di far parte della nostra brigata; ma quando avrai dimostrato che Dio non esiste, che cosa avrai fatto?”.
Guido, vedendosi circondato, subito rispose “Signori, voi a casa vostra mi potete dire ciò che vi piace”. E, posta la mano su una delle tombe, che erano grandi,  molto agilmente la scavalcò e ,liberatosi, se ne andò.
Tutti, guardandosi l’un l’altro, cominciarono a dire che Guido era uno stupido e ciò che aveva risposto non voleva dire nulla. Infatti si trovavano in un luogo che non aveva niente a che fare con loro, né con gli altri
cittadini e, tanto meno, con Guido.
Messer Betto, rivolto ai compagni, disse che erano loro gli stolti, che non avevano capito nulla. Invece Guido, con garbo e con poche parole, aveva detto la più grande villania del mondo, perché, se avessero guardato bene, quelle tombe erano le case dei morti, infatti in esse erano sepolti e dimoravano i morti. Se egli diceva che erano a casa loro, voleva dire che loro e gli altri uomini ignoranti, che non erano letterati, a confronto con lui e con gli uomini colti, erano peggio che uomini morti ,e, perciò, trovandosi lì, erano a casa loro.
Allora ciascuno comprese quello che Guido aveva voluto dire ,si vergognarono e non gli dettero mai più fastidio. Da quel momento in poi tennero in gran conto messer Betto, ritenendolo un brillante ed             intelligente cavaliere.