giovedì 26 dicembre 2013

SECONDA GIORNATA – NOVELLA N.5


 Andreuccio da Perugia, venuto a Napoli a comprar cavalli, incappato in tre gravi incidenti, scampato a tutti, torna a casa con un rubino.


Fiammetta, alla quale toccava di raccontare, cominciò a dire che le pietre preziose trovate da Landolfo, le avevano ricordato un’altra novella, che, però, riportava gli avvenimenti di una sola notte.
Viveva a Perugia un giovane chiamato Andreuccio di Pietro, sensale di cavalli, il quale, avendo udito che a Napoli si vendevano degli ottimi cavalli, con nella borsa 500 fiorini d’oro, senza mai essere uscito di casa, partì con altri mercanti.
Giunto a Napoli una domenica, dopo il vespro, seppe dall’albergatore che l’indomani, a piazza Mercato , ci sarebbe stata la vendita dei cavalli.
Ne vide di molto belli, che gli piacquero e iniziò le trattative e, per mostrare che era in grado di pagare, da persona poco esperta, più volte, a destra e a manca, faceva vedere la borsa piena di fiorini ,che aveva con sé. Mentre discuteva, passò di lì una giovane siciliana bellissima, di facili costumi ,senza essere vista, vide bene la borsa e subito pensò che sarebbe stata meglio nelle sue mani.
Era con lei una vecchia anch’essa siciliana, la quale, come vide Andreuccio, gli corse incontro e lo abbracciò affettuosamente, la giovane notò tutto ma rimase in silenzio. Andreuccio le fece una gran festa, la invitò al suo albergo e se ne andò.
La ragazza che aveva seguito tutta la scena, pensando ad un piano per impadronirsi del denaro, si avvicinò alla vecchia e ,cautamente, cominciò a domandare chi era e da dove veniva il giovane, che cosa faceva lì e come lo conosceva. La donna spiegò che era stata a lungo in Sicilia col padre di lui e poi aveva vissuto a Perugia.
La giovane ,informata di tutto, maliziosamente si organizzò.
Impegnò la vecchia in lavori per l’intera giornata, affinchè non potesse andare a trovare il mercante.
Presa, poi, con sé una servetta molto sveglia, la mandò all’albergo dove Andreuccio si trovava, per riferirgli che una gentildonna di Perugia gli avrebbe parlato volentieri.
Egli, lusingato, si guardò allo specchio e, ritendosi un bel ragazzo, pensò che la donna si era innamorata di lui, come se a Napoli non ci fossero bei ragazzi; subito accettò l’invito e seguì la servetta ,senza dire niente, all’albergo.
La servetta ,rapidamente, condusse il giovane nel vicolo chiamato “Malpertugio” e già il nome indicava che era un luogo malfamato.
Ma egli, niente sospettando, lo ritenne un posto tranquillo.
Appena arrivati alla casa, la fantesca gridò “Ecco Andreuccio”. La donna era sulla scala ad aspettarlo, era giovane ,alta, con un viso bellissimo, con abiti distinti. Gli corse incontro scendendo le scale, con le braccia aperte, piangendo, gli baciò la fronte e ,con voce rotta dall’emozione, disse “ Andreuccio mio, tu sii il benvenuto”.
Egli fu molto sorpreso per l’accoglienza. La donna gli prese la mano e lo condusse prima in sala e poi nella sua camera, piena di fiori, profumata, con un letto di lusso, molti abiti e ricchi arredi, per cui ,il poverino credette di trovarsi alla presenza di una gran dama.
Postasi a sedere vicino al letto, tra lacrime e carezze, la donna gli raccontò che era sua sorella, ed era felice di aver ritrovato uno dei suoi fratelli prima di morire. Continuò col dire che Pietro, padre di entrambi, aveva dimorato ,per lungo tempo a Palermo, dove era stato molto amato da una gentildonna vedova, che deposta la paura del padre, dei fratelli e del disonore, si unì a lui e gli dette una figlia, cioè lei. Pietro, in seguito, dovette partire da Palermo e ritornare a Perugia, lasciando madre e figlia nella città, senza più cercarle, né ricordarsi minimamente di loro, dimostrandosi sommamente ingrato e meritevole di biasimo.
Cresciuta a Palermo, la madre che era ricca, la diede in moglie ad un uomo gentile e per bene di Agrigento (Girgenti), che, per amor suo ,si trasferì a Palermo.
Durante le guerre tra Angioini (Francesi) e Aragonesi (Spagnoli) , dovettero fuggire dalla Sicilia.
Prese poche cose, lasciate tutte le ricchezze, si rifugiarono a Napoli ,accolte da re Carlo, che, per riparare ai danni subiti, dette loro terre e possedimenti e continuò a proteggerle, dando aiuto al marito e cognato di Andreuccio, suo dolce fratello. Il giovane, udendo il racconto, tanto preciso, raccontato senza nessuna incertezza, ricordandosi che, veramente, il padre era stato per un certo tempo a Palermo, conoscendo i costumi dei giovani, vedendo le lacrime, gli abbracci e gli onesti baci, ritenne ciò che la donna diceva assolutamente vero. Meravigliato ,dichiarò che mai il padre aveva accennato di lei e della madre. Pure era felicissimo di aver trovato a Napoli dov’era solo e senza compagnia, un sorella così raffinata, mentre lui era un piccolo mercante. Chiese, comunque, come aveva saputo chi era.
Ella rispose che la mattina glielo aveva detto una donna che aveva vissuto, per molto tempo, con il padre a Palermo e poi era andata a vivere a Perugia.
Poi cominciò a informarsi di tutti i parenti, elencandone i nomi, cosa che convinse maggiormente Andreuccio.  La donna fece poi portare del greco (vino) locale e dolciumi, offrì da bere al giovane e ,visto che voleva ritornare in albergo, finse di rammaricarsi molto e lo invitò a cena, sebbene non ci fosse il marito. Preoccupandosi l’uomo di dover avvisare l’albergatore, la donna finse di inviare un servo all’albergo per avvertire che il mercante sarebbe rimasto fuori.
Cenarono ,poi, lietamente fino a notte inoltrata. Al momento di congedarsi , astutamente, ella sconsigliò al giovane di avventurarsi per le strade di Napoli, che erano malsicure, soprattutto per un forestiero e lo invitò a dormire nella sua camera,  infine ,si ritirò con la servitù nell’altra camera.
Rimasto solo ,Andreuccio, per il gran caldo , si svestì ,e poggiò i suoi abiti ai piedi del letto, rimanendo in gilè. Dovendo andare in bagno, chiese ad un fanciullo dove si trovava il gabinetto. Seguendo le indicazioni, senza alcun sospetto, entrò e pose il piede su una tavola che si capovolse facendolo cadere di sotto, dove si raccoglievano i liquami delle feci.
Era caduto in un buco, come ce ne sono spesso tra due case, su cui erano poste due travi, dove sedeva la gente che doveva defecare. Trovandosi, dunque, nel buco, cominciò a chiamare lo scugnizzo che, invece ,era andato ad avvisare la donna.
Ella senza preoccuparsi, cercò tra i panni dello sventurato i denari e, avendoli trovati ,se ne appropriò.
Andreuccio, compreso l’inganno, faticosamente, riuscì a risalire dal buco e andò a bussare lungamente con violenza alla casa, ma non ebbe alcuna risposta.
Piangendo, perchè comprendeva bene la sua disavventura , disse “O me misero, in poco tempo ho perduto 500 fiorini e una sorella”.
Tanto bussò e picchiò che svegliò tutto il vicinato, chiedendo chi conosceva madama Fiordaliso, di cui era il fratello. Tutti, ridendo, lo schernirono e richiusero le finestre.
Ben presto il dolore si tramutò in rabbia ed il giovane continuò a picchiare contro l’uscio , con una gran pietra, creando un putiferio. Alla fine si udì una voce terribile che chiedeva chi era laggiù, che disturbava.
L ‘uomo, che a giudizio di Andreuccio, doveva essere una persona importante, minacciò di dargli tante bastonate, perché si comportava come un asino fastidioso e ubriaco e non lasciava dormire nessuno.
Il mercante, ascoltando i consigli di alcuni vicini, che temevano per la sua vita, si allontanò, disperato per i denari perduti, non sapendo dove andare e come ritornare all’albergo.
Sentendo un gran puzzo provenire da sé stesso, desideroso di gettarsi in mare per lavarsi, girò a sinistra e andò per la via Catalana.
Per sfuggire a due uomini che venivano verso di lui con una lanterna, si rifugiò in un casolare.
Purtroppo, anche i due entrarono nel casolare. Uno si tolse di dosso alcuni attrezzi che teneva sulle spalle e si guardò intorno, per individuare da dove proveniva il gran puzzo che si sentiva.
Finalmente scovò il poveretto , che cercava di nascondersi in tutti i modi.
Una volta scoperto, Andreuccio raccontò la sua disavventura. Immediatamente capirono che si trattava di Buttafuoco ,lo scarafaggio, e gli dissero di rallegrarsi perché se era vero che ,in quella notte ,aveva perso i denari, aveva ,comunque, salvato la vita perché non era stato ammazzato da Buttafuoco, che era un furfante matricolato. Mossi a compassione, lo invitarono ad unirsi a loro per aiutarli in ciò che dovevano fare. il giovane accettò.
In quel giorno era stato seppellito nel Duomo di Napoli, l’arcivescovo Filippo Minutolo, con ricchissimi ornamenti e con al dito un anello ,che valeva molto più dei suoi 500 fiorini , con un rubino che i due malandrini volevano rubare. Rivelarono il loro piano ad Andreuccio e lo convinsero a collaborare.
Poiché il giovane puzzava molto, per lavarlo lo portarono presso un pozzo vicino al Duomo .
Giunti al pozzo, poiché mancava il secchio per tirar su l’acqua,  lo legarono alla fune e lo calarono giù, accordandosi che ,una volta lavato, desse uno strattone alla fune, per farsi tirare su.
Mentre era in fondo, alcune guardie si avvicinarono al pozzo per bere, i ladri, vedendo che i gendarmi si avvicinavano, fuggirono a gambe levate, lasciando il giovane nel fondo.
Andreuccio, lavatosi, diede uno strattone alla fune, le guardie, pensando che il secchio si era riempito tirarono su.
Come il giovane toccò il bordo del pozzo ,si gettò sulla sponda , i gendarmi ,spaventati, fuggirono, mentre
egli raggiunse i due compari.
A mezzanotte, di soppiatto ,andarono al Duomo, entrarono facilmente e si avvicinarono al sepolcro che era di marmo e molto grande. Sollevarono il coperchio che era pesantissimo, in modo che vi potesse entrare un uomo, e lo puntellarono.
Bisognava che uno di loro entrasse nell’arca e Andreuccio  fu costretto ad entrarvi con le minacce.
Temendo che ,una volta portati fuori i gioielli dell’arcivescovo, i compagni potevano fuggire , lasciandolo nell’arca senza niente, ricordandosi del prezioso anello, lo sfilò dal dito del religioso e lo infilò al suo.
Poi spogliò il morto completamente e dette ai due tutto il resto, dicendo che non c’era più niente.
I ladroni insistevano perché cercasse l’anello, nel frattempo, tirarono via il puntello e lo chiusero nell’arca.
Il poveretto cercò ,in tutti i modi, col capo e con le spalle, di alzare il coperchio, senza riuscirvi.
Vinto da un gran dolore, cadde come morto sul corpo del prelato. Ripresosi , cominciò a piangere pensando alla morte orribile che lo attendeva.
Mentre si disperava, sentì molte voci di gente che, come pensava, veniva a fare quello che aveva già fatto con i suoi compagni. Anche costoro, una volta aperta e puntellata la tomba, cominciarono a discutere su chi dovesse entrare, allora un prete, non temendo i morti, che riteneva inoffensivi, si offrì volontario, si sporse sul bordo e mise le gambe giù , per potersi calare.
Andreuccio per risalire afferrò le gambe del prete e le tirò. Sentendosi afferrare ,il prete emise un grido altissimo   e si gettò fuori. Tutti, spaventati ,lasciata aperta la tomba, fuggirono come se fossero inseguiti da centomila diavoli.
Tranquillamente Andreuccio risalì e uscì dalla chiesa per la via da cui era venuto.
All’alba, con al dito l’anello di rubini, giunse, per caso, alla marina e al suo albergo, dove trovò i suoi compagni e l’albergatore che ,tutta la notte, erano stati in ansia per lui, ai quali raccontò la sua avventura, senza accennare al rubino. L’oste gli consigliò di partire immediatamente.
Giunto a Perugia, vendette l’anello, dicendo che a Napoli, dove era andato a comprare dei cavalli, aveva investito i suoi denari nell’acquisto di un anello. 











giovedì 19 dicembre 2013

SECONDA GIORNATA - NOVELLA N.4

SECONDA GIORNATA – NOVELLA N.4


Landolfo Rufolo, caduto in povertà, diventa corsaro, catturato dai genovesi, naufraga e si salva appoggiandosi a una cassetta piena di tesori; Accolto a Corfù da una donna, torna ricco a casa sua.

Vedendo che Pampinea aveva smesso di narrare, Lauretta ,che le sedeva vicino, immediatamente cominciò a parlare, tenendo conto del tema di quella giornata.
Considerò, innanzitutto che la maggior prova della potenza della fortuna era il fatto che ,talvolta, chi era caduto in disgrazia si risollevava, come, appunto, era accaduto ad Alessandro, il protagonista della novella precedente. Poi iniziò un racconto che, partendo da gravi sventure, si sarebbe concluso con una splendida riuscita.
La storia era ambientata nel litorale che andava da Reggio Calabria a Gaeta; lungo di esso, nei pressi di Salerno, vi era la costiera di Amalfi, che si affacciava sul mare, piena di piccole città, di giardini, di fontane e di uomini ricchi  che vivevano di commerci. Tra queste cittadine ,ve ne era una, chiamata Ravello, dove abitava un uomo di nome Landolfo Rufolo, ricchissimo, il quale, desiderando raddoppiare la sua ricchezza, corse il rischio di perdere la vita , insieme con le ricchezze.
Costui, come era usanza dei mercanti, fatti i suoi conti, comprò una grandissima nave, la caricò di molte mercanzie, comprate con i suoi soldi, e anche di donne e partì per Cipro. Lì giunto, trovò molti altri mercanti, provenienti da tutte le parti del mondo, che parimenti commerciavano.
 Dovette, dunque, svendere le sue mercanzie, dandole quasi per niente, e per questo andò in rovina.
 Pensò ,quindi, o di morire o di andare a rubare. Trovato un compratore, vendette la sua grande nave e , con i soldi avuti, comprò una navicella agile e snella da corsaro, la armò in maniera adeguata e si diede alla vita di corsaro, derubando soprattutto i turchi.
Questa attività fu favorita dalla fortuna, molto più che quella, precedente, di mercante.
Dopo circa un anno rubò e catturò tante navi dei turchi, che non solo recuperò tutte le ricchezze che aveva perduto facendo il mercante, ma le raddoppiò completamente.
Reso prudente dalla prima perdita, misurando bene le sue sostanze, per evitare un secondo dissesto finanziario, decise che quello che aveva gli doveva bastare e che voleva ritornare a casa sua.
Non volle investire i suoi denari in altre avventure, ma, imbarcatosi su quella navicella che glieli aveva procurati, riprese la via di casa.
Era già giunto nell’Arcipelago Egeo, quando ,una sera, si alzò lo scirocco, che, non solo gli impediva di navigare, ma rendeva così agitato il mare che la sua nave non avrebbe potuto sopportarlo.
Si rifugiò, allora, in una insenatura del mare protetta da un’isoletta, decidendo di aspettare lì il momento più propizio al viaggio.
In questa insenatura, poco distante, due cocche (navi da trasporto) genovesi, che venivano da Costantinopoli, giunsero a fatica, per ripararsi, come aveva fatto Landolfo.
I naviganti ,vista la piccola nave bloccata nel porticciuolo, udendo a chi apparteneva, sapendo ,per fama, che il proprietario era ricchissimo, essendo ladri e desiderosi di danaro, decisero di appropriarsene.
Fatta scendere una parte degli uomini armati di balestre ed altre armi, fecero circondare la navicella, in modo che nessuno potesse scendere da essa , se non voleva essere colpito dalle frecce delle balestre; gli altri, trasportati dalle scialuppe e aiutati dal mare, si accostarono alla barchetta e se ne appropriarono, in breve tempo, con tutta la ciurma, senza colpo ferire.
Fatto salire Landolfo, vestito solo con il gilè, su una delle loro cocche, sfondarono la navicella e la affondarono.
Il giorno dopo, mutatosi il vento, le cocche fecero vela verso ponente, viaggiando per tutta la giornata favorevolmente . Sul far della sera, il vento cambiò, diventando fortissimo e gonfiando oltremodo  il mare, dividendo le due navi.
La nave su cui si trovava il misero Landolfo, con grande violenza, fu sbattuta in una secca  sull’isola di Cefalonia e, come un vetro che sbatteva contro un muro, si aprì tutta e si sgretolò.
Gli sventurati che si trovavano sulla cocca, come suole avvenire in questi casi, essendo già il mare pieno di mercanzie, di casse e di tavole, in una notte nerissima, con un mare agitatissimo, nuotando al meglio che potevano, si cominciarono ad aggrappare alle cose che, per fortuna, si paravano davanti.
Tra questi il povero Landolfo, avendo più volte invocato la morte preferendo quella piuttosto che ritornare povero e malandato a casa, quando se la vide vicina ne ebbe paura e ,come tutti gli altri, si aggrappò ad una tavola, ringraziando Dio che gliel’aveva mandata, per impedire che affogasse.
A cavallo di quella, come meglio poteva, spinto di qua e di là, si mantenne fino all’alba.
Guardandosi intorno, non vedeva altro che nuvole e mare ed una cassa che, con sua grande paura, gli si avvicinò, sospinta dalle onde.
Temendo che la cassa, avvicinandosi, lo potesse colpire, nonostante avesse poca forza, con la mano la allontanava .Sospinta da un improvviso colpo di vento, la tavola urtò la cassa, gettando  il giovane in mare. Landolfo andò sotto le onde e quando riemerse, non trovando più la tavola, si appoggiò col petto al coperchio della cassa che gli era assai vicina e, come meglio poteva, la teneva diritta.
In questo modo, senza mangiare e bevendo acqua di mare molto più di quanto avrebbe voluto, senza sapere dove fosse e vedendo nient’altro che mare, trascorse tutto quel giorno e la notte seguente.
Il giorno dopo ,come piacque a Dio e al vento, diventato quasi una spugna, attaccato con forza ai bordi della cassa, giunse alla spiaggia dell’isola di Corfù, dove una povera donnetta lavava i piatti con l’acqua salata e la sabbia. Come costei vide qualcosa che si avvicinava, cominciò a gridare spaventata.
Lo sventurato non poteva parlare e vedeva poco per cui non disse niente; man mano che si avvicinava, la donna riconobbe la cassa e, vedendo le braccia e la faccia dell’uomo ,capì quello che era successo.
Mossa a compassione, entrata un po’ nel mare, che, frattanto, si era calmato, afferratolo per i capelli, lo tirò a terra con tutta la cassa ,che pose sulla testa della figlioletta che era con lei ,e lo portò al villaggio.
Fattogli un bel bagno caldo, come a un bambino, tanto lo massaggiò e lo lavò, che ,ben presto, il naufrago ritrovò il calore e le forze perdute.
Lo trattò con grande cura, rifocillandolo con buon vino e dolciumi, trattenendolo per alcuni giorni, fino a quando, recuperate le forze, non ricordò chi era  e chiese dove si trovava.
La brava donna gli consegnò la cassa che aveva salvata dalle onde ,insieme con lui, e gli disse che ormai poteva andare per la sua strada.
Il giovane, che non se ne ricordava per niente, prese la cassa, pensando che potesse valere qualcosa, ma visto che pesava poco, non aveva molte speranze.
Un giorno, mentre la donna non era in casa, la aprì e trovò in essa un vero tesoro : molte pietre preziose, alcune montate, altre sciolte, delle quali era buon intenditore. Vedendole, provò un grande conforto, lodando Dio che non lo aveva voluto abbandonare.
Poi, con molta prudenza, come uno che , in poco tempo e per ben due volte aveva subito i colpi della fortuna, temendo che potesse essercene anche una terza, si organizzò per potersi portare a casa sua quei tesori.
Avvolte le pietre in alcuni stracci, come meglio potè, disse alla buona donna che non aveva più bisogno della cassa e che gliela donava in cambio di un sacco, se era possibile.
La donna l’accontentò volentieri, egli la ringraziò caldamente e messosi il sacco in spalla, partì .
Salito su una nave, arrivò a Brindisi e, di porto in porto, giunse fino a Trani, dove incontrò alcuni suoi concittadini, che commerciavano in stoffe, ai quali raccontò le sue vicissitudini, ma, prudentemente, non accennò alla cassa .
Costoro lo rivestirono, gli prestarono un cavallo e lo rimandarono a Ravello, dove diceva di voler tornare, dandogli una compagnia.
Giunto finalmente nel suo paese, sentendosi al sicuro, ringraziando Iddio, sciolse il sacchetto e guardò, con più attenzione, le pietre che vi erano contenute. Le vide belle e preziose sopra ogni sua aspettativa e calcolò che vendendole anche a un prezzo inferiore al loro valore, sarebbe diventato ricco il doppio di quando era partito.
Vendute le pietre, mandò fino a Corfù una buona quantità di denaro alla donna che lo aveva salvato dalle acque del mare e lo stesso fece per coloro che a Trani lo avevano aiutato.
Si tenne il resto senza voler più fare il mercante e così visse onorevolmente fino alla fine.






giovedì 12 dicembre 2013

SECONDA GIORNATA - NOVELLA N.3

SECONDA GIORNATA – NOVELLA N.3


 Tre giovani dissipano tutti i loro averi; il nipote di uno di questi, si accompagna ad un abate. Tornando a casa, disperato, si accorge che era la figlia del re d’Inghilterra, che lo sposa .Così risolve i problemi degli zii, rimettendo tutto a posto.

Furono ascoltate ,con divertimento le vicende di Rinaldo d’Asti, la sua devozione a Dio e a San Giuliano, né fu ritenuta sciocca la donna che aveva usato il bene che Dio le aveva mandato in casa.
Toccò, poi, a Pampinea, che sedeva a fianco di Filostrato,  iniziare a parlare, al comando della regina .
Fece, inizialmente,sagge considerazioni sulla fortuna, dicendo che tutto è nelle sue mani ed essa muove le cose della vita ,secondo un suo giudizio, nascosto agli esseri mortali.
Cominciò a raccontare che, un tempo, viveva in Firenze un cavaliere di nome Teobaldo, che ,secondo alcuni, apparteneva alla famiglia dei Lamberti, secondo altri a quella degli Agolanti. Ma, a prescindere dalla famiglia di appartenenza, era un ricchissimo cavaliere ed aveva tre figli. Il primo si chiamava Lamberto, il secondo Teobaldo ed il terzo Agolante, tutti belli ed eleganti.
Quando il primo non aveva ancora diciotto anni, messere Teobaldo morì e lasciò a loro, come legittimi eredi, tutti i beni mobili ed immobili. I giovani, vedendosi ricchissimi, cominciarono a spendere senza alcun ritegno, tenendo un gran numero di servi, molti cavalli, cani ed uccelli, facendo continue feste e banchetti, dilettandosi in tutto quello che piaceva loro, sia per la posizione sociale che per la giovane età.
Questa vita allegra non durò a lungo, ben presto consumarono il tesoro lasciato dal padre e dovettero vendere tutti i possedimenti, riducendosi in povertà.
Lamberto, chiamati i suoi fratelli e ricordando la magnificenza del padre, il loro disordinato spendere, la povertà in cui si trovavano in quel momento, decise con i fratelli di vendere quel poco che era rimasto e di andarsene via, e così fecero.
Senza salutare nessuno partirono da Firenze e se ne andarono in Inghilterra .
Qui presero una casetta, molto piccola, e cominciarono a prestare ad usura.
 La fortuna li aiutò e ,ben presto, accumularono una grandissima quantità di denaro.
Tornati a Firenze , ricomprarono i loro possedimenti e molte altre cose e si sposarono.
Continuarono a prestare soldi in Inghilterra e, per curare i loro affari, mandarono lì un nipote di nome Alessandro. Non avevano, comunque, messo giudizio e , dimenticando dove li aveva portati lo spendere dissennatamente, ripresero la vita di prima, buttando i soldi dalla finestra.
Per un po’ di anni li aiutò il danaro mandato da Alessandro, che si era messo a prestare ai baroni che impegnavano i castelli e le altre entrate, e la cosa gli rendeva molto bene.
Mentre i tre fratelli continuavano a spendere, sperando nei soldi provenienti dall’Inghilterra, contro ogni aspettativa, scoppiò una guerra tra il re (Enrico II) e suo figlio (Enrico) che divise tutta l’isola, parteggiando alcuni nobili per il re e altri per il figlio. Per questo tutti i castelli dei baroni furono tolti ad Alessandro, che rimase lì, in attesa che ritornasse la pace e gli fossero restituite le ricchezze, ma non mandò più soldi a Firenze. I tre spendaccioni persero nuovamente i loro averi e furono imprigionati per debiti, mentre le loro donne e i loro figli più piccoli se ne andarono chi di qua chi di là, vivendo in miseria.
Alessandro, avendo perso ogni speranza che ritornasse la pace, ritenendo che era inutile rimanere in Inghilterra, decise di ritornare in Italia e, solo soletto, si mise in cammino.
Uscendo da Burges, si imbattè in una carovana al seguito di un abate ,vestito di bianco, accompagnato da molti monaci, molti servi con molti bagagli, e, infine, da due anziani cavalieri ed altri parenti.
Alessandro fu accolto volentieri nella compagnia.
Mentre camminavano, il giovane chiese chi erano i monaci e dove andassero. Uno dei cavalieri rispose che il giovinetto che cavalcava davanti era un loro parente che era stato eletto abate di una delle più importanti badie d’Inghilterra. Poiché era troppo giovane per ricoprire la carica e ciò non era consentito dalla legge, andavano a Roma per pregare il Santo padre di concedere la dispensa e autorizzarlo a ricoprire l’incarico. Tutto questo, però, doveva rimanere segreto.
Il novello abate, mentre procedevano, spostandosi avanti e dietro, vide Alessandro che era un bel giovane,
molto garbato e con modi gentili ed eleganti, e ne rimase conquistato a prima vista.
Lo chiamò a sé e, discorrendo piacevolmente, gli chiese donde venisse e dove andasse. Il giovane rispose con sincerità a tutte le domande e si mise a disposizione, sebbene potesse fare poco. Il prelato, visto che era una persona gentile, che ragionava con garbo, fu ancora più attratto e, pieno di compassione per le sue sventure, lo confortò e, visto che andava verso la Toscana, lo invitò a viaggiare insieme.
 Procedendo, giunsero in un villaggio, dove c’era solo un alberghetto. Alessandro, che conosceva l’albergatore, fece preparare per l’abate la stanza migliore della casa, poi, come se fosse stato il maggiordomo, diede disposizioni per gli alloggi di tutta la schiera.
Dopo cena, a notte inoltrata, essendo tutti andati a dormire, domandò all’oste dove egli stesso potesse sdraiarsi. L’altro rispose che l’albergo era tutto pieno, solo nella camera dell’abate vi erano dei granai su cui il giovane poteva dormire ,arrangiandosi.
Alessandro era perplesso, in quanto avrebbe preferito dormire con gli altri monaci, senza disturbare il religioso, che dormiva profondamente. Alla fine il giovane , date le insistenze, si sistemò su un granaio con una coperta addosso, cercando di fare meno rumore possibile.
L’abate, che non dormiva per niente, ma era immenso in pensieri d’amore, aveva sentito tutto quello che i due si erano detti e anche dove si era sistemato Alessandro.
Tutto contento disse tra sé” Iddio mi ha mandato questa occasione, se non la prendo, non mi capiterà mai più”. Con voce sommessa, invitò, perché si coricasse vicino a lui, Alessandro, che dopo aver più volte rifiutato, si spogliò e si coricò.
L’abate , avvicinatosi lo cominciò a toccare come fanno le fanciulle innamorate con i loro amanti. Il giovane era sconcertato e non sapeva cosa fare, allora l’altro gli prese una mano e se la pose sul petto dicendo “Alessandro, scaccia ogni sospetto, ti svelo il mio segreto”.
  L’uomo con la mano , posta sul petto del religioso, sentì due seni tondi, sodi e delicati, come se fossero stati d’avorio, comprese, allora, che era una donna, e, senza indugio, voleva abbracciarla e baciarla.
 Ed ella disse “ Come puoi vedere sono femmina e non uomo, e, come fanciulla, stavo andando dal Papa perché mi sposasse; per mia sventura come ti vidi, mi innamorai perdutamente di te. Per questo ho deciso che voglio avere come marito solo te. Se tu non mi vuoi come moglie allontanati da qui e vai per la tua strada”.
Alessandro, sebbene non la conosceva, vedeva che era bellissima e doveva essere molto ricca, dato il seguito che aveva. Accettò, dunque, la proposta di matrimonio ben volentieri. 
La fanciulla, messasi a sedere davanti ad un dipinto di nostro Signore, gli pose in mano un anello, come promessa di matrimonio. Poi si abbracciarono e trascorsero la notte in giochi amorosi, che erano graditi ad entrambi.
All’alba, l’uomo, alzatosi, tutto sorridente, uscì dalla stanza senza che nessuno sapesse dove aveva dormito la notte. La carovana riprese il cammino e, dopo alcuni giorni, giunsero a Roma.
Lì  l’abate, con i due cavalieri ed Alessandro, senza nessun altro, fu ricevuto dal Papa.
Fatta la dovuta riverenza, l’abate cominciò a parlare “ Santo padre, ognuno deve vivere bene e onestamente,
come voglio fare io. Nell’abito in cui mi vedete sono fuggita ,con molte ricchezze del re d’Inghilterra, da mio padre, il quale mi voleva dare in sposa al re di Scozia, che è vecchissimo, e mi voleva far sposare da vostra Santità. Mi fece fuggire non tanto la vecchiaia del re di Scozia, quanto la paura che, una volta maritata, potessi fare qualcosa contro le leggi divine e contro l’onore del re mio padre.
Durante il viaggio, Dio, per sua misericordia, mi pose davanti colui che voleva che io avessi come marito : questo giovane”.
E gli mostrò Alessandro elogiandone l’onestà, il valore, anche se non era nobile come lei.
 Dichiarò che si era unita a lui, lo voleva, e non avrebbe sposato nessun altro qualsiasi cosa dicesse suo padre. E continuò dicendo “ Santità, vogliate benedire il matrimonio che Alessandro ed io abbiamo contratto alla presenza solo di Dio. Con la vostra benedizione, che ci darà la certezza che esso è gradito a Dio, di cui voi siete il vicario, noi possiamo onestamente vivere ed , infine,  morire”.
Il giovane si meravigliò udendo che la moglie era la figlia del re d’Inghilterra e ne gioì profondamente.
Anche i due cavalieri si stupirono, e ancor più si stupì  il Papa, ma, sapendo che non si poteva più tornare indietro, volle soddisfare la preghiera della donna.
Nel giorno fissato per la cerimonia, il Papa, davanti a tutti i cardinali e i nobili, che aveva invitati per fare una
gran  festa, fece venire la donna, regalmente vestita, che era uno splendore, ed Alessandro , anch’egli riccamente vestito, tanto che pareva un re e non un usuraio .
Fece celebrare nozze solenni, e poi licenziò gli sposi con la sua benedizione.
I due sposi si recarono, poi ,a Firenze, dove l’uomo pagò i debiti, fece liberare i tre fratelli e li rimise  con le loro donne nei possedimenti riacquistati.
Ripartirono ,infine, per Parigi, dove furono ricevuti dal re, portando con loro Agolante.
Frattanto, i due cavalieri andarono in Inghilterra e riuscirono a convincere il re ad accogliere i due sposi. Il Re li ricevette con grandissima festa e, poco dopo, nominò Alessandro cavaliere e gli donò la contea di Cornovaglia.  
Il giovane seppe operare così bene che pacificò il figlio con il padre, cosa che fu molto utile all’isola e ai suoi affari. Agolante, raccolti tutti i crediti ,straordinariamente ricco, ritornò a Firenze.
Alessandro visse felicemente con la sua donna e, secondo quanto si dice, con l’aiuto del suocero, conquistò la Scozia e fu incoronato re.




giovedì 5 dicembre 2013

SECONDA GIORNATA - NOVELLA N.2

SECONDA GIORNATA – NOVELLA N.2


Rinaldo d’Asti, derubato, capita a Castel Guglielmo ed è ospitato da una donna vedova, risollevato dalle sventure torna sano e salvo a casa sua.


Delle sventure di Martellino, raccontate da Neifile, risero le donne e soprattutto, tra i giovani, Filostrato, al quale, poiché sedeva vicino a Neifile, la regina comandò di continuare.
Ed egli iniziò, dicendo che voleva raccontare una novella di carattere religioso. In essa si mescolavano sventure e amore e doveva essere ascoltata da coloro che si mettevano in viaggio, che dovevano tutti dire ,prima di partire, un padrenostro a San Giuliano, protettore dei viaggiatori.
Un mercante di nome Rinaldo d’Asti, al tempo di Azzo da Ferrara ( intorno al 1300), era venuto a Bologna, per fare acquisti. Tornando a casa, dopo essersi rifornito, uscito da Ferrara e andando verso Verona, incontrò alcuni mercanti che parevano ,piuttosto dei masnadieri, ai quali, imprudentemente, si aggregò.
Costoro, stimandolo ricco e ben in soldi, decisero di derubarlo, alla prima occasione, anche se con lui fingevano di essere onesti e leali e si mettevano a disposizione per ogni sua esigenza.
Mentre camminavano, discutendo del più e del meno, cominciarono a ragionare delle preghiere che gli uomini facevano a Dio. Uno dei tre chiese a Rinaldo quali orazioni era solito fare a Dio quando si metteva in viaggio.
E Rinaldo rispose che era uomo all’antica e che dava poca importanza a queste cose, tuttavia aveva sempre avuto l’abitudine di dire, al mattino, quando usciva dall’albergo, un padrenostro e un’Ave Maria all’anima del padre e della madre di San Giuliano. Poi, pregava Dio e San Giuliano che gli dessero un buon alloggio per la notte seguente.
E, molte volte, viaggiando, aveva affrontato gravi pericoli ai quali era scampato, trovando un buon rifugio per la notte. Per questo rispettava la credenza che San Giuliano proteggeva i viaggiatori e non avrebbe mai più viaggiato tranquillo, se al mattino, prima di partire, non avesse rivolto la preghiera al Santo.
E i tre domandarono se quella mattina l’aveva detta. Rinaldo assentì..
Allora uno disse tra sé “ E a buon motivo ti servirà, perché ,se il nostro proposito non fallisce, stanotte tu alloggerai malissimo” e poi disse, rivolto a Rinaldo “Io, che pure, come te ,ho molto viaggiato, non l’ho mai detta, anche se ne ho sentito parlare da molti, eppure ho sempre albergato bene. Questa sera, per caso, vedremo chi alloggerà meglio, se tu che hai pregato o io che non ho pregato. Al posto del padrenostro io, di solito, dissi il “dirupisti” o il “ deprofundi” che mia nonna diceva che erano molto validi”.
Così conversando, procedevano, aspettando il momento opportuno per attuare il loro piano malvagio.
Giunti nelle vicinanze di Castel Guglielmo (nel Polesine), nell’attraversare un fiume, a notte inoltrata,assalirono Rinaldo e lo derubarono.
Allontanandosi, dopo averlo spogliato di tutto, lasciandolo solo con la camicia, gli dissero “Vattene e vedi se il tuo San Giuliano stanotte ti darà buon albergo, a noi il nostro ,sicuramente, lo darà buono”.
Il servitore di Rinaldo, vedendolo assalire, non si preoccupò di aiutarlo, ma, vigliaccamente, voltato il cavallo si diresse di corsa a Castel Guglielmo, dove, senza preoccuparsi, trovò ricovero.
Rinaldo, scalzo e in camicia, facendo molto freddo e nevicando, essendo già notte fonda, cominciò a cercare un rifugio per la notte, ma non ne trovò alcuno. Infatti, in quella zona c’era stata la guerra ed ogni cosa era stata bruciata. Spinto dal freddo si diresse verso Castel Guglielmo, per cercare soccorso.
Giunse al castello a notte fonda, quando le porte erano state chiuse e il ponte era stato alzato, perciò non potè entrare.
Cercando, affannosamente, un riparo dalla neve e dal gelo, vide una casa ,che sporgeva un po’ in fuori dalle mura del castello, subito decise di ripararsi lì fino all’alba. L’uscio era chiuso, ma, davanti ad esso ,il tetto sporgeva appena, raccolta un po’ di paglia che era lì vicino, si sistemò, lamentandosi che San Giuliano non si era comportato bene con lui. Ma San Giuliano, intervenendo rapidamente, gli preparò un buon alloggio.
Viveva in quel paese una vedova, bellissima come nessun’altra, che il marchese Azzo amava e teneva a sua disposizione. La donna abitava nella casa, sotto il cui tetto ,Rinaldo si era riparato.
Il giorno prima, il marchese, volendo la notte giacere con lei, nella casa aveva fatto preparare un bagno e un’ottima cena.
Era tutto pronto e la donna aspettava soltanto l’arrivo del marchese. Purtroppo arrivò un servo a cavallo, per avvisare la donna che il marchese era dovuto improvvisamente partire per cui non doveva più attenderlo.
 La donna, amareggiata, non sapendo cosa fare, decise di entrare nel bagno preparato per il signore, poi cenare ed, infine, andare a letto. Rapidamente entrò nel bagno, che era sistemato vicino alla porta, accanto alla quale si era rifugiato il meschino Rinaldo. Sentì il pianto ed il battito di denti, simile a quello di una cicogna, che faceva lo sventurato; chiamata la domestica, le disse di andare fuori a vedere chi c’era e che cosa faceva.
La fantesca andò , vide l’uomo semicongelato e gli domandò chi era.
Rinaldo le raccontò le sue disavventure e la pregò di non lasciarlo morire di freddo.
Udito il racconto, la vedova, presa la chiave che serviva per far entrare soltanto il marchese, disse alla domestica di aprire e di far entrare l’uomo ,che poteva mangiare, visto che la cena era pronta , e poteva essere ospitato senza problemi perché c’era molto spazio.
La fantesca, obbedendo all’ordine della padrona, lo fece entrare e, vedendo che era quasi assiderato, lo fece immergere nel bagno che era ancora caldo.
L’uomo fece tutto di buon grado e, riconfortato dal calore, gli parve di essere resuscitato.
La donna gli fece portare gli abiti del marito che era morto da poco, che gli andavano a pennello.
Il mercante, aspettando gli ordini della donna, cominciò a ringraziare Dio e San Giuliano che lo avevano salvato e gli avevano preparato un buon albergo per la notte.
La padrona, frattanto, chiese come stava l’uomo alla fantesca che, astutamente, rispose che si era rivestito e sembrava un bell’uomo e una persona per bene. Sentito ciò la donna lo fece invitare a cena, visto che non aveva cenato. Rinaldo ,entrato nella sala, ammirò la bellezza della dama e ringraziò per l’aiuto datogli.
La vedova, condividendo il giudizio della domestica, lo fece sedere familiarmente vicino al fuoco e si fece raccontare quello che gli era capitato. Confrontandolo con quanto aveva sentito dire in paese  riferito dal servo del mercante, gli credette completamente e gli disse ciò che sapeva del suo inserviente ,promettendo che  l’avrebbe fatto chiamare l’indomani.
 Poi, imbandita la tavola, dopo essersi lavate le mani, insieme si misero a cenare.
Rinaldo era alto, bello, di aspetto e di modi gentili, di mezza età (circa 35 anni). La donna cominciò a guardarlo con interesse e pensò che, poiché il marchese l’aveva lasciata sola quella notte, dopo aver destato in lei il desiderio d’amore, poteva usare quel bene che la fortuna le aveva mandato.
Dopo cena, alzatasi da tavola, chiese consiglio alla domestica che, conoscendo il suo desiderio, l’assecondò.
Tornata, dunque, vicino al fuoco, guardò amorosamente il giovane e gli disse “ Rinaldo, non siate così pensieroso, non pensate di poter recuperare il cavallo e gli abiti che avete perduto? Confortatevi, siete a casa vostra. Anzi ,vedendovi indossare i panni di mio marito morto, sembrando che siate proprio lui, mi è presa una gran voglia di abbracciarvi e di baciarvi, cosa che avrei certamente fatto se non avessi temuto di dispiacervi”.
Rinaldo ,udendo queste parole e vedendo la luce d’amore negli occhi di lei, le andò incontro a braccia aperte, dicendo “Signora, farò tutto quello che volete, perché vi sono grato di avermi salvato e, pensando alle cortesia che mi avete usato, vi accontenterò in tutto e se voi desiderate abbracciarmi e baciarmi, vi abbraccerò e bacerò più che volentieri”.
Non ci furono più parole. Dopo molti baci, ella, che ardeva di amoroso desiderio, lo condusse nella sua camera, e più volte si accoppiarono, come entrambi desideravano.
Sul far dell’alba, la donna , svegliatasi, perché non si potesse sospettare nulla, gli diede dei vecchi abiti, gli riempì la borsa di denari e, pregandolo di tener nascosto l’accaduto, lo fece uscire da dove era entrato.
Egli, fattosi giorno, entrò nel castello, ritrovò il servo e si rivestì con gli abiti che erano nella sua valigia.
Venne , poi, a sapere che i tre masnadieri che lo avevano derubato, per un altro furto che avevano fatto, erano stati catturati ed avevano confessato. Gli furono, dunque, restituiti il cavallo, i panni e i denari, perdette soltanto dei lacci per le scarpe che i ladroni avevano buttato.
Rinaldo, ringraziando Dio e San Giuliano, montò a cavallo e ritornò sano e salvo a casa sua, mentre i tre masnadieri furono impiccati.
              







giovedì 28 novembre 2013

SECONDA GIORNATA - NOVELLA N.1

SECONDA GIORNATA – NOVELLA N.1


Martellino, fingendosi storpio, simula di guarire grazie al Beato Arrigo, scoperto il suo inganno, è picchiato e arrestato; corre il pericolo di essere impiccato per la gola, ma alla fine si salva.


Neifile iniziò il racconto riflettendo che ,alcune volte, chi voleva beffare gli altri, si ritrovava egli stesso beffato.E volle dimostrare ciò nel rispetto del tema fissato dalla regina.
Non molto tempo addietro, viveva in Treviso un tedesco chiamato Arrigo, santo e apprezzato da tutti, molto povero, che viveva portando pesi a pagamento.
A detta dei trevigiani, nell’ora della sua morte , tutte le campane del Duomo , senza essere tirate, si misero a suonare. Tutti gridarono al miracolo e, ritenendo Arrigo Santo, si recarono, in pellegrinaggio, alla casa dove giaceva, conducendo lì zoppi, ciechi, ammalati, tutti quelli che avevano qualche infermità e qualche difetto, sperando che miracolosamente potessero guarire toccando quel corpo.
In tale circostanza, giunsero a Treviso tre fiorentini, uno chiamato Stecchi, l’altro Martellino e il terzo Marchese. Costoro erano buffoni che giravano per le corti dei signori, travestendosi e facendo imitazioni per divertire gli spettatori. Vedendo accorrere tanta gente si meravigliarono e, udito il motivo, vollero andare a vedere.
Depositati i bagagli in albergo, pensarono a come fare per arrivare alla casa del morto.
L’impresa non era facile, perché la piazza era piena di tedeschi e la chiesa ancora di più.
Martellino ebbe un’idea. Decise di fingersi storpio, di non poter camminare e di farsi sostenere da un lato da Stecchi e dall’altro da Marchese.
L’idea piacque ai suoi amici e subito misero in atto il piano.
Martellino contrasse talmente le mani, le braccia, le gambe, la bocca, gli occhi e tutto il viso da sembrare veramente terribile e non c’era nessuno che ,vedendolo, non lo ritenesse handicappato.
Per avvicinarsi alla chiesa, i due compagni ,che lo sostenevano, chiedevano di fare spazio e tutti si scostavano, anzi, alcuni uomini li aiutarono a mettere Martellino sul corpo di Arrigo perché potesse riacquistare la salute. Martellino, mentre tutta la gente era attenta a vedere che cosa gli succedesse, piano piano, cominciò a distendere le dita, poi la mano, poi il braccio e così tutto il corpo, come sapeva fare benissimo.
La gente, vedendo ciò, subito gridò al miracolo, con grida tanto forti in onore di Santo Arrigo da uguagliare il rumore dei tuoni.
Per caso ,si trovava in quel luogo un fiorentino che conosceva bene Martellino, ma che non lo aveva riconosciuto mentre si fingeva storpio. Lo riconobbe subito ,quando si raddrizzo, cominciò a ridere e disse “ O Signore ,che gli venga un accidente! Chi non avrebbe creduto, vedendolo, che era veramente storpio?”.
Alcuni trevigiani, udendolo, ebbero dei dubbi e chiesero all’uomo chiarimenti.
Il fiorentino rispose che quel bugiardo era sano come tutti loro, ma era un buffone che amava travestirsi e giocare. Udito ciò, tutti si misero a gridare e ad accusare il simulatore di volersi beffare di Dio e dei Santi e, afferratolo, gli strapparono le vesti e lo colpirono con pugni e calci, nonostante che egli chiedesse pietà.
I due amici non osavano aiutarlo, per paura di fare la stessa fine, pure cercavano il modo per sottrarlo all’ira del popolo, che l’avrebbe sicuramente ucciso.
Marchese, allora, andò a chiamare le guardie , accusando Martellino di avergli rubato una borsa con cento fiorini d’oro. Immediatamente le guardie corsero dove lo sventurato le stava buscando e lo sottrassero alle mani della folla infuriata. Molti li seguirono e, sentendo di che cosa era accusato, pensando di fargli avere una condanna più pesante, cominciarono a dire che anche a loro era stato rubato del denaro (era stata tagliata la borsa). Udendo queste accuse ,il giudice del podestà cominciò ad interrogarlo.
Visto che l’accusato non prendeva sul serio la cosa, ma scherzava, lo fece torturare, legandolo alla corda, per, poi, farlo impiccare. Posto a terra, alle domande del giudice egli rispose “Signor mio, vi confesserò le verità. Ma fatevi dire da coloro che mi accusano quando e dove li derubai”.
Il giudice chiamò gli accusatori che riferirono che uno era stato derubato otto giorni prima, un altro sei, un altro quattro, uno lo stesso giorno. Udendo ciò ,Martellino disse “ Signor mio, costoro mentono spudoratamente, perché io sono arrivato da poco. Potete controllare chiedendo all’albergatore e all’ufficiale addetto alla registrazione dei forestieri”.
Mentre le cose stavano così, Marchese e Stecchi, che temevano di aver gettato il compagno dalla padella nel fuoco, trovato l’oste ,gli raccontarono il fatto. Egli, ridendo, li condusse da un certo Sandro Angolanti, che abitava a Treviso ed era molto amico del Signore della città e gli raccontò ogni cosa.
Anche Sandro si divertì molto e andò dal Signore ad intercedere per la salvezza di Martellino, salvezza che ottenne.
Quando andarono a prenderlo, lo trovarono in camicia, smarrito e morto di paura, davanti al giudice, che non voleva sentire ragione , che, per odio ai fiorentini, voleva impiccarlo a tutti i costi e  per nessuna ragione voleva liberarlo. Alla fine ,il giudice, suo malgrado, fu costretto a lasciarlo andare.
Quando Martellino fu al cospetto del Signore raccontò tutto quello che aveva combinato e lo pregò di lasciarlo andare perché, fino a che non fosse giunto a Firenze, si sarebbe sentito ,sempre col cappio alla gola.
Dopo moltissime risate per l’accaduto, il Signore fece donare un abito ad ognuno e tutti e tre se ne tornarono sani e salvi a Firenze, usciti dal pericolo oltre ogni speranza. 
   






SECONDA GIORNATA



















SECONDA GIORNATA


Il sole era sorto, illuminando il nuovo giorno, in tutto il suo splendore.
L’allegra brigata fece come aveva fatto il giorno prima.
All’ora nona, si posero tutti a sedere in circolo e la regina comandò a Neifile di iniziare, per prima, a narrare.


FINE PRIMA GIORNATA




















Finisce la Prima giornata del Decameron ed inizia la Seconda, nella quale, sotto il governo di Filomena, si racconta di chi ,colpito da eventi sfavorevoli, è ,poi, arrivato a buon fine, oltre la propria speranza.




giovedì 21 novembre 2013

PRIMA GIORNATA - CONCLUSIONI

 PRIMA GIORNATA




CONCLUSIONI

Le narrazioni finirono al vespro, quando il caldo era diminuito.
La regina ,allora, ritenne che era il momento di nominare una nuova regina che avrebbe deciso che cosa era opportuno predisporre per l’indomani, Filomena, con grazia di Dio, avrebbe guidato il loro regno nella seconda giornata.
Detto ciò si alzò in piedi, si tolse la ghirlanda d’alloro e, rispettosa, la pose sul capo dell’amica.
Filomena, emozionata per l’incarico conferitole, ricordando le parole dette poco prima, riconfermò le disposizioni date da Pampinea, ritenendo che potessero essere mantenute finchè non venissero a noia alla compagnia. Tutti si dovevano svegliare all’alba, con il fresco, nella mattinata dovevano passeggiare e fare quello che preferivano, come già avevano fatto, poi, dovevano mangiare, ballare e , nel pomeriggio riposarsi.
Al risveglio dovevano riprendere la narrazione . L’unica variante doveva consistere nel fissare il tema per i racconti della seconda giornata, mentre nel primo giorno le storie si erano susseguite liberamente.
Ciò era necessario perché ciascun narratore potesse pensare, con tempo, qualche bella novella da raccontare.
Nella la seconda giornata bisognava riportare le vicende di uomini che ,danneggiati da eventi sfavorevoli, fossero arrivati a buon fine ,oltre la propria speranza.
Tutti furono d’accordo, ad eccezione di Dioneo, che chiese, come dono, di non essere costretto ad obbedire al tema fissato, ma di poter dire quello che più gli piacesse ,senza vincoli, ed, ancora, di poter essere l’ultimo narratore del giorno.
La regina, con il parere favorevole di tutti, lo accontentò.
Subito dopo si alzarono e si spostarono ,con passo lento, verso un ruscello di acqua chiarissima, che scendeva da un collina in una valle, ombreggiata da molti alberi. Qui , con le braccia nude, si bagnarono, scherzando tra loro. All’ora di cena tornarono al palazzo e cenarono. Dopo cena la regina comandò che iniziassero le danze, guidate da Lauretta, mentre Emilia cantava una canzone accompagnata dal suono del liuto di Dioneo.
Emilia cantò ,con amore, una canzone che conteneva l’elogio della propria bellezza. Quando si contemplava allo specchio provava una grande dolcezza, che non poteva comprendere chi non l’aveva provata. 
Finita la canzone, dopo alcune danze, poiché era già passata una breve parte della notte, la regina licenziò tutti.
Accese le torce, ciascuno si ritirò a riposare nella sua camera.




















giovedì 14 novembre 2013

PRIMA GIORNATA - NOVELLA N.10

PRIMA GIORNATA – NOVELLA N.10


 Il maestro Alberto da Bologna fece vergognare con la sua onestà una donna che lo voleva mortificare per il suo amore per lei.


A Pampinea, la regina, toccava di raccontare l’ultima novella della giornata.
Con grazia cominciò a parlare dicendo che i motti erano ornamenti gradevoli nei discorsi , così come lo erano le stelle nel firmamento e, in primavera, i fiori nei verdi prati.
Poiché i motti erano brevi, erano più adatti alle donne che agli uomini, anche se ,nella loro epoca, ce ne erano poche che sapessero comprenderli e raccontarli.
Purtroppo, le donne moderne avevano rivolto la loro attenzione agli ornamenti del corpo e colei che indossava le vesti più colorate e più ricche si credeva più importante e più rispettata, non pensando che anche un asino, se avesse portato ricche bardature, sarebbe stato onorato.
Si vergognava a dirlo, perché colpiva tutte le donne e anche sé stessa : queste donne così vestite e dipinte se ne stavano mute e insensibili, come statue di marmo e se, interrogate, rispondevano, meglio sarebbe stato se fossero rimaste in silenzio. E facevano credere di non saper, per timidezza, parlare tra le donne e gli uomini colti, e, alla loro stupidità davano il nome di onestà, come se una donna onesta avesse potuto parlare solo con la domestica, la lavandaia e la fornaia.
Era importante, comunque, guardare il tempo e il luogo in cui si parlava, per cui, talvolta, avveniva che un uomo o una donna credeva, con una battuta di spirito, di far arrossire l’interlocutore, invece, non avendo ben misurato le sue forze , quel rossore se lo vedeva ritornare indietro, su di sé, con la risposta dell’altro.
Affinchè  evitassero che si dimostrasse fondato il proverbio che le donne ,in ogni cosa, prendevano sempre il peggio , la regina voleva raccontare un’ultima novella.
Non molti anni prima , a Bologna, visse un medico molto famoso, di nome Maestro Alberto de’ Zancari.
Nonostante fosse già vecchio , aveva quasi settanta anni, si innamorò ,come un giovinetto, di una bellissima  vedova, Madonna Margherita  dei Ghisolieri, dopo averla vista ad una festa.
La notte non riusciva più a dormire, se il giorno prima non aveva visto il delicato viso della donna.
Per questo, sia a piedi che a cavallo, cominciò ad andare davanti alla casa della donna.
Ella e le sue amiche si accorsero del motivo del suo passare e scherzavano nel vedere un uomo così anziano uscir di senno per amore, credendo che la passione d’amore dimorasse solo nei giovani.
In un giorno di festa, mentre Margherita sedeva con le altre donne davanti  alla porta di casa, vide venire Maestro Alberto e lo invitò, per deriderlo.
Le donne lo fecero accomodare in un fresco cortile e gli offrirono finissimi vini e dolciumi. Infine, con delicate parole , gli domandarono come era possibile che fosse innamorato della donna ,ben sapendo che era amata da molti giovani belli e gentili.
Il Maestro sorrise e rispose “ Madonna, il fatto che vi ami non deve sorprendere nessuno e soprattutto voi ,che lo meritate. E se ai vecchi sono tolte dalla natura le forze per gli esercizi d’amore, non è tolta la volontà di amare chi lo merita, anche perché hanno più esperienza dei giovani. Spero che voi, amata da molti giovani, possiate amare me . Spesso ho visto le donne, a merenda, mangiare lupini e porri. Si sa che del
porro nessuna cosa è buona, solo il capo è più gustoso. Voi donne, di solito, tenete il porro per la testa e mangiate le foglie che hanno un pessimo sapore. E perché voi, signora, non potreste fare la stessa cosa? Se faceste così ,io sarei il capo prescelto , mentre gli altri sarebbero cacciati via”.
 La donna, mortificata, rispose “Maestro ,ci avete cortesemente rimproverate per il nostro scherzo, tuttavia, il vostro amore, poiché proviene da un uomo saggio e di valore, mi è caro e gradito, purchè sia salva la mia onestà”.
Il Maestro, alzatosi con i suoi compagni, ridendo allegramente, ringraziò la donna e se ne andò.
Così  la dama, non considerando il valore della persona che voleva schernire, rimase schernita.
E la regina affidò il motto alla saggezza delle compagne.





giovedì 31 ottobre 2013

PRIMA GIORNATA - NOVELLA N.9

PRIMA GIORNATA – NOVELLA N.9



Il re di Cipro, colpito dalle parole di una donna della Guascogna, da vile che era divenne valoroso.

Elissa, cui toccava raccontare, senza attendere l’ordine della regina, iniziò dicendo che ciò che non erano riusciti a fare tanti tentativi e tante imprese, poteva ottenere una parola detta per caso,non di proposito.
Il che si vedeva bene dalla novella raccontata da Lauretta ed ella stessa l’avrebbe dimostrato subito.
E raccontò che al tempo di Guido da Lusignano, primo re di Cipro, dopo che Goffredo di Buglione aveva conquistato Gerusalemme, nella prima Crociata, una gentildonna di Guascogna, andò in pellegrinaggio al Santo Sepolcro ; al ritorno, giunta a Cipro, fu oltraggiata da alcuni uomini scellerati.
Poiché non riusciva ad avere consolazione, pensò di andare a denunziare l’accaduto al re. Ma le fu detto che era del tutto inutile. Infatti il sovrano era così indolente e vile che non solo non applicava la giustizia alle offese fatte ai suoi sudditi, ma, anzi, sopportava con vergognosa viltà quelle che facevano a lui, per cui chi non riceveva giustizia, si sfogava offendendolo.
Avendo udito queste cose, la donna, pur non sperando vendetta, volle andare a constatare la viltà del re e, recatasi, piangendo, al suo cospetto, disse “Maestà, non vengo in tua presenza per avere vendetta dell’offesa ricevuta, ma per placare il mio dolore. Ti prego, insegnami come tu sopporti le offese che, ho sentito che ti sono fatte ,in modo che ,imparando da te , posso, pazientemente, sopportare la mia. Ti donerei volentieri la mia offesa, se potessi, sapendo che tu sai sopportare così bene”.
Il re, fino a quel momento indolente e pigro, come se si svegliasse da un sogno, duramente punì l’ingiuria fatta alla donna, e, in seguito, divenne rigidissimo persecutore di tutte le offese fatte all’onore della sua corona.








giovedì 24 ottobre 2013

PRIMA GIORNATA - NOVELLA N.8

PRIMA GIORNATA – NOVELLA N.8

 Gugliemo Borsieri ,con garbate parole, colpisce l’avarizia di messere Erminio Grimaldi.

Luaretta, che era seduta accanto a Filostrato, dopo aver sentito lodare l’intelligenza di Bergamino, cominciò a parlare dicendo che la storiella del cortigiano che aveva colpito l’avarizia del ricco mercante, ottenendo un buon esito, la spingeva a raccontare un’altra storia.
Nei tempi passati, a Genova, viveva un gentiluomo , chiamato Erminio de’ Grimaldi, che, per le sue immense ricchezze ,superava tutti i signorotti d’Italia. Come li superava in ricchezza, così li superava in avarizia ed era più avaro di tutti gli avari.
Manifestava la sua avarizia non solo verso gli altri, ma anche verso sé stesso.
 A differenza degli altri genovesi che, pur essendo avari, amavano vestire nobilmente, egli, per non spendere, sosteneva che il lusso fosse un difetto, così come il mangiare e il bere. Per questo fu chiamato da tutti “Messere Erminio Avarizia”.
Mentre costui non spendeva e, quindi, le sue ricchezze si moltiplicavano, arrivò a Genova un valente uomo di corte, elegante e colto, di nome Guglielmo Borsieri, per niente simile ai corrotti cortigiani di quel tempo, che volevano essere considerati gentiluomini, mentre dovevano, piuttosto, essere chiamati asini per la bruttura della loro malvagità.
Il mestiere degli uomini di corte, a quei tempi, era di trattare paci, dove erano scoppiate guerre e litigi tra nobili, combinare matrimoni, stringere amicizie, con piacevoli discorsi rasserenare gli animi affaticati, rallegrare le riunioni , e, con rimproveri, come padri, rimproverare i difetti, con frasi prudenti.
In quel tempo , invece, i gentiluomini passavano il loro tempo a dire cattiverie e cose tristi, e ,quel che era peggio, a farle in presenza degli uomini ,accusandosi scambievolmente. Ed era lodato e premiato dai miseri e scostumati signori colui che diceva e faceva le cose più abominevoli. Era del tutto evidente che ,in quell’epoca, le virtù avevano lasciato posto ai vizi abbandonando i miseri viventi.
Ma ,ritornando all’inizio, Guglielmo Borsieri fu onorato e ben accolto da tutti i genovesi e avendo sentito parlare dell’avarizia di messere Erminio, lo volle conoscere.
Messere Erminio, che già aveva sentito parlare di Guglielmo Borsieri, era un uomo di valore e, sebbene fosse avaro, pure aveva un qualche sprazzo di gentilezza, per cui lo ricevette cortesemente e lo trattenne con vari ragionamenti.
Conversando piacevolmente, lo portò ,insieme con altri ospiti, a visitare una sua casa nuova, molto bella.
Dopo avergliela mostrata tutta, disse “ Messer Guglielmo, voi che avete visto e udito molte cose, mi sapreste insegnare qualche cosa ,non ancora vista da nessuna parte, che possa dipingere nella sala di questa mia casa?”.
Guglielmo rispose “Signore, non saprei insegnarvi niente che non sia già stato visto, ma, se vi piace, ve ne insegnerò una che ,credo ,voi non vedeste mai”.
Ed Erminio disse “ Orsù, vi prego, ditemi qual è”, non aspettandosi la risposta che ricevette.
A ciò Guglielmo, prontamente, rispose “ Fateci dipingere la Cortesia”.
Messere Erminio, udita questa parola, fu preso, immediatamente, da una grande vergogna, così che mutò  completamente il suo comportamento e disse “Messer Guglielmo, io la farò dipingere in maniera che né voi, né altri potranno dire che io non l’ho mai vista né conosciuta”.
Da quel giorno in poi, tanto fu il potere delle parole di Guglielmo che “Messere Erminio Avarizia” divenne il più cortese e liberale gentiluomo di Genova.












martedì 22 ottobre 2013

PRIMA GIORNATA NOVELLA N.7

 PRIMA GIORNATA – NOVELLA N.7

Bergamino con la novella raccontata da Primasso all’abate di Cluny ,rimprovera Cangrande della Scala, per la sua improvvisa avarizia.


La gradevolezza della novella di Emilia, spinse tutti a commentarla.
Quando i commenti terminarono, Filostrato, cui toccava narrare, cominciò a parlare , dicendo che era facile colpire un bersaglio che non si muove. e, veramente, tutti coloro che lo desiderano possono facilmente colpire la vita viziosa e sporca dei religiosi , la loro cattiveria e la loro ipocrita carità.
Infatti, danno ai poveri quello che dovrebbero dare ai porci o gettare via.
E continuò dicendo che, spinto dalla precedente novella, voleva raccontare dell’improvvisa e insolita avarizia che aveva colpito Cangrande della Scala, Signore di Verona.
Cangrande era conosciutissimo in tutto il mondo, perché fu uno dei più importanti e magnifici signori ,che vi furono in Italia, dall’imperatore Federico II ai loro tempi.
Egli aveva disposto di fare in Verona una grandissima e splendida festa e aveva fatto venire molti cortigiani ed  altra gente da tutte le parti.
All’improvviso, non si sa per quale motivo, cambiò idea, risarcì , in parte, coloro che erano venuti e li licenziò.
Solo uno, chiamato Bergamino, svelto ed abile parlatore, non credette a ciò che aveva udito, non avendo ricevuto nulla e non essendo stato licenziato, rimase lì, sperando di ottenere qualche vantaggio,
Messer Cangrande aveva pensato che ogni cosa che egli donava andasse perduta o, meglio, gettata nel fuoco, ma di ciò non parlava con nessuno.
Bergamino, dopo alcuni giorni, vedendo che non era chiamato come novellatore , non riceveva niente e, oltre a ciò, spendeva molto nell’albergo con i suoi cavalli e i suoi servitori, cominciò a preoccuparsi molto.
Pure aspettava non ritenendo di far bene a partire senza ordine.Avendo portato con sé tre belle e ricche vesti, che gli erano state donate da altri signori, per partecipare, vestiti decorosamente , alla festa, per pagare l’oste, gli diede prima una veste, poi una seconda. Infine cominciò ad utilizzare la terza, deciso a rimanere finchè durava, e partire subito dopo.
Ora, mentre stava per consumare anche la terza veste, si trovò ,molto triste, davanti a Cangrande, che mangiava.
Il grand’uomo, più per prenderlo in giro, crudelmente, che per interesse, gli chiese perché era così malinconico.
Bergamino, subito, quasi senza pensare, ma per ricavare vantaggi dalla sua situazione, raccontò questa novella “Mio signore, dovete sapere che Primasso fu un uomo di grande cultura e abile verseggiatore, così famoso che tutti ne avevano sentito parlare per fama, anche se non lo conoscevano di persona.
Mentre si trovava a Parigi, molto male in arnese, udì parlare dell’abate di Cluny, che era ritenuto il più ricco prelato che la chiesa di Dio avesse, all’infuori  del Papa.
Si dicevano di lui cose straordinarie: che teneva sempre corte e che non negava mai a nessuno da mangiare e da bere, bastava solo chiederglielo.
Sentito ciò, Primasso, che amava vedere signori magnifici e generosi, decise di andare a vederlo e chiese dove abitava. Gli fu risposto che abitava nell’Abazia di Cluny, a circa sei miglia da Parigi.
Pensò che, partendo al mattino presto, poteva essere sul luogo ad ora di pranzo.
Fattosi insegnare la via, temendo di smarrirsi e di non trovare da mangiare, pensò di portare con sé, mettendoseli nel seno, tre pani, supponendo che l’acqua l’avrebbe potuta trovare in ogni parte.
Il viaggio andò benissimo ed egli giunse all’Abazia proprio all’ora del desinare.
Entrato nella sala vide tavole imbandite ,una gran cucina e tante altre cose preparate per mangiare e disse tra sé “Costui è veramente un uomo magnifico, come tutti dicono”.
Mentre si guardava intorno, il siniscalco dell’abate, poiché era ora di pranzare, comandò che si desse acqua alle mani e che ognuno sedesse al posto assegnatogli.
Per caso, Primasso fu messo a sedere proprio di fronte alla porta della camera da cui il prelato doveva uscire per andare a mangiare.
Era usanza in quella corte che non si poteva mangiare nessuna pietanza ,né bere vino se prima l’abate non si sedeva a tavola. Il religioso fu avvisato che era tutto pronto per l’inizio del banchetto, se a lui piaceva.
L’abate fece aprire la porta e il primo uomo che vide fu Primasso, che non conosceva e che era assai mal ridotto.
Gli venne, all’improvviso un pensiero cattivo, che non aveva mai avuto prima, e disse tra sé “ Vedi a chi do da mangiare il mio”.
Subito se ne tornò indietro, fece chiudere la camera e domandò se qualcuno conosceva quello straccione che sedeva davanti alla camera. Tutti risposero di no.
Nel frattempo, Primasso, che aveva fame perché aveva camminato molto e non era abituato a digiunare, vedendo che l’abate non veniva, tirò fuori dal corpetto uno dei tre pani che aveva portato e cominciò a mangiare.
L’abate, dopo un certo tempo, ordinò ad un servo di vedere se lo zotico era partito. Il servo rispose di no, anzi mangiava un pezzo di pane che aveva con sé
Il religioso, adirato, disse “ Mangi del suo, se ne ha, perché oggi non mangerà del nostro”. Avrebbe voluto che Primasso si allontanasse da solo, perché non gli pareva opportuno di licenziarlo.
Nel frattempo ,il buon’uomo cominciò a mangiare il secondo pane e poi, non essendovi cambiamenti, il terzo.
Come ciò gli fu riferito, il religioso pensò “ Ma che novità mi è venuta oggi nell’anima, che avarizia, quale sdegno e per quale motivo? Io ho sempre dato da mangiare, già da molti anni, a chiunque ha voluto, senza guardare se era nobile o villano, povero o ricco, mercante o vagabondo, e con i miei occhi l’ho visto sciupare  da delinquenti e masnadieri, solo per costui mi è venuto in mente di rifiutargli il cibo.
Sicuramente l’avarizia mi deve aver preso per un uomo non di poco conto, anche se sembra un malfattore. Deve essere qualche pezzo grosso se ha provocato in me tale reazione”. Ciò detto volle sapere chi era. Seppe che era Primasso e che era venuto per conoscerlo, avendo udito della sua fama di uomo munifico e generoso.
L’abate ,che aveva ben meritato la sua fama ,si vergognò e, desiderando farsi perdonare, lo onorò in molti modi.
Dopo averlo fatto mangiare abbondantemente, gli donò ricchi vestiti, danaro e cavalli, concedendogli di andare e venire ,liberamente, senza il suo permesso. Primasso, contento, lo ringraziò e ripartì, a cavallo, per ritornare a Parigi”.
Cangrande della Scala, da buon intenditore, senza darne segno, capì perfettamente, quello che voleva dire il narratore e disse “Bergamino, hai illustrato benissimo i tuoi problemi, il tuo valore ,la mia avarizia e quello che tu da me desideri. E, in verità , prima che nei tuoi confronti, non fui mai assalito dall’avarizia, ma la scaccerò come mi hai indicato”.
Fece pagare l’oste e donò a Bergamino ricchi vestiti, danari, un cavallo e, per quella volta, gli consentì di andare e venire come voleva.  


sabato 3 agosto 2013

PRIMA GIORNATA - NOVELLA N.6

PRIMA GIORNATA – NOVELLA N.6

 Un uomo di valore blocca la malvagia ipocrisia degli inquisitori con una battuta di spirito.


Emilia, che sedeva accanto a Fiammetta, dopo i commenti sul garbato rimprovero della marchesa al re di Francia, appena la regina diede l’assenso, cominciò a raccontare della risposta data da un uomo astuto ad un religioso avaro.
Vi era, dunque, non molto tempo addietro, in Firenze ,un frate Minore, inquisitore degli eretici, il quale ostentava santità e fede in tutti i modi possibili, in realtà era attento a ricercare sia chi aveva la borsa piena, sia chi era debole nella fede cristiana.
Un bel giorno individuò un uomo, più ricco di danaro che di senno, il quale, non per mancanza di fede, ma perché aveva bevuto troppo ed era un po’ allegro, aveva detto alla sua brigata che aveva un vino così buono che ne poteva bere Cristo.
Fu  riferito ciò all’inquisitore, che ben sapeva che quel tale possedeva molte terre e molti denari.
Il religioso ,immediatamente, corse ,con spade e bastoni, a fargli un processo gravissimo, pensando che gli avrebbe portato un bel po’ di fiorini nelle mani.
Fattolo chiamare, gli chiese se era vero ciò che si era detto contro di lui. Il buon uomo rispose di si.
L’inquisitore, devotissimo di San Giovanni Battista , detto Barbadoro, per la barba bionda, disse “ Dunque, tu hai detto che Cristo è un bevitore, amante degli ottimi vini, come se fosse Cinciglione( famoso bevitore) o qualche altro ubriacone e amante delle taverne. Ora vuoi minimizzare la cosa ,con le parole. Ma hai commesso un grave peccato, e ,per questo, hai meritato il fuoco (rogo) e dobbiamo processarti come eretico”.
Con queste parole ,come se lo sventurato fosse stato Epicuro che negava l’immortalità dell’anima, con volto severo gli parlava.
Il pover’uomo, assai spaventato, per mezzo di intermediari, gli fece avere, affinchè potesse essere perdonato,  comprandole con i fiorini di San Giovanni Boccadoro, molte cose da mangiare, oltremodo gradite ai frati minori, che ,pur essendo avidissimi, non potevano toccare denari.
La medicina , anche se il medico Galeno non la include nelle sue ricette, fu salutare, e giovò tanto che il fuoco minacciato, si trasformò in una croce gialla da portare su una veste nera, come una bandiera, da indossare in viaggio.
Il frate ,ricevuti i denari, gli ordinò, ancora, per penitenza di andare ,ogni mattina, ad ascoltare la messa nella Chiesa di Santa Croce, di presentarsi ,poi, davanti a lui ,all’ora di pranzo per rimanere, infine, libero per tutto il giorno.
Il penitente fece tutto con diligenza, finchè ,un giorno ,in chiesa, udì un passo del Vangelo che diceva “voi riceverete per ognuno cento (per ogni cosa che  darete ne riceverete cento), e possederete la vita eterna”.
Questa frase gli rimase fissa nella mente.
Quando, all’ora di pranzo, si recò dall’inquisitore, costui gli chiese se quella mattina aveva udito la messa e se  c’era stata qualcosa che lo aveva particolarmente colpito e che voleva chiedere.
E l’uomo rispose “Si, ho sentito una frase che mi ha fatto provare una grandissima compassione per voi e per gli altri frati , pensando alla triste condizione in cui vi troverete nell’altra vita”.
Il religioso chiese ,prontamente, quale fosse la parola che lo aveva mosso a compassione e il buon’uomo rispose “ Signore, fu quel passo del Vangelo che dice- Voi riceverete per ognuno cento”.
Alla richiesta di chiarimenti sul perché quella frase lo avesse tanto commosso, il furbacchione rispose “ O Signore, da quando sono qui, ogni giorno ho visto che voi date alla povera gente alcune volte una, altre volte due, grandissime caldaie di brodo, che si toglie davanti a voi ,quando avanza; se ,nell’altra vita, per ognuna ve ne saranno rese cento, ne avrete tanto che voi tutti vi ci potrete affogare dentro”.
Tutti gli altri, che sedevano alla tavola e mangiavano avidamente, si misero a ridere e si turbarono.
E, se non fosse stato ,in precedenza, molto criticato per il processo che aveva già intentato, l’inquisitore , subito, gli avrebbe buttato addosso un altro processo per punirlo di quello scherzoso motto, che aveva provocato l’ilarità dei commensali.
Poi, per l’ira, gli ordinò di fare quello che voleva ,senza farsi più vedere.

venerdì 2 agosto 2013

PRIMA GIORNATA - NOVELLA N.5

PRIMA GIORNATA- NOVELLA N.5


La marchesa di Monferrato respinge il folle amore del re di Francia con un banchetto a base di galline e con alcune cortesi parole.


La novella di Dioneo fece apparire ,sul viso delle donne che ascoltavano, un rossore pudico, perché si vergognavano, ma ,  guardandosi l’un l’altra, non poterono fare a meno di ridere.
Quando terminò la narrazione, con dolci parole, fecero notare al narratore che simili novelle non si dovevano raccontare a donne gentili.
La regina , poi, comandò a Fiammetta di continuare.
Ella, con viso lieto, incominciò dicendo che avrebbe continuato nel dimostrare che una pronta risposta può avere molta forza. E, come gli uomini cercano di amare una donna di più alto ceto rispetto a loro, così le donne ritengono di grande importanza evitare di innamorarsi di un uomo più nobile di loro. Voleva  provare come una gentildonna si fosse difesa da questo pericolo con opere e con parole.
E cominciò a raccontare del Marchese del Monferrato, uomo di grande valore, gonfaloniere di giustizia, che si era recato in Terrasanta, partecipando alla  Crociata.
Del suo valore si parlava alla corte di Filippo il Guercio , che si preparava a partire dalla Francia, per partecipare anche lui alla terza Crociata, per riconquistare la Terrasanta.
Gli fu detto da un cavaliere, che non vi era sotto le stelle una coppia simile a quella del marchese e della sua sposa, che era la più bella e la più valorosa di tutte le donne del mondo.
Queste parole infiammarono tanto l’animo del re di Francia, che egli si innamorò perdutamente della donna, senza averla mai vista.
Decise, allora, di imbarcarsi da Genova, andando via terra, in modo da poter passare dal Monferrato per andare a vedere la Marchesa, senza metterla in difficoltà, data l’assenza del marito.
Mandò avanti tutti gli uomini e ,con un piccolo gruppo di gentiluomini, si mise in cammino.
Avvicinatosi alle terre del Marchese, un giorno prima di arrivare, mandò ad avvisare la donna, che, il giorno seguente ,avrebbe pranzato a casa sua.
La donna, saggia e prudente, rispose che era un grande onore per lei ricevere il re di Francia, che era il benvenuto. Pure , ebbe qualche sospetto perché, generalmente, un re non visitava una dama , se il marito era assente. Tuttavia ordinò agli uomini di casa di sistemare ogni cosa nel migliore dei modi, ma, al banchetto e alle vivande volle pensare solo lei.
Senza indugiare, fece raccogliere tutte le galline che vi erano nel paese e ordinò ai cuochi che fossero cucinate in vari modi per il banchetto reale.
Il giorno dopo arrivò il re, che fu ricevuto con grandi onori.
Egli, non rimanendo per niente deluso, trovò la donna più bella rispetto a tutte le sue aspettative e se ne invaghì ancora di più.
Dopo essersi riposato in camere arredate con grande raffinatezza, venuta l’ora del desinare, il re e la marchesa sedettero alla stessa tavola; gli altri, in base ai loro titoli , furono sistemati in altre mense.
Furono portati, in successione, diversi piatti e ottimi vini, ma il re si meravigliò che, anche se le pietanze erano diverse, erano servite soltanto galline.
Siccome sapeva che nel Monferrato c’era grande varietà di selvaggina, che la marchesa avrebbe potuto procurarsi per preparare il banchetto, si meravigliò della cosa.
Con viso sorridente chiese, allora, alla dama “ Donna, in questo paese nascono solo galline, senza nessun gallo?”. Ed ella ,ben comprendendo il senso di quelle parole, rispose coraggiosamente “Mio signore, ma le femmine , sebbene i loro vestiti e i loro titoli cambino, sono fatte tutte nello stesso modo, sia qui che altrove”.
Il re, udite queste parole, capì perché gli erano state servite soltanto galline e si rese conto che, con tale donna, le parole sarebbero state sprecate.
Come si era, sventatamente acceso di lei, così, saggiamente, doveva spegnere il fuoco mal concepito, e, senza più scherzare, temendo le di lei argute risposte, pranzò senza più speranza.
Terminato il pranzo, rapidamente, senza svelare le sue cattive intenzioni, la ringraziò per l’onore di essere stato ricevuto nella sua casa ,e, raccomandatala a Dio, se ne andò da Genova.


mercoledì 31 luglio 2013

PRIMA GIORNATA - NOVELLA N.4

PRIMA GIORNATA – NOVELLA N.4



 Un monaco commise un peccato che meritava una gravissima punizione, evitò la pena, evidenziando che  il suo abate si era macchiato della stessa colpa.


Appena Filomena, raccontata la sua novella tacque, Dioneo, senza aspettare il comando della regina, poiché sapeva che, per l’ordine stabilito, toccava a lui, cominciò a parlare “ Donne piene d’amore ,ognuno di noi deve raccontare la novella che , pensa, possa recare a tutti maggiore piacere.
Ho udito, in precedenza, che Giangiotto di Civignì salvò l’anima ad Abraam e Melchisedech, grazie alla sua intelligenza, salvò le sue ricchezze dagli agguati del Saladino, adesso, senza vostri rimproveri, vi voglio dire come un monaco riuscì ad evitare una gravissima pena”.
E iniziò a raccontare che un tempo , in Lunigiana, in un paese non molto lontano, vi era un monastero, con molti più monaci di quanti ve ne erano in quel periodo. Tra questi, ve ne era uno giovane, il cui vigore fisico e la forza giovanile, né i digiuni , né le veglie potevano attenuare.
Un giorno, per caso, a mezzogiorno, andandosene in giro, mentre tutti gli altri dormivano, in un luogo solitario, vide una giovinetta molto bella, forse figlia di un contadino del posto, che coglieva delle erbette nei campi; appena l’ebbe vista fu assalito dal desiderio carnale.
Avvicinatosi, cominciò a parlarle, e tanto proseguì la cosa, che la condusse nella sua cella, senza che nessuno se ne accorgesse.
Mentre i due erano presi dai giochi d’amore, l’abate, che si era appena svegliato, passò davanti alla  cella ed udì degli schiamazzi. Si avvicinò all’uscio e  comprese, senza ombra di dubbio, che lì dentro c’era una femmina. Tentò di aprire, ma non vi riuscì.
Poi pensò di fare diversamente. Rientrò nella sua camera e aspettò che il monaco uscisse.
Il giovane, preoccupato perché aveva sentito uno stropiccio di piedi nel dormitorio, avvicinò l’occhio ad un piccolo foro e vide chiaramente che l’abate stava ascoltando e ,quindi, sapeva che c’era una donna nella sua cella.
Ben sicuro che ciò  avrebbe determinato una pesante punizione, senza dimostrare alcuna preoccupazione, rapidamente, mise a punto un piano che gli avrebbe potuto procurare la salvezza.
Disse alla donna di starsene tranquilla lì dov’era fino al suo ritorno, perché doveva andare a trovare un modo per farla uscire senza essere vista.
Appena fuori, chiuse la cella con la chiave e si recò nella camera dell’abate, al quale chiese il permesso di andare nel bosco a raccogliere la legna, che non aveva potuto raccogliere al mattino.
L’abate, pensando che il monaco ignorasse di essere stato scoperto, acconsentì volentieri e prese la chiave.
Appena il giovane si fu allontanato, cominciò a pensare che cosa gli conveniva fare : se, in presenza di tutti i monaci, aprire la cella e far vedere la colpa, dando a tutti l’occasione di criticarlo per la punizione inflitta al compagno, inoltre, avrebbero voluto sentire dalla donna, come erano andati i fatti.
Pensando tra sé che il padre della ragazza non avrebbe voluto subire quella vergogna, conosciuta da tutti, decise di vedere chi fosse, prima di intervenire.
Tranquillamente, dunque, si recò dal lei, aprì, entrò e l’uscio si richiuse.
La giovane, vedendo l’abate ,si turbò molto, e, per la vergogna, cominciò a piangere.
Il religioso, vedendola bella e fresca, sebbene fosse vecchio, sentì gli stimoli della carne, non meno del giovane monaco, e tra sé, iniziò a dire “ Perché non godo anch’io di questo piacere, che potrà essere a disposizione per me ogni volta che vorrò, per vincere il dispiacere e la noia? Costei è bella e giovane e nessuno al mondo lo sa. Se la posso convincere a fare il mio piacere, non so perchè non debbo farlo. Non lo saprà mai nessuno e peccato celato è mezzo perdonato. Questa occasione , forse non si presenterà mai più. Ritengo sia molto saggio prendersi il bene, quando il Signore lo manda”.
Avendo cambiato completamente intenzione, si avvicinò alla giovinetta ,confortandola e pregandola di non piangere, e, tra una parola e un’altra, le palesò il suo desiderio.
La giovane che non era di ferro né di diamante, molto facilmente si piegò ai piaceri dell’abate.
Il vecchio, abbracciatala e baciatala più volte, salì sul letto del monaco e, tenuto conto del suo rango e della tenera età della giovane, per non offenderla con il  peso del suo corpo, non salì sul petto di lei, ma pose lei sul suo . Così giocarono per molto tempo.
Il monaco, che non era andato nel bosco, ma si era nascosto nel dormitorio, come vide l’abate entrare da solo nella sua cella e chiudere  a chiave la porta, fu certo di aver raggiunto il suo scopo.
Uscito dal nascondiglio, spiando da un buco, vide ed udì tutto ciò che l’altro fece.
L’abate, dopo che si era trattenuto a lungo con la giovinetta, chiusala nella cella , se ne ritornò nella sua stanza.
Dopo un certo tempo, ritenendo che il monaco fosse ritornato dal bosco, lo fece chiamare, lo rimproverò con viso severo e comandò che fosse incarcerato, in modo da poter possedere da solo la giovinetta.
Allora il monaco, molto prontamente, disse “ Signore, non sono ancora stato nell’ordine di San Benedetto tanto a lungo da aver imparato le particolarità di questa regola. Voi non mi avevate ancora detto che cosa i monaci devono fare con le donne, come invece, mi avevate detto per i digiuni e per le veglie. Ora che me lo avete mostrato, vi prometto, se mi perdonate per questa volta, di non peccare mai più e di fare come ho visto fare a voi”.
L’abate, che era uomo prudente, comprese subito che il giovane non solo sapeva, ma aveva visto tutto.
Provando rimorso, si vergognò di punire il monaco, per una colpa per la quale, egli stesso avrebbe meritato una punizione.
Gli perdonò e gli ordinò il silenzio su ciò che aveva visto.

Senza danno per entrambi, fecero uscire la giovinetta, e, tutto fa credere che, in seguito, la facessero tornare più volte. 

martedì 30 luglio 2013

PRIMA GIORNATA - NOVELLA N.3

PRIMA GIORNATA – NOVELLA N.3


Il giudeo Melchisedech con una novella su tre anelli evita un gran pericolo, preparatogli dal Saladino.


Appena Neifile terminò la sua narrazione, su indicazione della regina, Filomena cominciò a parlare. Ella disse che la novella raccontata da Neifile le aveva riportato alla memoria l’episodio accaduto ad un giudeo, udito il quale, forse sarebbero diventate più prudenti nel rispondere ai quesiti posti da altri.
Iniziò il racconto dicendo che la stupidità, talvolta, gettò l’uomo da una condizione di benessere in grande miseria e ,al contrario, il senno evitò al saggio grandi pericoli e lo pose al sicuro. Ciò si vedeva da molti esempi ed anche quella breve storiella lo avrebbe dimostrato.
Il Saladino che, grazie al suo valore, era diventato il sultano di Babilonia e aveva ottenuto molte vittorie sui saraceni e sui cristiani, aveva speso nella guerre tutto il suo tesoro ed aveva bisogno di molto denaro per un incidente capitatogli. Non avendo come procurarsi così rapidamente il denaro che gli serviva, si ricordò di un ricco giudeo , di nome Melchisedech, che prestava denaro ad usura in Alessandria. Pensò di avere da lui il denaro, ma il giudeo era tanto avaro che non lo avrebbe mai, spontaneamente, accontentato.
Costretto dal bisogno cercò una giustificazione che avesse parvenza di legalità.
Fatto chiamare l’usuraio, lo ricevette familiarmente vicino e gli chiese “Valente uomo, ho saputo da molti che sei saggio ed esperto nelle cose di Dio, per questo vorrei sapere da te, delle tre leggi, la giudaica, la saracena e la cristiana, quale reputi la più vera?”.
Il giudeo, da saggio qual’era, capì subito che il Saladino voleva metterlo in difficoltà e pensò di non poter lodare nessuna delle tre religioni, senza favorire l’intento dell’altro.
Aguzzo, dunque, l’ingegno e, subito, gli venne in mente la risposta che doveva dare e disse “ Signor mio, la questione che mi ponete è bella e vi risponderò con una favoletta.
Ricordo di aver udito molte volte che, nei tempi passati, vi fu un uomo molto ricco che tra i suoi tesori aveva un anello bellissimo e prezioso, che voleva lasciare in eredità ai suoi discendenti.
Nascose, dunque, l’anello e stabilì che il figlio che l’avesse ritrovato sarebbe divenuto il suo erede, onorato e riverito come fratello maggiore.
Colui che ereditò l’anello fece la stessa cosa con i suoi discendenti e così l’anello passò, di mano in mano, a molti successori. Infine, giunse nelle mani di un uomo che aveva tre figli belli, virtuosi e obbedienti, che amava in egual misura.
 I giovani sapevano della consuetudine dell’anello e, ciascuno per sé, come meglio sapeva, pregava il padre affinchè, dopo la morte, gli lasciasse l’anello.
Il padre, che amava parimenti i tre figli, non sapeva decidere a chi lasciare il gioiello. Allora, avendolo promesso a tutti, pensò di voler accontentare tutti e tre.
Di nascosto, da un buon orafo, fece fare altri due anelli, tutti somiglianti al primo ed egli stesso a stento riconosceva quale era quello vero.
Sul punto di morte, in segrato, diede a ciascuno dei figli il suo anello.
Dopo la sua morte ciascun figlio, per ottenere l’eredità e gli onori del padre, mostrò il suo anello.
Non si potè riconoscere quale era l’originale, poiché gli anelli erano del tutto simili.
Rimase, pertanto, irrisolta la questione su chi fosse il vero erede del padre; ed ancora oggi non è stata risolta.
Signor mio, vi dico che delle tre leggi date da Dio ai tre popoli, sulle quali mi poneste la domanda, ognuna crede, giustamente, che la sua regola e i suoi comandamenti siano i più giusti, ma come per gli anelli, la questione è ancora irrisolta”.
Il Saladino riconobbe che costui aveva saputo uscire abilmente dal tranello che gli aveva teso e, perciò, gli espose con franchezza le sue necessità, per vedere se poteva aiutarlo, con la stessa saggezza che aveva dimostrato nella risposta.
Il giudeo ,spontaneamente, dette al sovrano tutto il denaro che gli fu chiesto.
Il Saladino ,poi, gli restituì tutto il dovuto, gli fece grandissimi doni, lo considerò sempre suo amico e lo tenne presso di sè con grandi onori.