giovedì 24 aprile 2014

TERZA GIORNATA - CONCLUSIONE

TERZA GIORNATA – CONCLUSIONE

Dopo che Dioneo ebbe finito la sua novella, seguita da molte risate, La regina (Neifile) si tolse la corona dal capo e la pose, allegramente, sulla testa di Filostrato, aggiungendo che bisognava vedere se il lupo guidava meglio le pecore di come le pecore avevano guidato i lupi.
Ridendo il giovane rispose che, se gli si fosse dato ascolto, i lupi avrebbero insegnato alle pecore a mettere il Diavolo in Inferno non peggio di come aveva fatto Rustico con Alibech, ma i giovani non erano lupi e le donne, lì presenti, non erano pecore.
Neifile e Filostrato continuarono per un po’ a scambiarsi battute frizzanti.
Poi, il giovane, tralasciando il motteggiare, chiamò il maggiordomo per sapere come stavano le cose.
Quindi, rivolto alle donne, precisò che le novelle della quarta giornata avrebbero trattato “di coloro i cui amori ebbero infelice fine”. La scelta di quella materia era dovuta al fatto che Filostrato era sempre stato soggetto all’Amore, ma i suoi amori erano sempre finiti male, e cosi  temeva che sarebbe andata fino alla morte, come, appunto, diceva il suo nome “Filostrato”, cioè prostrato (abbattuto dall’amore).
Alzatosi in piedi, licenziò tutti fino all’ora di cena.
Il giardino era bello, il sole era tiepido e molti si misero ad inseguire i caprioli.
Dioneo e la Fiammetta cantavano, Filomena e Panfilo giocavano a scacchi; chi faceva una cosa ,chi un’altra, finché non venne l’ora di cena. Messe le tavole intorno alla fontana, tutti cenarono con gran piacere.
Filostrato, come già avevano fatto le regine che lo avevano preceduto, comandò a Lauretta di danzare e di cantare una canzone. E Lauretta cominciò a cantare una canzone triste e patetica che bene si adattava alla malinconia della sera e al motivo dominante della quarta giornata, in cui si sarebbe trattato degli amori che ebbero infelice fine.
La ballata era il lamento di una fanciulla malinconica che ,rimasta vedova, sposò in seconde nozze un giovane geloso che la teneva prigioniera di uno solo, lei che era venuta al mondo per la gioia di molti. La donna si pentiva del matrimonio e rimpiangeva il suo primo amante, che non poteva dimenticare.
La canzone di Lauretta fu interpretata diversamente dai presenti. Alcuni, alla milanese ,con senso pratico, ritennero che era meglio un buon porco che una bella ragazza, altri intesero con maggiore intelligenza.
Terminata la canzone, Filostrato fece portare molte grosse candele per illuminare la notte. I canti continuarono fin dopo la mezzanotte, poi, su comando del re, ciascuno ritornò nella sua stanza.







TERZA GIORNATA - NOVELLA N.1O

TERZA GIORNATA – NOVELLA N.10

Alibech diventa eremita, a lei il monaco Rustico insegna a mettere il Diavolo in Inferno; poi tolta dall’eremitaggio diventa moglie di Neerbale.

Dioneo, finito il racconto della regina, senza aspettare l’ordine, cominciò col dire che forse le donne lì presenti non avevano mai sentito dire come il diavolo si rimetteva in Inferno. Egli glielo voleva insegnare perché poteva essere loro utile per salvarsi l’anima.
Dovevano imparare, anche, che Amore, se preferiva i bei palazzi e le raffinate camere da letto alle povere capanne, pure, qualche volta, faceva sentire la sua potenza tra i folti boschi , le fredde montagne e le spelonche deserte.
Nella città di Capsa, in Barberia (odierna Tunisia), viveva un ricchissimo uomo, che aveva tra i suoi figli, una figlioletta bella e gentile ,di nome Alibech.
Ella non era cristiana, ma udendo da alcuni cristiani lodare la fede cristiana e il servire Dio, chiese come si poteva fare. Le fu risposto che bisognava fuggire le cose del mondo, come facevano coloro che se ne andavano in solitudine, nei deserti dell’Egitto.
La giovane che aveva solo quattordici anni ed era molto ingenua, non per un proposito meditato, ma per un impulso giovanile, di nascosto, una mattina tutta sola, se ne andò verso il deserto intorno a Tebe.
Giunta faticosamente in un luogo solitario, con grande appetito, vide in lontananza una casetta e vi si diresse. Trovò sull’uscio un sant’uomo che le chiese che cosa cercava.
La ragazza spiegò che voleva essere al servizio di Dio e cercava chi le insegnasse come si faceva.
L’uomo, vedendola giovane e bella, temendo che il demonio lo tentasse, le diede da mangiare e da bere e la mandò da un uomo più santo di lui, che sarebbe stato miglior maestro.
Giunta dall’altro uomo, ricevette lo stesso trattamento ed andò più avanti, finché non giunse alla cella di un eremita giovane, persona buona e devota, di nome Rustico. Costui, per dare prova della sua virtù, non la mandò via ma la trattenne con sé nella sua cella.
Venuta la notte, le preparò un lettuccio di foglie di palma per farla riposare. Ben presto fu preso dalle tentazioni, più forti della sua volontà, e, lasciati da parte i santi pensieri e le orazioni, cominciò a pensare alla giovinezza e alla bellezza della fanciulla e a come fare per possederla, senza sembrare un dissoluto.
Avendo compreso che costei era ingenua e non aveva mai conosciuto un uomo, pensò di farla sua, come se volesse servire Dio. Prima le parlò del Diavolo, che era nemico di Dio, e poi le spiegò come si doveva fare per rimandare il Diavolo all’Inferno, nel quale Dio l’aveva condannato.
Per essere più chiaro, Rustico si spogliò dei vestiti e rimase nudo e così fece la fanciulla. Poi si pose in ginocchio, come se volesse pregare , e anche la fanciulla si inginocchiò di fronte a lui.
Guardando la bellezza di lei ,il giovane ebbe un’erezione (la resurrezione della carne), Alibech, guardando, si meravigliò e chiese che cos’era quella cosa che si spingeva in fuori e che aveva solo lui ,mentre lei non l’aveva. Rustico, prontamente, rispose che era il Diavolo, di cui le aveva parlato, che gli dava un gran fastidio.
Ad Alibech che ringraziava Dio di non avere quel Diavolo, rispose che in cambio ella aveva l’Inferno. Ed egli credeva che Dio l’avesse mandata lì proprio per salvarlo, perché quel Diavolo non gli desse più noia e se ne andasse nell’Inferno.
La fanciulla, in buona fede, fu disponibile ad accontentarlo.
Egli, spintala su un lettino, le insegnò come si doveva fare per imprigionare quel maledetto da Dio.
La giovane, che non aveva mai messo in Inferno alcun diavolo, per la prima volta sentì un po’ di dolore e si lagnò della cattiveria del Diavolo .
Poi rassicurata da Rustico che non sarebbe stato sempre così, si lasciò andare.
Per sei volte ed oltre riprovarono, fino a quando il Diavolo non piegò il capo.
La cosa andò nello stesso modo nei giorni seguenti . Il gioco cominciò a piacere alla fanciulla che disse a Rustico “Capisco bene come gli uomini di Capsa  mi dissero che servire Dio era una cosa così dolce; io non ricordo alcuna cosa che abbia mai fatto con tanto piacere come rimettere il Diavolo in Inferno”.
Perciò sempre più spesso non voleva stare in ozio e chiedeva al giovane di andare a rimettere il Diavolo in Inferno. Ben presto, però, il Diavolo non alzava più la testa e se ne voleva stare in pace. Rustico non ce la faceva più e sentiva molto freddo.
Alibech , visto che il giovane non le chiedeva più di mettere il Diavolo in Inferno, gli disse che se il suo Diavolo era stato punito e non gli dava più noia, il suo Inferno, invece, non le dava pace. Voleva, perciò, che il giovane calmasse l’Inferno, come ella aveva castigato il Diavolo.
Rustico, che si nutriva di acqua e radici, aveva poca forza e non riusciva  ormai a soddisfarla, che ci sarebbero voluti cento diavoli.
Mentre le cose stavano così, un grande incendio in Capsa, uccise il padre e i fratelli ed Alibech rimase erede di tutte le ricchezze paterne.
Un giovane ,chiamato Neerbale, avendo dissipato in bagordi tutti i suoi averi, per la dote, si mise a cercarla e la ritrovò.
Prima che il governo si prendesse tutte le ricchezze del padre, come morto senza eredi, la condusse a Capsa, con gran piacere di Rustico, e la sposò, divenendo erede ,con lei, di un gran patrimonio.
Interrogata dalle donne su che cosa facesse nel deserto per servire Dio, rispose , precisando con parole ed atti, che lo serviva rimettendo il Diavolo in Inferno. Accusava Neerbale di aver commesso un gran peccato togliendola da quel servizio.
Quando le donne capirono che tipo di servizio ella faceva, tra grandi risate, la tranquillizzarono dicendo che anche Neerbale sapeva servire bene il Signore Iddio.
Riferendo la cosa l’un l’altra in città, ne derivò il proverbio corrente che non c’era servizio più piacevole da fare a Dio che rimettere il Diavolo in Inferno : questo proverbio aveva attraversato il mare ed ancora durava.
Dioneo consigliava , perciò, alle giovani donne che avevano bisogno della grazia di Dio, di imparare a rimettere il Diavolo in Inferno, che ne potevano nascere molte cose buone.








giovedì 17 aprile 2014

TERZA GIORNATA - NOVELLA N.9

TERZA  GIORNATA – NOVELLA N.9
                                                 
 Giletta di Narbona(Francia meridionale) guarisce il re di Francia da una fistole; chiede per marito Beltramo di Rossiglione, il quale, sposatala contro la sua volontà, se ne va a Firenze per sdegno; dove, desiderando una giovane, fingendosi lei, Giletta giace con lui ed ha due figli; per questo poi Beltramo le si affeziona e la tiene per moglie.

Per lasciare che Dioneo raccontasse per ultimo, toccava ora alla regina, che, cominciò a parlare precisando che dopo aver udito il racconto di Lauretta, difficilmente il suo sarebbe piaciuto tanto.
Iniziò dicendo che nel regno di Francia visse un gentiluomo, chiamato Isnardo, conte di Rossiglione, il quale, poiché era malato, aveva sempre con sé un medico ,di nome Gerardo di Nerbona..
Il conte aveva un figlioletto, Beltramo, bellissimo e simpatico. Con lui venivano allevati altri fanciulli della sua età, tra cui Giletta, figlia del medico, la quale fin da piccola provò per lui un grandissimo amore.
Il conte morendo affidò al re il figlio. Beltramo, quindi, andò a Parigi con grande dolore della fanciulla.
Morto il padre, anche Giletta, rimasta ricca e sola, ormai in età da marito, voleva andare a Parigi per rivedere Beltramo, che non aveva potuto dimenticare. Per caso udì che al re di Francia, per un tumore al petto mal curato, gli era rimasta una fistole che gli dava grande fastidio e preoccupazione.
Tutti i medici consultati non avevano saputo guarirlo, anzi era peggiorato e si disperava.
Giletta pensò di avere un valido motivo per andare a Parigi, per curare il re, se la malattia era quella che supponeva, e per avere Beltramo , come marito.
Preparata una polvere con certe erbe per curare la fistole, come le aveva insegnato suo padre, montò a cavallo e se ne andò a Parigi. Lì giunta, prima vide Beltramo, poi si recò dal re e gli chiese di mostrarle la ferita.
Il re, vedendola bella e giovane, l’accontentò.
Come la giovane ebbe vista la fistole garantì al sovrano che l’avrebbe guarito in otto giorni.
Il re, incredulo, affermava che era impossibile che una giovane donna potesse riuscire dove avevano fallito i più valenti medici.
La donna rispose che l’avrebbe guarito con l’aiuto di Dio e la scienza di suo padre, Gerardo nerbonese, famoso medico, mentre visse. Aggiunse che, se fosse riuscita a mantenere la promessa  di guarirlo in otto giorni , voleva come premio un marito e il re promise.
La giovane cominciò la cura e, prima della scadenza , lo guarì.
Al re ,guarito , pronto a darle il meritato premio, Giletta, non chiese come sposo un figlio del re o un giovane appartenente alla casa reale, ma Beltramo di Rossiglione, che amava immensamente, fin da bambina.
Il re ,non potendo rifiutare, fece chiamare Beltramo e gli chiese di sposare la donna che l’aveva salvato con le sue medicine. Beltramo ,pur ritenendola bella, non voleva sposarla perché non era nobile, ma non poteva rispondere al suo re con un rifiuto.
Sposò ,dunque, alla presenza del sovrano , che aveva preparato una gran festa, la damigella che lo amava più di sé stessa. Subito dopo prese commiato dal re , dicendo che voleva tornare nelle sue terre per consumare lì il matrimonio. In verità se ne andò in Toscana, dove divenne capitano di ventura e combatté per un lungo periodo al servizio dei fiorentini contro i senesi.
La novella sposa, scontenta, se ne andò a Rossiglione, dove fu accolta , come signora, da tutti. 
Molto saggiamente si mise a riordinare tutti i possedimenti del marito che erano rimasti senza guida per molto tempo, guadagnandosi l’amore e la stima dei suoi sudditi, che biasimavano il conte per la sua lontananza.
La donna, avendo riordinato tutto il paese, mandò dal conte due cavalieri per dirgli che se non ritornava nelle sue terre per colpa della moglie, ella, per compiacerlo, se ne sarebbe andata via.
Il nobiluomo rispose ,molto duramente, che poteva fare come voleva, che sarebbe ritornato a casa solo se la moglie avesse portato al dito un anello che egli non si toglieva mai dal dito e gli avesse dato un figlio.
I cavalieri, ritenendo l’impresa impossibile, ritornarono dalla dama e riferirono la risposta.
Ella a lungo meditò su come potesse ottenere le due cose.
Chiamati i migliori uomini delle sue terre, raccontò loro ciò che aveva fatto per amore del conte.
Comunicò ,poi, che, siccome non voleva che il marito vivesse in perpetuo esilio, ella avrebbe passato il resto della sua vita in pellegrinaggio e in opere di misericordia ,per la salvezza della sua anima.
Li pregò di prendere il governo delle terre e di avvisare il conte che la moglie se ne andava per sempre da Rossiglione e gli lasciava il possesso delle terre. Infine, indossati gli abiti da pellegrino, con un suo cugino e una cameriera, ben fornita di danaro e di gioielli, senza dire a nessuno dove andava, si mise in cammino.
Non si fermò finché non giunse a Firenze, dove alloggiò in un alberghetto, tenuto da una vedova. 
La mattina seguente vide passare davanti all’albergo Beltramo a cavallo, con la sua compagnia, e domandò all’albergatrice chi fosse.
La vedova rispose che era il conte Beltramo ,gentiluomo molto amato in città, che era innamorato di una sua vicina, donna gentile, ma povera. La giovane, onestissima, non si maritava perché era povera e viveva con sua madre , donna saggia e onesta.
La contessa, udite quelle parole, prese la sua decisione. Si recò a casa della donna amata dal conte e chiese di parlare con la madre che fu subito disponibile ad ascoltarla.
Giletta le raccontò tutta la sua storia, dal primo innamoramento fino a quel giorno, e promise una ricca dote per figlia, se l’avesse aiutata. La madre promise il suo aiuto.
La contessa disse allora alla donna “E’ necessario che mandiate a dire a mio marito da una persona di fiducia, che vostra figlia è pronta ad accontentarlo, ma vuole, come prova d’amore, l’anello che porta al dito. Se ve lo manda, lo darete a me. Successivamente gli manderete a dire che vostra figlia è disposta a fare il suo piacere e qui, di nascosto, farete venire me. Io mi metterò a fianco di mio marito, sperando che Dio mi faccia la grazia di farmi rimanere incinta. Se ciò avviene, con l’anello al dito e il figlio suo in braccio, lo riconquisterò e vivrò, grazie a voi, come una moglie deve vivere con il marito”.
La buona donna, pur temendo che la cosa potesse danneggiare la figlia, ma ritenendo giusto aiutare la contessa a riavere suo marito, promise di aiutarla.
Dopo pochi giorni, secondo quanto avevano concordato, ricevette l’anello ,lo consegnò a Giletta e, abilmente, la mise a giacere con il conte, al posto di sua figlia. Dopo i primi accoppiamenti, per grazia di Dio, la donna rimase gravida di due figli maschi. Più volte la contessa si accoppiò con il conte, essendo egli sempre convinto di essersi unito non con la moglie ma con la donna di cui era innamorato, alla quale regalava molti gioielli, che la contessa conservava..
Accortasi di essere gravida, Giletta decise di sospendere gli incontri e di dare alla donna i denari che le aveva promessi . La madre ,spinta dalla necessità, rossa per la vergogna, chiese cento lire per maritare la figlia.
La contessa gliene donò cinquecento, insieme con altri gioielli, che ne valevano altrettanto.
Subito dopo madre e figlia se ne andarono in campagna presso alcuni parenti.
Frattanto, Beltramo, sapendo che la moglie se ne era andata, ritornò nelle sue terre.
La contessa rimase a Firenze dove partorì due figli maschi, somigliantissimi al padre.
Quando furono un po’ cresciuti , si mise in cammino e giunse a Montpellier, dove rimase per alcuni giorni. Avendo saputo che il giorno di tutti i Santi il marito faceva una gran festa a Rossiglione, sotto l’aspetto di una pellegrina ,vi andò.
Quando tutti erano riuniti per il pranzo, nella sala del palazzo, con i figlioletti in braccio, si gettò ai piedi del conte e piangendo disse “Signor mio, sono la tua sventurata sposa che, per farti tornare nella tua terra, se ne è andata, miseramente ,in giro per il mondo per lungo tempo. Ti chiedo che rispetti le condizioni che mi ponesti tramite i due cavalieri che ti mandai. Ho nelle braccia , non uno, ma due figli tuoi ed ecco qui il tuo anello. E’ tempo ,dunque, che io debba essere ricevuta come tua moglie, secondo la tua promessa”.
Il conte, riconoscendo l’anello e i figli, che erano simili a lui, quasi svenne, chiedendosi come era potuto accadere.
La contessa , con grande meraviglia di tutti, raccontò come era andata.
Il gentiluomo, colpito dalla perseveranza e dal senno della donna, vedendo i due bei figlioletti, depose la sua ostinazione. Accolse la donna tra le sue braccia , la riconobbe come legittima moglie e la fece rivestire con abiti adatti a lei, con grande gioia dei suoi vassalli.
Da quel giorno la trattò come sua sposa, la onorò, l’amò e la tenne sommamente cara.   




giovedì 10 aprile 2014

TERZA GIORNATA - NOVELLA N.8

TERZA GIORNATA – NOVELLA N.8

Ferondo, mangiata certa polvere, viene sotterrato come morto; dall’abate che si gode la moglie di lui, viene messo in prigione, facendogli credere che è in purgatorio; poi risuscitato, nutre, come suo, il figlio generato dall’abate e dalla moglie di lui.

Finita la lunga novella di Emilia, la regina fa cenno alla Lauretta di proseguire.
La donna cominciò col dire che la novella precedente gliene aveva fatta tornare alla mente un’altra che parlava di uno che era stato pianto come morto ed era stato seppellito; fu, poi, creduto resuscitato ed uscito dalla tomba, come un fantasma .Colui che aveva escogitato tutto era stato adorato come un santo, mentre doveva essere condannato come colpevole.
Ci fu un tempo e c’era ancora in Toscana, una badia ,in un luogo poco frequentato, di cui era abate un monaco, santissimo in tutto, fuorché nelle donne, per le quali aveva un debole, che nessuno sospettava, tanta era la sua discrezione.
Costui, divenuto molto amico di un ricchissimo contadino di nome Ferondo, entrò con lui in grande familiarità. Frequentando il villico, l’abate conobbe la bellissima moglie di lui, se ne innamorò follemente e pensava a lei giorno e notte.
Ma Ferondo, che era nelle altre cose un sempliciotto, era attentissimo  nel sorvegliare la moglie.
Pure l’abate condusse i discorsi in tal modo che alla donna venne il desiderio di confessarsi da lui e il marito acconsentì. Andata dal religioso per confessarsi, la donna, sedutasi ai piedi di lui, si cominciò a lagnare della stoltezza e della gelosia del marito, il quale era così insopportabile che non poteva più vivere con lui, e voleva un consiglio.
L’abate rispose che se era difficile avere per marito un matto, lo era ancora di più averne uno geloso.
Aggiunse che egli avrebbe approntato una medicina che l’avrebbe guarito dalla gelosia, ma che doveva essere un segreto. E continuò dicendo che Ferondo, per guarire doveva morire ed andare in Purgatorio.
Una volta castigato dalla gelosia, per le preghiere del religioso sarebbe ritornato in vita, col volere di Dio.
La donna sarebbe dovuta rimanere vedova, per un certo tempo, senza rimaritarsi, attendendo il ritorno nel mondo del marito.
La donna, pensando che, in tal modo, si sarebbe liberata della prigione in cui la teneva, dette il suo consenso. Come compenso l’abate ,perché ardeva e si consumava, chiese l’amore di lei.
Alla donna ,che si meravigliava conoscendolo come un uomo santo, l’abate rispose “ Anima mia bella non vi meravigliate perché per questo la santità non diventa minore. Essa dimora nell’anima, quello che io vi chiedo è un peccato del corpo. Sebbene sono abate, sono un uomo come gli altri e non sono ancora vecchio. Per questo, mentre Ferondo starà in purgatorio, io facendovi compagnia la notte, vi darò quella consolazione che dovrebbe darvi lui. Nessuno si accorgerà di niente, credendomi tutti un santo, come voi poco fa. Oltre a ciò vi regalerò dei gioielli belli e preziosi, che desidero siano vostri “.
Il religioso con molte parole riuscì a vincere le incertezze della donna ,ponendole in mano ,di nascosto, un bellissimo anello. Ella, lieta del dono, aspettandosene altri, mentre se ne tornava a casa, cominciò a raccontare alle compagne cose meravigliose sulla santità dell’abate.
Dopo pochi giorni Ferondo andò alla badia ; l’abate ,come lo vide, pensò di mandarlo in Purgatorio.
Egli aveva una polvere di straordinaria virtù ,donatagli da un principe del Levante, il quale affermava che era usata dal Veglio della montagna quando voleva mandare o trarre fuori qualcuno dal Paradiso. Essa, finché durava il suo effetto, faceva dormire colui che la prendeva così profondamente da sembrare morto.
Presa una dose sufficiente a farlo dormire per tre giorni, la sciolse nel vino e la fece bere a Ferondo, che, per effetto della bevanda, cadde in un sonno profondo. Non fu possibile svegliarlo neppure buttandogli acqua fredda sul viso. Non battendo più il polso fu creduto morto.
Per ordine dell’abate e per volontà della moglie addolorata fu messo in un sepolcro.
La moglie tornò a casa col figlioletto e incominciò ad amministrare la ricchezza del marito
Venuta la notte, l’abate, con l’aiuto di un monaco bolognese a lui fedele, trasse Feroldo dalla sepoltura e lo portò in una tomba senza nessuna luce, che era stata fatta per prigione dei monaci peccatori. Toltigli gli abiti, lo vestirono da monaco e lo lasciarono su un fascio d’erba.
Il monaco bolognese, istruito sul da farsi, rimase ad attendere il risveglio.
Il giorno dopo, l’abate si recò in visita di condoglianza a casa della donna. La confortò e le ricordò la promessa. Ella, sentendosi libera e vistogli al dito un altro prezioso anello, rispose che era pronta.
La notte successiva ,l’abate, vestito con gli abiti di Ferondo, accompagnato dal monaco, andò e giacque con lei, con grandissimo piacere, fino all’alba. Poi ritornò alla badia e così fece molto spesso.
La gente del villaggio che lo vedeva, credette che fosse Ferondo che andava a fare penitenza e lo riferì alla moglie che ben sapeva ciò che era.
Frattanto, il monaco bolognese, risvegliatosi Ferondo, senza sapere dove fosse, con voce orribile lo minacciò e lo colpì con molte vergate.
Ferondo, piangendo e gridando, chiedeva dove fosse e il monaco rispondeva che era in Purgatorio.
Allora il contadinotto comprese di essere morto e, pensando alla moglie e al figlioletto, cominciò a piangere, dicendo le cose più strane del mondo.
Ad una certa ora il monaco gli portò da mangiare dicendogli che erano le pietanze che la moglie quella mattina aveva mandato in chiesa per le messe per l’anima del morto.
Dopo mangiato il monaco gli diede un gran numero di frustate.
A Ferondo che gli chiedeva perché lo colpisse, rispose che da Dio aveva avuto ordine di picchiarlo due volte al giorno. Questo perché era stato geloso della moglie, che era la miglior donna di quelle terre. E, se mai fosse ritornato sulla terra, doveva ricordarsi delle frustate e non essere più geloso.
Il meschino promise che, se mai, con la volontà di Dio, fosse ritornato sulla terra, sarebbe stato il miglior marito del mondo; si sarebbe lagnato solo del vino che la moglie gli aveva mandato quella mattina. Inoltre , si lagnava che non gli aveva mandato una candela ,per cui aveva dovuto mangiare al buio.
Ferondo insisteva nel chiedere chi era e perché si trovava lì.
E il monaco rispose che era morto anch’egli, che era nato in Sardegna. Poiché aveva lodato il suo padrone che era geloso, era stato condannato da Dio a dargli da mangiare e da bere e a frustarlo, fino a quando il Signore non avesse deciso altrimenti.  C’erano anche migliaia di altri morti che non potevano essere visti.
Ferondo fu tenuto lì , col mangiare e le battiture , per dieci mesi , durante i quali l’abate si diede alla bella vita con la donna.
Ma , per sventura , la donna rimase incinta e, accortasene, lo disse all’abate.
Egli ritenne opportuno richiamare, immediatamente, Ferondo dal Purgatorio perché ritornasse dalla moglie, per attribuirgli la paternità del nascituro.
La notte seguente, chiamò con voce contraffatta il meschino e gli comunicò che Dio voleva che ritornasse nel mondo, dove avrebbe avuto dalla moglie un figlio, a cui doveva dare il nome di Benedetto. Aggiunse che tanto avveniva per le preghiere del santo abate, della donna e di San Benedetto, che gli aveva fatto la grazia.
L’abate, versata nel vino polvere sufficiente a farlo dormire per quattro ore, rimessigli i suoi abiti, con il monaco, suo complice, lo riportò nello stesso sepolcro dove era stato seppellito.
Al mattino Ferondo si svegliò e vide una luce, che non aveva mai visto per ben dieci mesi. Credendo di essere vivo, cominciò a gridare ,per farsi aprire, e a spingere il coperchio.
I monaci , svegliatisi per le grida del villano, vedendo che il coperchio del sepolcro si muoveva, spaventati corsero dall’abate. Costui, alzatosi dalla preghiera, volle andare a vedere ,con tutti i monaci, la potenza di Dio. E trovarono Ferondo ,pallido e smunto, uscito fuori dalla tomba.
Il pover’uomo si gettò ai piedi del religioso e gli disse “Padre mio, le vostre preghiere, come mi fu detto, quelle di San Benedetto e di mia moglie, mi hanno tolto dalle pene del Purgatorio e mi hanno fatto ritornare in vita.
Di ciò ringrazio Dio e lo prego che vi dia un buon anno e buoni mesi, oggi e sempre”.
L’abate lodò la potenza di Dio e lo mandò a consolare la moglie, poi, rimasto con i suoi monaci, fece devotamente cantare il “ Miserere”.
La vista di Ferondo, giunto a casa, spaventò molto la moglie e i servitori, che lo credettero un fantasma. Poi un po’ alla volta, visto che era vivo, la gente si rassicurò e lo interrogò sulle cose che aveva visto nell’aldilà.
Ed egli raccontava tante favole dei fatti del Purgatorio , delle anime dei parenti e della rivelazione che gli era stata fatta da Ragnolo Braghiello, prima che resuscitasse.
Ritornato con la moglie, riavuti i suoi beni, credette di averla ingravidata. Ella ,per fortuna, al momento giusto, partorì un figlio maschio, che fu chiamato Benedetto Ferondi.
La resurrezione di Ferondo e le sue parole accrebbero infinitamente la fama del frate.
Ferondo, per le sferzate ricevute per la sua gelosia, non fu più geloso.
 Del che fu contenta la moglie, che visse con lui, onestamente, come prima. Solo che ,quando ,discretamente, poteva, si incontrava volentieri con il santo abate ,che ben l’aveva servita nei suoi maggiori bisogni. 



giovedì 3 aprile 2014

TERZA GIORNATA - NOVELLA N.7

TERZA GIORNATA – NOVELLA N.7

 Tedaldo, adirato contro la sua donna, parte da Firenze, vi ritorna ,dopo molto tempo, come pellegrino, parla con lei; libera il marito di lei dalla morte, perché era stato accusato di averlo ucciso, lo pacifica con i fratelli; e poi, saggiamente, gode con la sua donna.


Come Fiammetta tacque, la regina fece segno ad Emilia di incominciare, ed ella precisò che la sua storia era ambientata , nuovamente, a Firenze. Nella città viveva un nobile giovane, di nome Tedaldo degli Elisei, innamorato di madonna Ermellina, moglie di Aldobrandino Palermini.
La donna, che aveva goduto con Tedaldo per diverso tempo, ad un certo punto non lo volle più ne vedere, ne sentire. Non riuscendo a riconquistarla, il giovane, preso da grande malinconia, segretamente, senza dire niente a nessuno,solo con un amico, che sapeva tutto, si recò ad Ancona. Lì, come servitore di un ricco mercante, si imbarcò per Cipro.
I suoi modi piacquero tanto al mercante che gli affidò molti importanti incarichi, che egli svolse così bene da diventare in pochi anni un ricco e famoso mercante.
Dopo sette anni, udendo a Cipro cantare una canzone da lui inventata per la sua donna, fu preso da un irrefrenabile desiderio di rivederla e decise di ritornare a Firenze.
Si fermò prima ad Ancona, di lì mandò a Firenze, con la sua roba, l’amico anconetano.
Poi partì per Firenze, di nascosto, accompagnato solo da un servitore, come un pellegrino che veniva dal Santo Sepolcro di Gerusalemme. A Firenze alloggiò in un alberghetto di due fratelli, che era vicino alla casa della donna. , dove si recò immediatamente per vederla.
Trovò tutte le finestre e le porte chiuse, per questo temette che fosse morta o che avesse cambiato casa.
Allora andò verso la casa dei suoi fratelli e li vide tutti e quattro vestiti di nero. Sicuro di non essere riconosciuto, perché era molto cambiato, si avvicinò ad un calzolaio e gli chiese come mai erano vestiti di nero. Il calzolaio rispose che ,circa quindici giorni prima, un loro fratello, di nome Tedaldo, che era stato lontano per molto tempo, era stato ucciso. Il colpevole sembrava che fosse un certo Aldobrandino Palermini, che l’aveva ucciso perché voleva bene a sua moglie ed era tornato di nascosto per vederla.
Tedaldo si meravigliò molto e si dolse della sventura di Aldobrandino, avendo sentito che la donna era viva e sana, se ne andò in albergo. La notte, sia per i molti pensieri, sia perché la cena era stata misera, non riuscì a dormire. A mezzanotte circa, sentì scendere delle persone dal tetto della casa e vide avanzare ,con  un lume ,  una giovane assai bella. Incontro a lei venivano tre giovani ,discesi dal tetto, che le dicevano che potevano stare tranquilli. Infatti l’uccisione di Tedaldo Elisei era stata attribuita ad Aldobrando Palermini che aveva confessato. Loro, dunque, non erano sospettati, dovevano solo tacere.
Tedaldo, udito ciò, cominciò a pensare a che cosa era potuto succedere. Concluse che i fratelli avevano seppellito un estraneo al posto suo e che un innocente era stato condannato a morte a causa della cieca severità delle leggi e dei magistrati, che commettevano degli errori e facevano dichiarare il falso sotto tortura.
 Rifletté su cosa era opportuno fare per salvare Aldobrandino.
Il mattino dopo, da solo, come un pellegrino, si recò nella casa dove trovò in lacrime la donna , che non lo riconobbe, e le promise che avrebbe salvato il marito dalla morte .
Poi, le raccontò tutte le vicende che la riguardavano, chi ella era, da quanto tempo era maritata, la condanna di Aldobrandino. La donna, meravigliata, credette che fosse un profeta che veniva da Costantinopoli e lo pregò di salvare il marito.
Il pellegrino, facendosi promettere il silenzio con tutti, le chiese se aveva mai avuto un amante.
Ella , con un grande sospiro, rispose che l’unico suo amante segreto era stato Tedaldo, che era stato seppellito da poco. Ed in verità , ella, da giovane, aveva molto amato il nobiluomo del cui assassinio era accusato il marito. Si doleva moltissimo della sua morte e non lo poteva scacciare dal suo cuore.
Il pellegrino le chiese, allora, quale offesa Tedaldo le aveva fatto per essere scacciato da lei.
E la donna rispose che nessuna offesa le era stata arrecata, ma la fine del rapporto era stata dovuta alle parole che un maledetto frate le aveva detto in confessione.
Costui le aveva detto che se non avesse troncato la relazione sarebbe finita nella bocca del diavolo nel profondo dell’Inferno, nel fuoco eterno. Perciò aveva provato una tale paura che non aveva voluto più incontrarlo ,ne ricevere sue lettere ,ne ambasciate, pur non avendone alcuna ragione. Pure , credeva che se egli, invece di andarsene disperato, avesse insistito, alla fine, vedendolo consumarsi come neve al sole , avrebbe ceduto.
Il pellegrino ricordò ad Ermellina che ella aveva accettato spontaneamente l’amore di Tedaldo e l’aveva ricambiato. Il voler togliere a lui sé stessa che gli apparteneva, questa era una ruberia, se egli non era d’accordo. Come frate conosceva bene i costumi dei religiosi. Nel passato vi furono frati santissimi, ma i frati del loro tempo avevano di frate solo la cappa (il mantello) e anche quella non era come quelle dei primi tempi, che erano strette ,misere, di panni ruvidi. In quei tempi, invece, le facevano larghe, foderate, lucide, di tessuti finissimi, in modelli leggiadri; in esse i religiosi si padroneggiavano nelle chiese e nelle piazze come non facevano i civili. Avvolgendosi in questi ornamenti, come i pescatori con le reti catturavano nei fiumi molti pesci, così loro si ingegnavano a catturare molte bizzoche, vedove, ed altre sciocche donne e uomini. Rivolgevano a ciò maggiore attenzione che a qualsiasi altra attività. E, mentre i religiosi antichi desideravano la salvezza degli uomini, quelli del loro tempo desideravano le femmine e le ricchezze.
Spaventavano gli sciocchi con minacce e con dipinti, chiedendo elemosine e messe con cui purgare i peccati, poiché si erano fatti frati non per lavorare ma per ricevere pane, vino, pietanze dai fedeli in cambio di preghiere per le anime dei defunti. Certamente era vero che le elemosine e le preghiere purgavano i peccati, ma se i fedeli avessero visto a chi le facevano, le avrebbero tenute per sé o le avrebbero gettate ai porci.
Essi gridavano contro la lussuria perché ,allontanatisi gli sgridati, le donne rimanevano agli sgridatori ; condannavano l’usura e ,poi, con la restituzione dei soldi, si facevano le cappe più larghe, si procuravano i vescovadi e altre prelature maggiori. E se, poi, venivano rimproverati per queste cose sconce, rispondevano
“ Fate quello che noi diciamo e non quello che noi facciamo”, ritenendo di liberarsi da ogni responsabilità.
Il pellegrino continuò ,ancora, nella sua violenta accusa contro i frati dell’epoca, che attentavano all’onestà non solo delle donne secolari ,ma anche di quelle dei monasteri .
In tal modo convinse la donna che, se ,come aveva detto il frate confessore, era colpa gravissima rompere la fede matrimoniale, lo era ancor di più derubare , uccidere un uomo o mandarlo in esilio, a girare miseramente per il mondo. E quello aveva fatto proprio lei per le parole di un fraticello pazzo, bestiale e invidioso, che, forse, desiderava porre sé dove si ingegnava di cacciare l’altro.
Consigliava, infine, se Tedaldo, dopo lungo vagare, fosse tornato, di accoglierlo nuovamente nelle sue grazie e di ridargli il suo amore.
Il pellegrino aveva finito di parlare e la donna , che aveva ascoltato con molta attenzione, condivideva tutto quello che aveva detto. Ammetteva il suo errore e volentieri avrebbe rimediato, ma non era possibile perché Tedaldo era morto.
L’uomo rispose che ,invece, era vivo e in buono stato, se ella l’avesse voluto accogliere.
La donna continuava ad insistere che lo aveva visto morto, colpito da molte coltellate, davanti alla porta della sua casa, che lo aveva tenuto tra le sue braccia, bagnando il suo viso morto con le lacrime.
Parve giunto, allora, a Tedaldo, il momento giusto per mostrarsi e per salvare il marito di Ermellina.
Trovandosi in un luogo appartato, tirò fuori un anello che la donna gli aveva dato l’ultima notte che erano stati insieme. Ella ammise che lo aveva donato a Tedaldo, allora ,toltosi il cappuccio, il pellegrino svelò che era proprio Tedaldo.
La donna, riconosciutolo, si spaventò come se avesse visto un fantasma, e non lo accolse con slancio ma tentò di fuggire. Finalmente si convinse che il giovane non era morto , gli gettò le braccia al collo e lo baciò.
Dopo le affettuose accoglienze ,bisognò pensare a salvare Aldobrandino.
Rimessosi il saio e postosi il cappuccio in testa, baciò la donna e si avviò alla prigione, dove era rinchiuso Aldobrandino, come se fosse andato a confortarlo. Gli disse che era stato mandato da Dio per la sua salvezza e che, se gli avesse fatto un piccolo dono, l’indomani ,invece di udire la sentenza di morte, avrebbe udito quella della sua assoluzione.
Il prigioniero, non riconoscendolo, dichiarò di non aver mai commesso la colpa di cui era accusato, anche se ne aveva commesse molte altre. Prometteva che qualsiasi cosa gli avesse chiesto, se si fosse salvato, gliela avrebbe concessa.
Il pellegrino chiese soltanto il perdono per i quattro fratelli di Tedaldo che lo avevano accusato di aver ucciso il fratello. Aldobrandino promise.
Lasciata la prigione , il falso frate si recò , in segreto, presso il Signore che governava Firenze e gli rivelò che Aldobrandino ,già condannato, non aveva ucciso Tedaldo Alisei e  promise che prima di mezzanotte gli avrebbe portato gli uccisori di quel giovane.
Il Signore, che si rammaricava per la condanna di Aldobrandino, ascoltò attentamente e ,su indicazione del pellegrino, fece imprigionare i due albergatori ed il loro servo. I tre ,non sopportando la tortura, confessarono di aver ucciso Tedaldo Elisei, non conoscendolo, perché aveva infastidito la moglie di uno di loro.
Il frate, informato di tutto, di nascosto , si recò da Ermellina e le raccontò ciò che aveva fatto.
La donna, felice perché ,in pochi giorni, si erano risolti due casi : la liberazione dal pericolo del marito e il ritrovamento di Tedaldo, che credeva morto, lo abbracciò e baciò assai teneramente. Poi se ne andarono a letto insieme e fecero pace, prendendo piacere l’una dall’altro.
La Signoria, venuto il giorno, liberò Aldobrandino , con grande gioia sua, della moglie e dei parenti e fece tagliare la testa ai colpevoli.
Riconoscendo che il merito era stato del pellegrino, lo invitarono a trattenersi finché volesse e gli fecero festa e onori, soprattutto Ermellina che ben sapeva a chi li faceva.
Il frate ,ritenendo che fosse ,ormai, giunto il tempo di riportare la pace, chiese al nobiluomo di ricevere i fratelli per accogliere le loro scuse, assicurando la sua presenza. Avuto l’assenso, si recò dai fratelli e li invitò a pranzo con le loro donne e con Aldobrandino.
La mattina seguente, all’ora di pranzo, i quattro fratelli di Tedaldo, vestiti di nero, vennero alla casa dove erano attesi. Chiesero perdono al padrone di casa, che, piangendo pietosamente, perdonò ogni offesa ricevuta.
Le loro sorelle e le mogli furono ricevute affettuosamente da madonna Ermellina.
Quando si era giunti alla frutta, il pellegrino, facendo notare che alla festa mancava solo Tedaldo, si tolse di dosso gli abiti da viandante e rimase con una giubba di seta verde, facendosi riconoscere da tutti.
Raccontò le sue peripezie, dopo di che tutti: fratelli, amici, donne corsero ad abbracciarlo, ad eccezione di madonna Ermellina . Vedendo ciò il marito invitò la moglie a far festa, come le altre donne, a Tedaldo.
La donna , per farsi sentire da tutti, rispose che l’avevano trattenuta le parole disoneste dette quando tutti piangevano la morte del giovane.
Aldobrandino rispose che Tedaldo, salvandolo, aveva dimostrato di essere senza colpa, dunque, poteva abbracciarlo. La donna, che non desiderava altro, corse a fargli grandi feste.
La liberalità di Aldobrandino piacque molto ai fratelli che tolti i vestiti neri di lutto, indossarono abiti colorati. E il banchetto ,tra canti e balli, durò a lungo.
Poi tutti si spostarono a casa di Tedaldo dove la sera cenarono ,prolungando la festa  per diverso tempo.
I fiorentini, per molti giorni, considerarono Tedaldo un resuscitato e gridarono al miracolo.
Per puro caso, si scoprì, in seguito, chi era stato ucciso.
Un giorno, alcuni soldati della Lunigiana, passando davanti alla sua casa, si rivolsero a Tedaldo  e, salutandolo, gli dissero “ Possa star bene Faziuolo (diminutivo di Bonifazio)”.
Tedaldo , davanti ai fratelli, rispose “ Voi mi avete scambiato per un altro”.
Udendolo parlare, i soldati, si resero conto dell’errore ed ammisero che l’avevano scambiato per un loro compagno , un tal Faziuolo da Pontremoli, che era venuto a Firenze una quindicina di giorni prima.
In verità ,si meravigliavano per i ricchi vestiti, perché Faziuolo era, come loro, un masnadiero.
A quelle parole, il fratello maggiore chiese loro come era vestito il loro compagno e dalla descrizione riconobbe che era stato ucciso Faziuolo e non Tedaldo.
Si eliminò così ogni sospetto residuo e Tedaldo, tornato ricchissimo, continuò ad amare, ricambiato, con grande discrezione, la sua donna. E goderono a lungo del loro amore .