giovedì 30 gennaio 2014

SECONDA GIORNATA - NOVELLA N.10

SECONDA GIORNATA – NOVELLA N. 10


Paganino da Monaco ruba la moglie a messer Ricciardo da Chinzica, il quale va a riprendersela ,diventa amico di Paganino e gliela chiede ; egli ,se, lei vuole, glielo concede, ella non vuole ritornare col marito e, morto messere Riccardo, diviene la moglie di Paganino.

Tutti apprezzarono il racconto della regina, ma soprattutto Dioneo, che doveva concludere la seconda giornata con la sua novella.
Egli cominciò col dire che gli uomini che se ne andavano in giro per il mondo, divertendosi ora con una femmina, ora con un’altra, pensavano che le donne che restavano a casa se ne stavano con le mani in vita, come se, nascendo, crescendo e vivendo con loro, non conoscessero che cosa desideravano.
Egli avrebbe dimostrato la stupidità di quegli uomini e ancor più di quelli che, credendosi più potenti per natura, pensavano di fare più di quello che potevano e volevano tirare dalla loro parte chi non era portato per natura.
Proseguì, poi, dicendo che viveva a Pisa un giudice ,di nome messer Ricciardo da Chinzica, dotato più d’ingegno che di forza fisica. Essendo molto ricco, cercò, con molto impegno, di trovare una moglie bella e giovane, pensando di ricavarne lo stesso piacere che gli veniva dai suoi studi, cosa che, invece, avrebbe dovuto evitare.
Messere Lotto Gualandi gli diede in moglie la figlia Bartolomea, la più bella e graziosa delle fanciulle pisane, che ,in verità, ve ne erano poche che non sembrassero delle lucertole verminare.
Furono celebrate le nozze con grande sfarzo. La prima notte di nozze Ricciardo, con grande sforzo, a stento riuscì ,una volta, a possederla e poco mancò che facesse cilecca. La mattina dopo, al risveglio, essendo magro e secco, cercò di migliorare la situazione con vernaccia e pasticcini.
Allora il giudice, consapevole della sua scarsa vitalità amatoria, fece leggere alla moglie un calendario fatto a Ravenna, usato dai fanciulli. Il calendario ogni giorno indicava la festa di un santo, per la cui reverenza, l’uomo e la donna dovevano astenersi dall’unirsi; vi erano, poi, i giorni dedicati ai digiuni, i venerdì, le vigilie degli apostoli, i sabati e la domenica del Signore e la Quaresima.
Riteneva, infine, che bisognava rispettare il calendario e fare con le donne nel letto, come si faceva nelle cause civili, cioè rispettare il giorno di riposo. Così forse una volta al mese facevano l’amore, con grande malumore della donna. Le cose andarono così per lungo tempo, senza che nessuno le insegnasse i giorni del lavoro, come il marito le aveva insegnato i giorni delle feste.
In un periodo di gran caldo, messere Ricciardo se ne andò in villeggiatura con la moglie in una sua proprietà vicino Montenero, nel Livornese. Stando lì, per farla distrarre, la portò a pescare con due barchette, su una stava lui con i pescatori, su l’altra la moglie con le donne.
Senza accorgersene giunsero fino al mare, dove si trovava un galeotto (nave) del famoso corsaro Paganin da Mare. Il corsaro, avvistatele, si diresse verso le barche, raggiungendo quella su cui si trovava la donna.
Paganin, vedendo la bella donna la pose sulla sua nave e andò via, mentre la barca di Ricciardo giungeva a riva. Il giudice si lagnò della malvagità dei corsari senza sapere chi gli aveva rubato la moglie e dove l’aveva portata. Frattanto ,Paganino , vedendo la donna così bella e non avendo moglie, pensò di tenersi costei. Venuta la notte, cominciò a consolarla con i fatti , oltre che con le parole, e così bene la consolò che prima che giungessero a Monaco, ella dimenticò il calendario, il giudice e le sue leggi e cominciò a vivere molto felicemente con il corsaro, che, condottala a Monaco, onoratamente la teneva come moglie.
Dopo un certo tempo, Ricciardo, avendo saputo dove era la moglie, desideroso di riaverla con sé, decise di andare a Monaco da Paganino , per offrirgli quanti danari volesse per riscattare la moglie.
Incontratosi con il corsaro, con cui in poco tempo venne in grande amicizia, gli spiegò la ragione della sua venuta e gli offrì tutto il denaro che voleva per riscattare la moglie.
Paganino, sorridendo, rispose che aveva una giovane in casa, ma non sapeva se era la moglie, che l’avrebbe condotto da lei. Se veramente era così come Ricciardo diceva e la donna voleva ritornare con il marito ,l’avrebbe lasciata andare, con il riscatto che il signore voleva pagare. In caso contrario, il giudice avrebbe lasciato la donna al corsaro, che era giovane e l’amava.
Ricciardo, sicuro di sé, accettò, precisando che come la moglie l’avesse riconosciuto, gli avrebbe buttato le braccia al collo. Andati, dunque, a casa sua, Paganino fece chiamare Bartolomea, che venne, vestita con molta cura, e riservò a Ricciardo la stessa accoglienza che avrebbe riservato ad un altro forestiero che fosse venuto in casa sua. Il marito, ritenendo che il dolore e la tristezza lo avessero talmente trasformato da renderlo irriconoscibile agli occhi della moglie, tentò, in tutti i modi, di farsi riconoscere. Ma la donna insistette sostenendo di essere stata scambiata per un’altra, perché non ricordava di averlo mai visto.
Riccardo, pensando che ella così dicesse per paura di Paganino, chiese di essere lasciato solo con lei, promettendo che non avrebbe tentato di baciarla contro la sua volontà.
Rimasti soli, come si misero a sedere, l’uomo tentò nuovamente di farsi riconoscere.
La donna incominciò a ridere e senza mai smettere, disse “ Sapete bene che non sono così smemorata da non riconoscere che siete Ricciardo di Chinzica, mio marito, ma voi, mentre stetti con voi, dimostrate di conoscere assai male me. Infatti, se foste stato saggio, avreste dovuto sapere che io ero giovane e forte e che, altre al vestire e al mangiare, avevo diritto a quelle cose che non si dicono per vergogna, cose che voi sapete bene come le facevate. Se preferivate più lo studio delle leggi che la moglie, non dovevate sposarvi. Anche se, in verità, sembravate più un banditore di feste, di sagre, di digiuni e di vigilie.
Se foste stato un contadino, come quelli che coltivano le vostre terre, tra tutte le giornate festive ,non avreste raccolto nemmeno un granello di grano.
Per caso ho incontrato quest’uomo che non conosce quelle feste che conoscete voi, più devoto a Dio che ai desideri delle donne.. In questa stanza non entrò né sabato, né venerdì, né quaresima, anzi si lavora sempre di notte e di giorno, senza riposarsi mai. Per questo resterò qui a lavorare mentre sono giovane e le feste, i perdoni, i digiuni li conserverò per quando sarò vecchia. Voi ,con tanti auguri di buona fortuna ,andatevene e, senza di me, celebrate tutte le feste che volete”.
Ricciardo, udendo queste parole, biasimò il comportamento della donna che preferiva rimanere con il corsaro, come concubina, piuttosto che come sua moglie , con onore, a Pisa, e la scongiurò di ritornare a casa con lui.
La donna, prontamente, rispose che non si preoccupava dell’onore suo e dei suoi parenti, che l’avevano data in sposa a lui, di cui si conosceva la scarsa virilità. Era ormai troppo tardi, ella si sentiva più moglie di Paganino, che tutta la notte la teneva abbracciata, la stringeva e la mordeva, che sua.
Lo invitò, infine, a ritornare a Pisa e a curarsi perché lo vedeva triste e malaticcio (tisicuccio) e aggiunse che se anche il suo uomo l’avesse lasciata, mai più sarebbe ritornata a Pisa, ma avrebbe cercato altrove il suo interesse. Ripetendogli che con il corsaro non vi erano né feste ,né vigilie e che lì voleva restare, lo minacciò che se non se ne fosse andato immediatamente, avrebbe gridato che la stava molestando.
Messer Ricciardo, vedendosi a mal partito e conoscendo la follia della moglie, uscì moggio moggio dalla camera, e, inventando un sacco di scuse, si congedò da Paganino e ritornò a Pisa. Per il dolore impazzì e a chiunque lo salutava rispondeva “ il mal foro non vuole feste” e poco dopo morì.
Paganino come seppe la notizia, sposò la donna che lo amava e continuò la sua vita, felicemente, senza guardare mai a feste, vigilie e quaresime.
Perciò Dioneo concluse dicendo che ser Bernabò discutendo con Ambrogiuolo faceva male i fatti suoi.





giovedì 23 gennaio 2014

SECONDA GIORNATA - NOVELLA N.9

SECONDA GIORNATA – NOVELLA N.9


Bernabò da Genova, ingannato da Ambrogiuolo, perde i suoi averi e comanda che la moglie innocente sia uccisa; la donna si salva e vestita da uomo serve il Sultano : ritrova l’ingannatore, conduce Bernabò ad Alessandria, dove, punito l’ingannatore, ripresi gli abiti femminili, ritorna ricca a Genova con il marito.


Avendo finito Elissa , dovevano raccontare solo Filomena ,la regina e Dioneo, al quale la regina aveva promesso che avrebbe raccontato per ultimo.
Cominciò, dunque, Filomena dicendo che tra la gente del popolo era diffuso un proverbio che diceva che spesso l’ingannatore rimaneva ai piedi dell’ingannato. Ella  col suo racconto voleva dimostrare la verità del proverbio che poteva essere utile a tutti.
Si trovavano a Parigi alcuni ricchissimi mercanti italiani, ognuno per i suoi affari, che una sera cominciarono a parlare delle loro mogli, che avevano lasciate a casa.
Uno, scherzando, disse che non sapeva che faceva sua moglie a casa, ma egli se si presentava una giovinetta, non se la lasciava scappare, separando il lato dell’amore da quello del piacere.
Così discorrevano supponendo che anche le loro mogli ,lasciate a casa, si dessero da fare , senza perder tempo. Solo Bernabò Lomellin da Genova sostenne il contrario, dicendo che sua moglie, bella, giovane e onesta come nessun’altra in Italia, si dedicava in casa ai ricami di seta ed altre cose meglio di chiunque altra .
Sostenne che tutta la servitù l’amava perchè era gentile, saggia e discreta.
Continuò lodando la moglie perché sapeva cavalcare, aveva un uccello e sapeva leggere, scrivere e far di conto come un mercante. Infine, concluse col dire che non si poteva trovare nessuna donna casta e onesta come lei, che, in dieci anni di matrimonio, non era mai uscita di casa, né aveva mai parlato con uomini.
Tra i mercanti c’era un certo Ambrogiuolo da Piacenza che, udendo le lodi che Bernabò faceva della moglie, si sganasciò dalle risate, sostenendo che non era possibile tanta onestà. Infatti Dio creò l’uomo, l’essere perfetto, saldo nella sua fermezza, e dopo di lui la donna, che invece era mobile e poteva essere facilmente tentata dalle preghiere, dalle lusinghe, dai doni di un uomo che l’amasse , e continuò così per molto tempo.
Un po’ turbato Bernabò rispose che non era un filosofo ma un mercante e come mercante avrebbe risposto. Sapeva bene che questo poteva accadere alle donne stolte, che non avevano vergogna, mentre quelle oneste, come sua moglie, quando avevano a cuore il loro amore, diventavano più forti degli uomini.
Ambrogiuolo ribattè che, se per ogni tradimento fosse comparso sulla fronte delle donne un bel corno, certamente non lo avrebbero fatto, in verità non tradivano i mariti solo quelle che non erano pregate da alcuno  o, pregando loro stesse, non erano accontentate.
Concluse, infine, dicendo che se fosse stato vicino alla santissima donna di Bernabò in poco tempo l’avrebbe conquistata. Bernabò. Infastidito, propose una scommessa: si sarebbe fatto tagliare la testa se l’altro avesse convinto sua moglie al tradimento, se invece non ci riusciva l’avversario avrebbe perso solo mille fiorini d’oro. Ambrogiuolo modificò la posta proponendo di incontrarsi ,passati tre mesi , nuovamente a Parigi.
Se la donna, nel frattempo, aveva ceduto alle lusinghe del mercante, Bernabò doveva pagare cinquemila fiorini d’oro ,meno cari della sua testa; se la donna aveva resistito, Ambrogiuolo avrebbe pagato i mille fiorini già pattuiti. Concordarono in tal modo e l’obbligazione fu messa per iscritto, con le firme di entrambi, anche se i compagni lo sconsigliavano, temendo che potesse venirne un gran male.
Giunto a Genova, il mercante cominciò ad informarsi sulle abitudini della donna, si rese conto che Bernabò aveva detto la verità sull’onestà e i costumi della moglie e gli parve di essersi imbarcato in una impresa folle.
Pure non desistette e, avvicinata una povera donna, che serviva in casa di Bernabò, la corruppe con il denaro perché lo portasse nella camera della gentildonna in una cassa ,dove rimase fino a notte inoltrata.
Quando fu sicuro che la donna dormiva, aperta la cassa ,uscì nella camera illuminata da un lume.
Si guardò intorno molto attentamente, per imprimere nella memoria tutti i particolari. Poi, avvicinatosi al letto dove la donna dormiva profondamente, con accanto una bambina, la scoprì tutta e vide che sotto la mammella sinistra aveva un neo, intorno al quale erano alcuni peluzzi biondi come oro.
Non si arrischiò a coricarsi vicino a lei, anche se lo desiderava ardentemente, per timore che si potesse svegliare. Rimase nella camera buona parte della notte, prese una borsa, una sottoveste, un anello e una cintura e ritornò nella cassa.
Così fece per due notti senza che la donna si accorgesse di nulla.
Il terzo giorno ordinò alla serva di portare via la cassa da cui prontamente uscì .
Ricompensata la domestica, portando con sé le cose che aveva preso nella camera, tornò a Parigi prima che scadesse il termine. Colà, alla presenza dei mercanti,  comunicò a Bernabò di aver vinto la scommessa e portò come prova le cose che aveva preso, fingendo di averle avute dalla donna, infine, descrisse la forma della camera e i dipinti che vi erano.
Il genovese ammise che la camera era così e che le cose che il furfante aveva mostrato erano della sua donna, ma ribatteva che aveva potuto averle da un servitore.
Alfine, per eliminare ogni dubbio, Ambrogiuolo disse che madonna Ginevra aveva un neo ben grandicello , sotto la mammella sinistra, intorno al quale c’erano forse sei peluzzi come oro.
Nell’udire ciò Bernabò provò un colpo al cuore, impallidì tutto, perché quella era la prova inconfutabile che Ambrogiuolo aveva detto la verità. Pagò, dunque, i 5000 fiorini d’oro e, adirato contro la sua donna, venne a Genova.
Si fermò a venti miglia dai suoi possedimenti  e scrisse alla moglie di andargli incontro. Affidò ad un servo la lettera , gli ordinò di uccidere la donna senza pietà e di tornare da lui.
Il giorno dopo, durante il viaggio, il servo, per obbedire agli ordini del padrone, tirò fuori un coltello e disse alla nobildonna di raccomandare l’anima a Dio. La donna ,presa da un grande spavento, gli chiese perché voleva ucciderla, il poveretto rispose che quello era l’ordine del marito e che non poteva disobbedire, anche se non conosceva il motivo. La donna lo supplicò ,per amor di Dio, di non diventare un assassino, lei non aveva commesso nessuna colpa. Pensò ,allora, di far piacere sia a Dio che a suo marito, dette al servo i suoi abiti e prese da lui un farsetto e un cappuccio.
Gli disse , poi ,di ritornare da Bernabò e di dire che l’aveva uccisa.
Il servitore, avendone pietà, assecondò il piano, le dette il farsetto , il cappuccio , un po’ di soldi e, raccomandandole di fuggire, la lasciò ai piedi del vallone. Andò dal padrone e gli disse che l’aveva uccisa e aveva lasciato il corpo ai lupi.
Bernabò a Genova fu molto biasimato per il fatto.
La donna, rimasta sola, sconsolata, vestita da uomo, andò ad un villaggio lì vicino.
Procuratasi da una vecchia quello che le serviva, accorciatosi il gilè, fattasi una camicia, tagliatisi i capelli, si trasformò in un marinaio e andò verso il mare. Qui si imbattè in un gentiluomo catalano di nome En Carach, che, sceso dalla nave, era andato ad Alba per rinfrescarsi ad una fontana.
Il marinaio disse che si trovavano tra la Francia e la Liguria,di chiamarsi Sicurano da Finale (Ligure) e chiese di imbarcarsi . Il nobiluomo lo assunse al suo servizio e lo apprezzò molto per la grande laboriosità e devozione. Un bel giorno ,il catalano, con la sua nave, approdò ad Alessandria per commerciare, mostrò al Sultano alcuni falchi da caccia ammaestrati e glieli regalò.
Il Sultano, non contento del dono, avendo apprezzato i modi di Sicurano ,chiese al mercante di lasciarglielo come servitore. Il giovane si fece molto stimare dal Sultano, come aveva fatto con il catalano.
Frattanto, come ogni anno, si doveva organizzare in San Giovanni d’Acri (Siria), che era sotto il governo del Sultano, una importante fiera, con un gran raduno di mercanti sia saraceni che cristiani. Perché i mercanti e le loro mercanzie fossero al sicuro, il sovrano era solito mandare un esercito con un comandante e molte guardie a sorvegliare., scelse come comandante Sicurano.
 In Acri Sicurano, signore e capitano della guardia, fece molto bene il suo lavoro e conobbe molti mercanti della sua terra, andando in giro per la fiera.
Un giorno, giunto davanti ad un magazzino veneziano, vide, tra le altre cose , una borsa ed una cintura che erano state sue. Si meravigliò e , senza darlo a vedere, chiese di chi erano e se il proprietario voleva venderle.
Il negozio apparteneva ad Ambrogiuolo da Piacenza che, per caso, era venuto in fiera con le sue mercanzie su una nave veneziana. Sentita la richiesta, il mercante si mise a ridere e non volle vendere la borsa e la cintura. Raccontò che quelle cose, insieme con altre, gliele aveva donate una gentildonna di Genova, chiamata Ginevra, moglie di Bernabò Lomellino, una notte che era stato con lei, come pegno del suo amore.
Continuava a ridere perché Bernabò, da stupido qual’era, aveva scommesso 5000 fiorini d’oro sull’onestà della donna, contro i suoi 1000 fiorini.
Aggiunse, ancora, che Bernabò avrebbe dovuto punire sé stesso piuttosto che la donna, che aveva fatto quello che tutte le donne fanno. E concluse dicendo che aveva sentito che il mercante, ritornato a Genova, aveva fatto uccidere la moglie.
Sicurano, sentendo ciò, comprese la ragione dell’ira del marito verso di lei e la causa del suo male e decise di vendicarsi. Finse,comunque,  di divertirsi molto al racconto e diventò molto amico di Ambrogiuolo, tanto che,
finita la fiera, lo fece andare con lui ad Alessandria, gli fece aprire un negozio e gli diede molti soldi suoi.
Poi cercò in tutti i modi di far andare ad Alessandria Bernabò , che si era ridotto assai male, con alcuni mercanti genovesi e lo fece alloggiare presso dei suoi amici.
Pregò, poi, il Sultano, al quale Ambrogiuolo aveva raccontato ,tra molte risate,la vicenda, di fare venire in sua presenza Ambrogiuolo e Bernabò, per farsi dire dal furfante, in presenza di Bernabò, la verità su ciò che era avvenuto con Ginevra e come aveva vinto i 5000 fiorini d’oro.                              
L’imbroglione, minacciato severamente sia dal sultano che da Sicurano, fu costretto a raccontare come era andato veramente il fatto.
Sicurano, allora, si rivolse a Bernabò e gli chiese che cosa aveva fatto alla sua donna per quella bugia., l’uomo rispose che l’aveva fatta uccidere da un suo servo e che era stata divorata dai lupi.
Chiarita tutta la storia, Sicurano chiese al Sultano di voler punire l’ingannatore e perdonare l’ingannato, mentre lui avrebbe fatto venire alla presenza di tutti la donna.
Il Sultano lo volle accontentare e gli ordinò di far venire la donna.
Di fronte a Bernabò, che la credeva morta, e a Ambrogiuolo, che temeva il peggio, Sicurano, gettatosi ai piedi del Sultano, rivelò che era Ginevra e che sotto vesti maschili, per sette anni, era andata in giro miseramente, falsamente accusata da un traditore e mandata ad uccidere dal marito ,uomo crudele ed iniquo.
Si stracciò i panni di dosso e mostrò il petto , affinchè fosse chiaro a tutti che era femmina e rivolta ad Ambrogiulo gli chiese quando mai era giaciuto con lei, come fino ad allora si era vantato.
Il bugiardo ,riconoscendola, rimase muto per la vergogna.
Il Sultano ,che l’aveva conosciuta come uomo, si meravigliò molto e lodò sommamente la virtù e l’onestà di Ginevra. Le fece indossare ricchi abiti femminili e fece venire molte donne che le tenessero compagnia. Perdonò Bernabò, come la donna aveva chiesto ed ella, sebbene non ne fosse degno, l’abbracciò teneramente.
Il sovrano  comandò ,poi, che Ambrogiuolo fosse legato ad un palo, al sole, unto di miele e lì rimanesse fino alla morte. E così fu fatto.
Comandò, ancora, che fosse donato a Ginevra tutto ciò che era appartenuto al condannato, del valore di diecimila doppie. Per onorare quella donna molto valorosa fece preparare una grande festa e le donò gioielli e vasi d’oro e d’argento ,del valore di altre diecimila doppie.
Infine, data loro una nave, fece tornare marito e moglie a Genova, ricchissimi e felici.
A Genova, Ginevra ,creduta morta, fu accolta con grandi onori.
Ambrogiuolo ,nello stesso giorno, fu legato al palo e unto di miele e non solo fu ucciso ma fu divorato fino alle ossa da mosche, vespe e tafani. Le sue ossa bianche rimasero lì per molto tempo a testimonianza della sua malvagità . E così “ l’ingannatore rimase ai piedi dell’ingannato”.







giovedì 16 gennaio 2014

SECONDA GIORNATA - NOVELLA N.8

GIORNATA – NOVELLA N.8

Il conte  di Anversa, falsamente accusato , va in esilio ; lascia due figli in luoghi diversi d’Inghilterra; ritornando in Inghilterra senza che nessuno lo conosca ,li ritrova in buone condizioni, va come garzone di stalla nell’esercito del re di Francia, riconosciuto innocente ritorna nelle condizioni di prima.


Mentre le donne sospiravano per le vicende del racconto precedente, la regina diede ordine ad Elissa di proseguire ed ella incominciò dicendo che la fortuna determinava infinite situazioni, in cui gli uomini si dovevano muovere come in una giostra.
Proseguì raccontando ,come esempio, una novella.
Quando l’Impero Romano passò dalle mani dei francesi (carolingi) ai tedeschi (Ottone I di Sassonia), scoppiò una terribile guerra tra le due nazioni.
Il re di Francia, con suo figlio, riunì un grandissimo esercito per attaccare i suoi nemici.
Prima di partire, affidò il Regno a Gualtieri, conte di Anversa, gentiluomo saggio e fedele, che cominciò a governare consultandosi sempre con la regina e sua nuora.
Egli aveva circa quarant’anni, aveva un corpo bellissimo ed era un cavaliere garbato ed elegante.
Mentre il re ed il figlio erano in guerra , la moglie di Gualtieri morì lasciando un figlio ed una figlia senza di lei.
La nuora del re , di nascosto, si accese d’amore per il conte  ,scacciando la vergogna, decise di dichiararsi e  fece chiamare l’uomo che ,senza alcun sospetto, andò da lei.
La donna parlò a lungo della lontananza del marito, della sua giovinezza, degli ozi cui era costretta, per giustificare l’ardente amore che provava e lo scongiurò di assecondare, in segreto, i suoi desideri, piangendo disperatamente.
Il conte ,che era un cavaliere molto leale, respinse le offerte.
La donna, rifiutata, fu presa da un’ira violenta e decise di vendicarsi. Cominciando a gridare, si stracciò i vestiti, accusando l’uomo di aver tentato di violentarla.
Il cavaliere, temendo che si potesse dare più credito alla malvagità della donna che alla sua innocenza ,uscì rapidamente dal palazzo, corse a casa sua, pose i figli a cavallo e fuggì, più rapidamente che potè, a Calais. Molti, accorsi alle grida della donna, credettero alle sue parole e corsero al palazzo del conte per arrestarlo, ma, non trovandolo, saccheggiarono e distrussero la casa fin dalle fondamenta.
La notizia giunse al re e al figlio, che condannarono lo sventurato e promisero ricchi doni a chi l’avesse consegnato vivo o morto.
Il conte, che, con la sua fuga, da innocente s’era fatto colpevole, vestito miseramente, di nascosto, con i figli giunse a Calais, e di lì si imbarcò per l’Inghilterra.
Prima di sbarcare, raccomandò ai figli di non dire chi erano e da dove venivano, se avevano cara la vita.
Il più grande si chiamava Luigi ed aveva nove anni, la più piccola Violante e ne aveva sette.
Il padre cambiò i loro nomi in Perotto e Giannetta, poi, come si vedeva fare ai mendicanti francesi, vestiti miseramente, giunsero a Londra e si misero a chiedere l’elemosina.
Per caso, una mattina,  la moglie del maniscalco del re d’Inghilterra, uscendo dalla chiesa, vide il conte e i due figlioletti che mendicavano, si avvicinò e chiese chi erano e da dove venivano.
Egli rispose che veniva dalla Picardia e che , per un misfatto del figlio maggiore, era dovuto partire con i figli più piccoli. La donna, commossa, si offrì di prendere con sé la bambina e di maritarla convenientemente, se si comportava bene.
Il conte , piangendo, gliela affidò e , poco dopo, partì con Perotto verso il Galles dove fu accolto e nutrito da un altro maniscalco del re. Costui aveva dei figli con cui Perotto entrò in amicizia, su richiesta del funzionario, il fuggiasco gli affidò il figlio, anche se si dolse molto per la separazione.
Avendo sistemato i figli, Gualtieri passò in Irlanda, a Straford, dove si pose a servizio di un conte del luogo, facendo i lavori più umili e lavorando senza tregua per molto tempo, senza essere riconosciuto da nessuno. Violante, chiamata Giannetta, crescendo a Londra con la gentildonna, divenne una bellissima fanciulla, di cui tutti dicevano un gran bene.
La dama voleva sposarla onorevolmente ad un brav’uomo della condizione sociale a cui pensava che la fanciulla appartenesse. Ma Dio, consapevole della nobiltà della fanciulla, dispose diversamente ed impedì che la giovane finisse nelle mani di un uomo di condizione modesta.
La gentildonna che ospitava Giannetta aveva un solo figlio ,molto amato, bello, gentile e valoroso, dotato, insomma, di tutte le virtù. Egli aveva sei anni in più della ragazza e se ne innamorò perdutamente.
Non osava, però, chiederla per moglie al padre e alla madre, sapendo che era di umili origini, teneva, perciò, il suo amore nascosto.
Ben presto il giovane, preso da mal d’amore, si ammalò. I molti medici consultati non riuscirono a comprendere l’origine dei suoi mali. I genitori, addolorati, chiedevano spesso al figlio, che sospirava continuamente, la ragione delle sue sofferenze.
Un giorno, mentre un illustre medico stava tastando il polso del ragazzo, si avvicinò Giannetta, che serviva il giovane per rispetto alla madre. Immediatamente il polso prese a battere più del solito, il medico si meravigliò e ascoltò più attentamente. Come Giannetta si allontanò il battito si indebolì; fatta venire nuovamente Giannetta  le pulsazioni aumentarono.
Il medico, dunque, con assoluta certezza, disse ai genitori che la salute del figlio non dipendeva dall’aiuto dei medici, ma dimorava nelle mani della fanciulla, che il giovane amava appassionatamente, anche se nessuno se ne accorgeva.
Marito e moglie non convinti, avendo altre aspirazioni, andato via il medico, si recarono dal malato al quale la madre disse “ Figlio mio, ti ho sempre accontentato e sono disposta ad accontentarti in tutte le tue richieste, se sono oneste. Il Signore, perché tu non muoia, ci ha mostrato la causa del tuo male, che è l’eccessivo amore che tu provi per una giovane. Non dovevi vergognarti di dircelo, perché mi preoccuperei se, alla tua età, tu non fossi innamorato. Dunque, figlio mio, scopri ogni tuo desiderio, scaccia la malinconia e il pensiero che ti fa soffrire, perché, io, che ti amo più della mia vita, farò di tutto per accontentarti e cercherò ,in tutti i modi di favorire il tuo amore. Se ciò non avverrà dovrai ritenermi la madre più crudele del mondo”.
Il giovane, pensando che con nessuno meglio che con la madre si potesse confidare, le rivelò il suo amore per Giannetta, che non aveva mai osato manifestare né ai genitori, né alla ragazza, e chiese il suo aiuto per non morire. La donna promise che avrebbe risolto il problema e ,in breve tempo, il figlio mostrò i segni di un grande miglioramento.
Per mantenere la promessa ,la madre chiamò Giannetta e le chiese se aveva un moroso.
La ragazza arrossì e negò perché la cosa non si addiceva ad una damigella povera. La dama rispose che gliene avrebbero trovato uno perché non era giusto che una fanciulla così bella vivesse senza un innamorato. Giannetta, ringraziando la donna che l’aveva cresciuta, togliendola dalla povertà, rispose che avendo come unica ricchezza l’onestà, l’avrebbe donata solo all’uomo che amava e che avrebbe sposato.
La donna sorpresa per la risposta, insistette chiedendo se avesse accettato la richiesta del re in persona.
E la giovinetta, orgogliosamente, rispose che il re l’avrebbe potuta sposare solo con la forza.
La nobildonna pensò, allora, di ricorrere ad un inganno, per provare l’onestà della ragazza.
Mise Giannetta nella camera accanto al figlio, come una ruffiana, per favorire il piacere del giovane.
Ma il figlio non fu contento e, nuovamente, si aggravò. La donna , vedendo ciò, spiegò tutto alla ragazza e al marito e, ritenendo preferibile un figlio vivo con una moglie umile, piuttosto che un figlio morto senza moglie, decise di dargliela in sposa.
Il giovane guarì immediatamente e si sposò più felice che mai con la sua amata.
Perotto, frattanto, crebbe nel Galles al servizio del maniscalco del re d’Inghilterra. Divenne il più bello di tutti sull’isola, abile nelle giostre , nei tornei e nelle armi più di chiunque altro; tutti lo conoscevano e lo chiamavano “Perotto il Guiscardo”.
Dio non si era dimenticato nemmeno di lui.
Era scoppiata in Inghilterra una terribile pestilenza che fece morire moltissime persone, tra cui il maniscalco, la moglie, i figli e tutti i parenti. Rimase viva solo una damigella ,in età da marito, che sposò Perotto, come le avevano consigliato i sopravvissuti, facendolo signore delle ricchezze ereditate.
Il re d’Inghilterra , quando seppe della morte del suo funzionario, conoscendo il valore di Perotto il Guiscardo, lo nominò maniscalco in sostituzione del morto.
E così entrambi i figli del duca di Anversa ebbero una buona sorte.
Dopo diciotto anni dalla sua fuga da Parigi, mentre dimorava in Irlanda, il conte di Anversa, vedendosi già vecchio, desiderò sapere che cosa fosse avvenuto dei figli. Completamente trasformato dagli anni e dal faticoso lavoro, lasciato il suo padrone, andò in Inghilterra, dove aveva lasciato Perotto. Fu molto felice di averlo ritrovato, alto ufficiale e gran signore, ma non volle farsi riconoscere prima di aver avuto notizie di Giannetta.
Ripartito, non si fermò fino a quando non giunse a Londra.
Chiese notizie della donna cui aveva affidato ,tanti anni prima, la sua bambina e seppe che aveva sposato il figlio della sua padrona.
Desideroso di vederla, il pover’uomo si nascose vicino alla casa di lei, dove lo trovò il marito di Giannetta che si chiamava Giachetto Lamiens. Vedendolo così vecchio e povero ne ebbe pietà, lo fece entrare in casa e chiamò un servo perché gli facesse da mangiare.
Giannetta aveva avuto da Giachetto già diversi figli ,tutti belli, il maggiore dei quali aveva più di otto anni. Come i bambini videro il conte mangiare, gli corsero incontro e gli fecero festa, come se avessero avvertito che era il nonno ; mentre il vecchio, sapendo che erano i nipoti, cominciò ad accarezzarli.
Finito il pasto non volevano lasciarlo partire, sebbene il precettore li attendesse.
Giannetta venne ,allora, per richiamare i figli ed il conte, vedendola, provò un’immensa gioia.
La figlia non riconobbe il padre che si era  trasformato tanto da essere irriconoscibile ed era diventato vecchio, magro, con la barba e i capelli bianchi .Pure, vedendo che i bambini non lo volevano lasciare, consentì loro di indugiare ancora un po’.
Il precettore riferì la cosa al nonno paterno , che disprezzava Giannetta  per la sua origine modesta e non amava i nipoti, ritenendoli poltroni, come la madre.
Giachetto, vedendo l’affetto dimostrato dai figli a quel vecchio, lo invitò a rimanere al suo servizio, per attendere al suo cavallo ; finito il lavoro poteva giocare con i bambini.
Frattanto, in Francia, morì il re di Francia e gli successe il figlio la cui moglie ,con le sue menzogne, aveva costretto il conte a fuggire. Costui riprese a combattere aspramente contro i tedeschi.
Il re d’Inghilterra, come suo parente, mandò in aiuto molti uomini sotto il comando di Perotto, suo maniscalco
e di Giachetto ,figlio dell’altro maniscalco.
Al seguito di Giachetto partì anche il conte che seppe consigliare opportunamente il giovane.
Durante la guerra la regina di Francia si ammalò gravemente e, sentendosi vicina alla morte, volle farsi confessare dall’arcivescovo di Rouen, ritenuto uomo santissimo e comprensivo. Tra i tanti peccati ,confessò anche il torto che aveva fatto al conte di Anversa , non soltanto alla presenza dell’arcivescovo ma davanti a molti uomini valenti, pregandoli di ritrovare il gentiluomo ed i figli per restituirli al loro rango.
Poco dopo morì e fu sepolta con molti onori.
Saputa la cosa, il re fece girare un avviso in tutto l’esercito e in molte altre parti, promettendo una lauta ricompensa a chi lo avesse ritrovato. Udendo ciò, il conte, chiamati il figlio e il genero, rivelò loro tutta la verità e propose di presentarsi al re per ricevere la ricompensa e rientrare nel proprio rango.
Perotto, guardandolo con maggiore attenzione, riconobbe il padre e, piangendo, gli si gettò ai piedi.
La stessa cosa fece Giachetto, chiedendo umilmente perdono per ogni offesa arrecatagli.
Il gentiluomo ,benignamente, lo sollevò ed organizzò un piano per procacciarsi il dono che il re aveva promesso a chi gli portava il conte di Anversa.
Giachetto si recò alla presenza del re e si offrì di consegnargli il conte e il figlio ,dopo aver ricevuta la ricompensa .
Il re immediatamente fece portare un dono meraviglioso e chiese di mostrargli i due uomini.
Giachetto, allora, voltatosi, gli mostrò il conte, che indossava ancora i miseri panni che aveva portato fino a quel momento, ed il suo ragazzo, anche se non poteva presentargli la figlia, che era divenuta sua moglie.
Il re, dopo averlo guardato attentamente, riconobbe il conte ,anche se si era completamente trasformato, lo sollevò da terra, dove era in ginocchio, lo abbracciò e lo baciò.
Ordinò ,poi, di dare al conte e a Perotto abiti, cavalli e tutto ciò che la loro nobiltà richiedeva. Fece molti doni anche a Giachetto che aveva accolto il conte e i suoi figliuoli. Gli raccomandò vivamente di dire a suo padre che il conte e i suoi figli erano parenti del re per parte di madre e non erano di umile origine.
Giachetto prese i doni e fece venire a Parigi la moglie, la madre, la cognata; tutti furono accolti dal re con una
Grande festa.
Dopo che il conte fu riabilitato e gli furono restituiti i suoi beni, tutti se ne ritornarono a casa loro.
Il conte rimase a Parigi, vivendo splendidamente fino alla sua morte.





giovedì 9 gennaio 2014

SECONDA GIORNATA - NOVELLA N.7

SECONDA GIORNATA – NOVELLA N.7


 Il Sultano di Babilonia manda una sua figliuola in sposa al re del Garbo (Marocco), la quale per molte avventure, in quattro anni ,passa attraverso luoghi diversi con nove uomini, infine, restituita al padre ,va in moglie al re del Garbo, come doveva avvenire fin dall’inizio.


Mentre le giovani donne erano così commosse dalle vicende di madama Beritola, che quasi piangevano, Panfilo continuò la narrazione.
Considerò, innanzitutto, che molti, ritenendo che si poteva diventare ricchi e vivere senza preoccupazioni, cercarono la ricchezza affrontando molti pericoli. Talvolta, per questo, trovarono chi li uccise, mentre quando erano poveri li amava.
Altri, invece, passando attraverso infinite battaglie, divenuti re ricchi e potenti grazie ai fratelli e agli amici, sperando di poter vivere serenamente, conobbero la paura, temendo di essere avvelenati alla mensa reale.
Altri, ancora, desiderarono ardentemente la forza del corpo e la bellezza, solo tardi si accorsero che queste cose erano causa di morte o di vita dolorosa.
Ma se gli uomini peccavano desiderando tutto ciò, le donne peccavano soprattutto in una cosa: nel desiderare di essere belle, e, non soddisfatte della bellezza che la natura aveva dato loro, cercavano di accrescerla con grande arte.
Tanto si poteva evincere dalla novella che egli avrebbe raccontato di una bella saracena che ,per la sua bellezza, in quattro anni, si sposò nove volte.
Molto tempo prima, viveva in Babilonia un Sultano di nome Beminedab , che aveva molti figli sia maschi che femmine, tra cui una figliola chiamata Alatiel, bella come nessun’altra donna al mondo.
Poiché nella guerra contro gli Arabi aveva avuto grande aiuto militare dal re del Garbo, l’aveva data in moglie a lui, che glielo aveva chiesto come una grazia.
Affidandola a Dio, la mandò al re, imbarcandola su una nave ben armata, con un ricco seguito di donne, di uomini e con una ricca dote.
Partirono dal porto di Alessandria e navigarono ,felicemente, per due giorni; avevano già superata la Sardegna e pensavano di aver quasi terminato il viaggio, quando si levarono venti fortissimi.
Per due giorni i marinai resistettero, ma la tempesta della terza notte ridusse a mal partito la nave nei pressi di Maiorca. I marinai, per salvarsi, pensando soltanto a sé stessi, calarono in mare una scialuppa, sulla quale si gettarono i comandanti e poi gli altri.
Tutti , sperando di salvarsi, trovarono la morte, perchè la scialuppa non resse al peso degli uomini e affondò.
La nave, su cui era rimasta solo la donna con il suo seguito, sebbene mal ridotta, fu gettata dal vento sulla spiaggia di Maiorca, dove si insabbiò.
Venuto il giorno e calmatosi il vento, la donna, ripresasi a fatica, cominciò a chiamare per nome le persone del suo seguito, ma nessuno rispondeva. Si guardò intorno e vide che le donne del suo seguito erano quasi tutte morte per la paura e per il mal di mare. 
Spaventata, si scosse, non sapendo dove si trovava, fece alzare le donne che erano ancora vive e le mandò a vedere dove erano finiti gli uomini.
Fino alle tre del pomeriggio, non trovarono nessuno sulla spiaggia che potesse aiutarle.
Un po’ più tardi, per caso, passò di lì un gentiluomo di nome Pericon da Visalgo, con il suo seguito, che, vedendo la nave, immaginò cosa era successo.
Ordinò ad un servo di salire sulla nave, faticosamente l’uomo salì e trovò la gentile fanciulla con poche altre donne, nascosta sotto la prora. Le donne, chiedendo pietà , cercarono di spiegare l’accaduto, senza riuscirci, perché non conoscevano lo spagnolo.
Scese a terra ,furono mandate al castello di Pericone, perché fossero assistite e rifocillate.
Dai ricchi monili trovati sulla nave e dal rispetto che le altre donne avevano per lei, l’uomo comprese che doveva trattarsi di una nobildonna.
Sebbene fosse pallida ed emaciata per la fatica del mare,  era bellissima e Pericone decise di sposarla, anche si rammaricava di non poter comunicare in quanto parlavano due lingue diverse. Vedendola ancora più bella dopo il riposo, cominciò a corteggiarla con mille attenzioni per piegarla ai suoi desideri. La fanciulla si ritraeva e rifiutava.
Dopo un certo tempo, Alatiel ,avendo compreso di essere tra cristiani e che prima o poi avrebbe dovuto cedere alle insistenze del suo salvatore, evitò di dire chi fosse. Raccomandò alle tre donne che le erano rimaste di non dire chi fossero e di conservare la castità, come faceva lei che sarebbe appartenuta solo a suo marito.
Pericon si innamorava sempre di più e, per conquistare la donna che gli resisteva, escogitò uno stratagemma. Poiché si era accorto che a lei piaceva il vino, a cui non era abituata perché la sua religione le impediva di berlo, pensò di farla cedere, con l’aiuto del vino e di Venere.
Una sera la invitò ad una festa e ordinò al coppiere di servirle un bicchiere di vari vini mescolati tra loro. Bevuto l’intruglio ,la donna, dimenticando le sventure passate, divenne lieta e vedendo alcune donne ballare danze spagnole, ballò anche lei alla maniera alessandrina. Così trascorse quasi tutta la notte, tra vini e danze. Allontanatisi i convitati, l’uomo, che era molto robusto ed energico, entrò nella camera da solo con la donna, che più calda di vino che di onestà, si spogliò e si coricò.
Pericone ,rapidamente, la seguì e le si coricò accanto, iniziando i preliminari amorosi.
La donna , che non aveva nessuna esperienza, come si accorse che il pene dell’uomo, ingrossatosi a dismisura, premeva sulla sua vagina, si pentì di non aver accolto prima le lusinghe di Pericone,e, in seguito molte volte, non con le parole, che non si sapeva spiegare, ma con i fatti ,gli si offrì.
Ma la fortuna, non contenta, ci mise lo zampino.
Pericone aveva un fratello di venticinque anni, fresco e bello come una rosa, di nome Marato, che era molto attratto dalla donna. Il giovane ,credendo di essere da lei corrisposto, ritenne che l’unico ostacolo fosse la grande sorveglianza che le veniva fatta ed escogitò un piano scellerato.
Era giunta nel porto una nave appartenente a due giovani genovesi, carica di mercanzie, che doveva andare a Chiarenza, in Romania, ed era già pronta a partire , con le vele issate.
Marato si accordò con i naviganti per imbarcarsi nella notte seguente. Durante la notte si recò ,con alcuni compagni fidatissimi, nella camera dove Pericone dormiva con la donna.
Uccisero Pericone nel sonno , catturarono la donna piangente e senza essere uditi da nessuno si imbarcarono. Inizialmente la donna pianse molto, ma Marato, con il suo fallo molto grosso, la consolò così bene che ella presto dimenticò Pericone.
Ma era pronta per lei una nuova sventura.
Vedendola così bella, i due giovani padroni della nave se ne innamorarono, senza che Marato minimamente lo sospettasse.
Senza indugio, mentre era sul ponte, lo attaccarono alle spalle e lo buttarono in mare , senza che nessuno se ne accorgesse ; poi si impegnarono a confortare la donna , messa al corrente dell’incidente.
Volendo ciascuno essere il primo a possederla, accesi dall’ira, vennero alle mani e si affrontarono ,armati di coltelli. L’uno cadde morto, l’altro fu ferito gravemente.
Frattanto la nave approdò a Chiarenza , dove, con il ferito, Alatiel scese a terra e alloggiò in un albergo.
La fama della sua bellezza giunse alle orecchie del principe di Morea, che si trovava in città, il quale, appena la vide, se ne innamorò perdutamente.
I parenti del ferito, avutane richiesta, senza perder tempo, mandarono al principe la donna che aveva procurato loro tanti guai. Il principe, gradito molto il dono, la trattò come una regina, rispettandola come se fosse sua moglie.
Ella, ripresasi dalle sventure, rasserenata dall’amore e dalle  di lui attenzioni ,rifiorì, tanto che in tutta la Romania non c’era nessuna donna bella come lei.
Il duca di Atene, amico e parente del principe, fu preso dal desiderio di vederla e giunse dopo un lungo viaggio, accompagnato da molti nobili, a Chiarenza. Elogiandone la bellezza, lo sventurato accompagnò l’amico nelle sale, dove la donna si tratteneva con il seguito. Anche se Alatiel non parlava la loro lingua era talmente bella che il duca, ritenendo l’altro straordinariamente fortunato, cadde nella rete e si innamorò perdutamente.
Lasciando da parte ogni prudenza e giustizia, escogitò un piano per liberarsi del principe, con l’aiuto di un servitore fedelissimo del nobile rumeno di nome Ciuriaci, che aveva accesso alla camera dove dormiva con la donna.
Una notte, per il molto caldo, il principe ,tutto nudo, stava alla finestra guardando il mare, godendosi un bel venticello.
Ciuriaci, di nascosto, gli andò alle spalle, e, colpendolo ai reni, lo gettò dalla finestra.
Siccome il palazzo era a picco sul mare, nessuno vide e sentì la caduta del corpo.
Un compagno del duca ,fingendo di accarezzarlo, strangolò il servo infedele con una corda e buttò anche quel corpo dal dirupo.
Sicuro di non essere stato visto né sentito da nessuno, il duca, con tutta calma, si recò nella camera della donna che dormiva nuda. La scoprì, potè ammirarla in tutto il suo splendore, poi si coricò e fece l’amore con lei, che, ancora assonnata credeva che si trattasse del principe.
Dopo un certo tempo, la mise su un cavallo e ,per nasconderla, la portò in un luogo appartato sopra Atene. Intanto, in Romania, i cortigiani ,non vedendo più né il principe né il servitore cominciarono a cercarli.
Un matto trovò il corpo di Ciuriaci attaccato alla fune e dette l’allarme.
Tutti lo seguirono e scoprirono il cadavere del principe, lo seppellirono con molti onori e decisero di vendicarlo. Prepararono un grande esercito e dichiararono guerra al duca di Atene.
Molti potenti signori mandarono aiuti militari, tra cui l’Imperatore di Costantinopoli ,che inviò il figlio, Costantino , e il nipote ,Manovello . I due furono ricevuti affettuosamente dalla duchessa ,che era loro sorella. Avvicinandosi il giorno della battaglia , la duchessa, chiamatili in disparte, raccontò loro che il duca l’aveva offesa tenendo con sé ,di nascosto, una donna , e promise una ricca ricompensa se l’avessero vendicata.
I giovani la confortarono, promisero e partirono, dopo aver saputo da lei dove si trovava la donna.
 Avendo ,molte volte, sentito parlare della bellezza della donna chiesero al duca di vederla. Egli ,dimentico del passato, li invitò a desinare con lei in uno splendido giardino.
Sedendo Costantino vicino a lei, considerandola come la cosa più bella che avesse mai veduto, tralasciando la guerra, si mise a pensare come poteva eliminare il duca. Frattanto il principe si avvicinava e il duca e Costantino ,con l’esercito, uscirono da Atene per bloccare il nemico alle frontiere.
Costantino si finse malato e ,col permesso del duca, lasciato il comando a Manovello, ritornò ad Atene dalla sorella, alla quale promise di portar via ,lontano da Atene, la bella Alatiel, senza che il il marito lo sapesse.
La duchessa ritenendo che il fratello facesse ciò per amor suo non della donna, assentì ben lieta.
Raccomandò vivamente che tutto fosse fatto in gran segreto.
Il giovane, armata una navicella sottile e veloce, la fece andare vicino alla dimora della donna; frattanto, ricevuto con i suoi compagni dalla dama, se ne andò con lei in giardino e, fingendo di portale notizie  
del duca , la spinse sulla barca.
Ordinò ai presenti di tacere perché, in tal modo, non rubava la donna al duca ma vendicava l’offesa fatta alla sorella. Tutti tacquero e Costantino, salito sulla nave con la donna piangente, navigando a gran velocità, giunse ad Egina ( di fronte ad Atene).
Qui giacque con la donna addolorata, poi, temendo i rimproveri del padre e che la donna gli fosse tolta, preferì andare a Chios ,per nascondersi in un luogo sicuro, dove la donna, riconfortata, cominciò a riprendere salute e gioia di vivere.Nel mentre Osbech , re dei Turchi, che era in continua guerra con l’Imperatore di Costantinopoli, udì che il giovane era a Chios ,dove conduceva una vita lasciva con una donna che aveva rubata.
Di notte, su alcune navi leggiere, assaltò di sorpresa Chios, uccidendo molti soldati che dormivano ed altri che, sorpresi, cercavano di difendersi. Gli assalitori caricarono sulle navi il ricco bottino ed i prigionieri e ritornarono a Smirne.
Osbech, che era un bell’uomo, tra i prigionieri trovò la bella donna, che era stata catturata mentre dormiva con Costantino, si rallegrò  e, senza indugio, la fece sua sposa, giacendo lieto molti mesi con lei.
L’Imperatore, informato di ciò che era accaduto al figlio, sollecitò Basano, re della Cappadocia, suo alleato, ad attaccare Osbech ,ed egli stesso si mosse col suo esercito, per attaccare il nemico su due fronti.
Osbech ,per evitare di essere accerchiato, andò contro il re della Cappadocia, lasciando a Smirne la donna, affidata ad un amico di nome Antioco.
Sconfitto ed ucciso il re di Cappadocia, Antioco, rimasto solo con lei, sebbene attempato , se ne innamorò. Anche Alatiel, che per molti anni era stata creduta sorda e muta, poiché Antioco conosceva la sua lingua, entrò in confidenza con lui e corrispose al suo amore.
Temendo di essere assaliti, decisero di partire e, con le ricchezze di Osbech, di nascosto, se ne andarono a Rodi, dove ,dopo un certo tempo, Antioco si ammalò e morì. In punto di morte affidò la donna che aveva tanto amato, con tutte le sue ricchezze, ad un mercante di Cipro, suo grande amico.
Conclusi i suoi affari a Rodi, volendo ritornare a Cipro, il mercante portò con sé la donna, che lo seguì spontaneamente , e per proteggerla da ogni ingiuria disse che era sua moglie.
Imbarcatisi, sulla nave dormivano entrambi su un lettuccio assai piccolo, ma caldo e comodo. Ben presto ,al buio e al caldo, dimenticarono le promesse fatte ad Antioco, e, spinti da eguale desiderio, si unirono, prima di giungere a Boffa, dove si fermarono.
Per caso giunse a Boffa, un gentiluomo di nome Antigono, vecchio, di grande intelligenza e di poca ricchezza, perché, avversa la fortuna, aveva perso molto denaro a Cipro. Andato in Armenia per affari, Antigono passò sotto la finestra della donna, la guardò, attratto dalla sua bellezza, ed ebbe l’impressione di averla già conosciuta.
La bella donna, come vide Antigono, ricordò di averlo visto al servizio di suo padre, lo fece chiamare e gli chiese se era Antigono di Famagosta. Al suo assenso, gli buttò le braccia al collo e domandò se l’aveva mai vista ad Alessandria.
Immediatamente il vecchio riconobbe che era Alatiel, figlia del Sultano, che tutti credevano morta in mare., promise di aiutarla ,di ricondurla al padre e si fece raccontare tutte le sue disavventure.
Udito il racconto escogitò un piano per ricondurla al padre e darla in moglie al re del Garbo, come inizialmente era stato disposto. Ritornato a Famagosta, si presentò al re (di Cipro) e gli promise che se l’avesse assecondato, ne avrebbero entrambi tratto gran vantaggio.
Al re che gli chiedeva in che modo, il furbacchione( il volpone) riferì che a Baffa aveva ritrovato la bella giovane figlia del sultano che tutti credevano annegata, la quale per conservare la sua onestà aveva molto sofferto, e ora, povera e triste, voleva ritornare dal padre.
Egli chiedeva una scorta per riportare la figlia al padre, di che il sultano gli sarebbe stato ,certamente, grato.
Il re ,con la regina, accolse molto onorevolmente la donna a Famagosta e dopo pochi giorni ,con una scorta, la rimandò al padre che l’accolse con grande gioia.
Quando si fu riposata, il padre si fece raccontare che cosa era successo in tutto quel tempo.
Ella rispose seguendo i consigli di Antigono e disse “ Padre mio, dopo venti giorni dalla mia partenza, una tempesta buttò la nave su una spiaggia chiamata Aguamorta (Aguies Mortes in Provenza), tutti gli uomini scomparvero ed io rimasi sola con due mie donne, mentre i paesani rubarono tutto quello che c’era.
Le donne fuggirono inseguite da alcuni giovani. Due giovani mi presero e ,tirandomi per i capelli, cercarono di portarmi in un bosco. Per fortuna, passarono di lì quattro uomini a cavallo che, vista la scena, fecero fuggire gli assalitori. Dopo avermi liberata, ascoltata la mia storia, mi condussero ad un monastero di suore, dalle quali fui ricevuta con benevolenza e con onori, e con loro rimasi nel monastero di San Cresci in Valcava.
Quando ebbi appreso la loro lingua, le suore mi domandarono chi ero e da dove venivo.
Temendo di essere cacciata via perché nemica della loro religione, dissi che che ero figlia di un gentiluomo di Cipro, che mi aveva mandato a Creta per maritarmi, ma ero stata sbattuta lì da una tempesta. La badessa, pietosa, per rimandarmi a Cipro, da mio padre, mi affidò a certi buoni uomini francesi, suoi parenti, che con le loro donne, andavano a Gerusalemme a visitare il Santo Sepolcro. Saliti, dunque, sulla nave, dopo alcuni giorni giungemmo a Boffa, dove, per grazia di Dio, sulla spiaggia, trovai Antigono, che subito riconobbi, perchè parlavo la sua lingua,al quale narrai la mia storia.
Egli, ringraziando ed onorando i francesi e le loro donne, mi condusse dal re di Cipro che mi rimandò a te.
Se c’è altro da dire te lo racconterà Antigono, che sa tutto”.
E Antigono continuò dicendo che le donne e gli uomini francesi ,che gliel’avevano affidata, avevano molto lodato l’onestà e la virtù della fanciulla, che per molto tempo aveva vissuto con le monache, e l’avevano tanto elogiata che non sarebbero bastati un giorno e una notte per elencare tutti i suoi meriti.
Il Sultano ringraziò Iddio e ricompensò generosamente il re di Cipro, inviando Antigono con ricchi doni.
Poi, per concludere il matrimonio programmato, scrisse al re del Garbo che, se lo desiderava, gli avrebbe mandato la figlia in sposa. Il re del Garbo accettò e la ricevette con grandi onori.
E così la donna, che aveva giaciuto con otto uomini, forse diecimila volte, fu accolta come una verginella e tale fu creduta e visse a lungo lietamente con lui come regina, e , perciò, si disse “bocca baciata non perde fortuna, ma si rinnova come fa la luna”.





giovedì 2 gennaio 2014

SECONDA GIORNATA - NOVELLA N.6

SECONDA GIORNATA – NOVELLA N.6


 Madama Beritola, trovata con due caprioli su un’isola, avendo perso due figli, se ne va in Lunigiana. Uno dei figli si unisce con la figlia del suo signore ed è messo in prigione. Quando la Sicilia si ribella a re Carlo, la madre ritrova il figlio,  che sposa la figlia del suo signore, e ritrova anche il fratello e tutti ritornano in ricchezza.
                

Dopo che Fiammetta aveva raccontata la divertente storia di Andreuccio, Emilia, ricevuto l’ordine dalla regina, incominciò col considerare che era sempre gradevole, sia per coloro che vivevano nella felicità che per gli sventurati, ascoltare i vari movimenti della fortuna, perchè rendeva i primi più attenti e consolava i secondi.
Proseguì dicendo che dopo la morte di Federico II ,imperatore del regno delle due Sicilie, che comprendeva tutta l’Italia meridionale, fu incoronato Manfredi. Egli stimò grandemente un nobile napoletano chiamato Arrighetto Capece, che aveva sposato una nobildonna, anch’essa napoletana, di nome Beritola Caracciolo, molto bella e gentile.
Arrighetto, che era governatore della Sicilia, informato dello sbarco di re Carlo d’Angio a Benevento, dello spostarsi del re , dopo la vittoria e l’uccisione di Manfredi, verso la Sicilia, fu catturato dai francesi mentre si preparava a fuggire.
 La moglie ,non sapendo che fine aveva fatto, lasciata ogni cosa, insieme col figlio, Giuffredi , povera e gravida, fuggì a Lipari, su una barchetta. Lì partorì un altro figlio maschio, che chiamò lo Scacciato, e, insieme con i figli e una balia, si imbarcò per ritornare a Napoli, dai suoi parenti.
Ma le cose andarono diversamente. Il vento spinse la barca all’isola di Ponza, in una piccola insenatura.  Mentre la nobildonna ,sbarcata, si era appartata in un luogo solitario a piangere la sua sventura, nel porticciolo giunse una galea di corsari che catturò i figli e la balia.
Quando la donna ritornò sulla spiaggia per rivedere i figli, non trovò nessuno, guardando verso il mare vide la galea che si allontanava, portandosi dietro la barchetta e capì che aveva perduto anche i figli, oltre al marito
Per il dolore della perdita, svenne sulla spiaggia.
Quando riprese le forze , a lungo andò in giro, cercando i figli e invocando il loro nome.
Venuta la notte, spaventata, si allontanò dalla spiaggia e si rifugiò nella caverna dove, di solito, andava a piangere. Passata la notte, a mattinata inoltrata, poiché il giorno prima non aveva mangiato, si mise a raccogliere un po’ di erbe da mangiare.
Dopo mangiato, mentre piangeva, vide una capriola entrare in una caverna e dopo poco uscirne.
Incuriosita entrò e vide due caprioli, appena nati, che le sembrarono la cosa più bella e più dolce del mondo, e, non essendosi ancora asciugato il latte dal seno, per il suo parto recente, pose i caprioli al petto.
Gli animaletti succhiarono come se avessero succhiato dalla madre.
La gentildonna, avendo trovato la compagnia della capriola e dei suoi figlioletti, nutrendosi di erbe e bevendo l’acqua, pur ricordando con sofferenza i figli, il marito e la vita di prima, si era rassegnata a vivere e a morire in quel luogo, come un animale selvatico.
Un bel giorno, giunse colà una navicella pisana, su cui era un signore chiamato Corrado dei marchesi Malaspina, con sua moglie. Essi, dopo essere andati in pellegrinaggio nei luoghi sacri del regno di Puglia, se ne tornavano a casa.
Mentre i pisani esploravano l’isola, i cani di Corrado cominciarono ad inseguire i due caprioli che pascolavano, i quali ,fuggendo, si rifugiarono nella caverna dove si trovava Beritola. La donna, afferrato un bastone, cercò di scacciare i cani, frattanto giunsero Corrado e la moglie, che, vedendola così magra, bruna e pelosa, molto si meravigliarono.
La donna raccontò loro tutte le sue sventure.
Corrado ,che conosceva molto bene Arrighetto Capece, ne ebbe pietà e si offerse di portarla a casa sua dove l’avrebbe trattata come una sorella. Sua moglie l’assistette con grande cura, la fece vestire con i suoi abiti, le diede da mangiare ed ,infine, dopo molte insistenze, la convinse ad andare con loro in Lunigiana , con i due caprioli e mamma capriola.
Venuto il buon tempo, partirono tutti, giunsero alla foce della Magra, dove sbarcarono e proseguirono per raggiungere i castelli dei Malaspina, nella Lunigiana.
Qui madama Beritola, cui fu dato il soprannome di “Capriola”, rimase come damigella della donna di Corrado., tenendo con sé gli animali .
Frattanto i corsari che avevano catturato i figli di Beritola, sbarcati a Genova, divisero tra loro la preda.
A Guasparino Doria toccò la balia con i due figli della dama, che egli tenne nella sua casa come servi.
La nutrice, dopo aver molto pianto per la perdita della padrona, da donna saggia e prudente, preferì dire che i bambini erano figli suoi, non rivelandone l’origine, per proteggerli dai pericoli , sperando che, mutata la fortuna, potessero ritornare nelle condizioni di prima..
 Chiamò il primo non Giuffredi ma Giannotto di Procida, spiegandogli che era pericoloso se l’avessero riconosciuto. Rimasero così, mal vestiti e mal calzati, al servizio dei Malaspina per circa due anni.
A sedici anni Giannotto, molto più coraggioso di quanto conveniva ad un servo, lasciò il servizio di Guasparino e si imbarcò sulle galee che andavano ad Alessandria.
Dopo tre o quattro anni, divenuto un giovane forte e bello, avendo sentito che suo padre era ancora vivo ed era tenuto prigioniero da re Carlo, girovagando, non sperando più nella fortuna, giunse in Lunigiana.
Colà ,per caso, divenne una  delle guardie di Corrado Malaspina, al cui servizio era sua madre, ma non si riconobbero, tanto l’età li aveva cambiati.
Frattanto, una delle figlie del signore, di nome Spina, rimasta vedova, ritornò alla casa paterna.
La donna aveva sedici enni ed era molto bella, come vide Giannotto se ne innamorò, ricambiata.
I due tennero nascosto il loro amore per alcuni mesi. Ma un giorno ,passeggiando per un bosco ricco di alberi, lasciata la compagnia, si appartarono in un luogo pieno d’erba e di fiori e si abbandonarono ai giochi d’amore. Dopo un lungo spazio di tempo, che ai due sembrò brevissimo, furono sorpresi dai genitori di lei.
Corrado, adirato, senza parlare, li fece legare e portare al castello, minacciando di farli morire.
La madre, comprese le intenzioni del marito, lo pregò di non volere, in vecchiaia, diventare un omicida, macchiandosi del sangue di un servo, e di trovare un altro modo per fargliela pagare.
Con le sue preghiere riuscì a calmarlo e Corrado decise che fossero imprigionati in due luoghi diversi, dove, ben sorvegliati, fosse dato loro poco cibo, in attesa delle sue decisioni.
Era passato un anno da quando Giannotto e la Spina erano stati imprigionati, senza che Corrado decidesse il loro destino, quando Pietro III d’Aragona riconquistò la Sicilia, togliendola a Carlo d’Angiò.
La cosa rallegrò moltissimo Corrado che era ghibellino.
La notizia rattristò molto Giangiotto, che, sospirando, disse al carceriere, che a niente gli serviva che la Sicilia fosse ritornata agli Aragonesi, sebbene l’avesse desiderato per anni, dato che era in prigione.
Il carceriere, incuriosito, lo interrogò e seppe che il giovane era figlio di Arrighetto Capece, che si chiamava Giuffredi e non Giannotto e che era un nobile siciliano.
Il buon uomo, senza sentir più niente, raccontò ,immediatamente, tutto a Corrado che ,a sua volta, domandò a madama Beritola  se aveva avuto da Arrighetto un figlio di nome Giuffredi.
La donna, piangendo, rispose che di figli ne aveva avuti due e il maggiore, se era ancora vivo, si chiamava così ed aveva ventidue anni.
Udendo ciò ,Corrado comprese di aver sbagliato e decise di dare la figlia in moglie al giovane.
Chiamato ,in segreto, Giannotto, convinto da molti indizi che il giovane era veramente il figlio di Arrighetto Capece, gli disse “ Giannotto, tu sai quale grave offesa mi arrecasti, approfittandoti di mia figlia, mentre io ti avevo accolto al mio servizio e ti avevo sempre trattato amichevolmente. Ora che ho saputo che sei figlio di un gentiluomo e di una gentildonna, voglio porre fine alle tue sofferenze e salvare il tuo onore e il mio.
Tu sai che la Spina, la quale compromettesti con una sconvenevole amicizia, è vedova ed ha una buona dote. Purchè tu lo voglia, io sono disposto a darla a te in moglie, in tal modo tu diventerai per me come un figlio e vivrai con lei”.
La prigione aveva macerato le carni del giovane, ma non aveva piegato la generosità del suo animo e l’amore che provava per la donna.
Sebbene desiderasse fortemente ciò che gli veniva proposto, pure orgogliosamente rispose “ Corrado, né desiderio di potere ,né desiderio di denaro furono causa di tradimento da parte mia. Amai tua figlia e l’amerò sempre perché la stimo degna del mio amore e se mi comportai con lei poco onestamente, commisi quel peccato per l’ardore della giovinezza. Se i vecchi si ricordassero di essere stati giovani sarebbero più comprensivi. Quello che tu mi offri l’ho sempre desiderato e se potevo minimamente sperare, te lo avrei chiesto già da molto tempo. Ora che avevo perso ogni speranza, mi giunge ancora più gradito. Se non sei convinto non darmi false speranze e fammi ritornare in prigione. Sappi che qualsiasi cosa farai , amerò sempre la Spina e ti rispetterò sempre”.
Corrado apprezzò molto quelle parole e stimò e tenne caro ancora di più il giovane, lo baciò e lo abbraccio. Fece venire la figlia che, in prigione, era diventata magra, pallida e debole, che quasi non si riconosceva più, e, alla sua presenza, i giovani si scambiarono la promessa di matrimonio.
Senza dir nulla per molti giorni, sembrandogli il momento giusto  per far felici le due madri, chiamò sua moglie e la  “ Capriola” e disse alla donna che voleva farle riavere il suo figlio maggiore, che era il marito di una delle sue figlie. Poi, rivolto alla moglie, disse che voleva donarle un genero.
Frattanto giunsero i giovani, elegantemente vestiti,  e Corrado comunicò a Giuffredi che gli avrebbe fatto ritrovare la madre.
L’incontro avvenne con grande festa, riconoscendo nel giovane i tratti fanciulleschi del figlio, senza parlare, madama Beritola lo abbracciò e ricadde, quasi morta tra le sue braccia.
Il giovane ,stupito perché l’aveva vista tante volte in quella casa senza mai riconoscerla, pure conobbe l’odore materno e piangendo, teneramente, l’abbracciò.
La “Capriola” ,riprese le forze con l’aiuto dei presenti,  riabbracciò il figlio con molte lacrime e parole dolci. Dopo alcuni giorni dall’annuncio del matrimonio, Giuffredi chiese al signore di aiutarlo a ritrovare il fratello che era, come servo, in casa di Guasparino Doria, il quale aveva preso,insieme con la balia, dai corsari.
Lo pregò, inoltre, di mandare in Sicilia qualcuno che si informasse delle condizioni del paese e chiedesse se Arrighetto ,suo padre era vivo o morto e, se era vivo, si adoprasse per farlo ritornare da loro.
La richiesta piacque a Corrado che, immediatamente, si attivò.
Mandò a Genova, da messer Guasparino, una persona che gli chiedesse la consegna dello Scacciato e della balia, narrandogli ciò che Corrado aveva fatto.
Messer Guasparino, per maggiore sicurezza, interrogò la balia; la donna, che non aveva più paura, avendo saputo che la Sicilia si era ribellata e che Arrighetto era vivo, raccontò tutta la verità.
Il signore ,confrontando le due storie, trovandole corrispondenti, da uomo astutissimo qual’era, si vergognò del modo meschino con cui aveva trattato il giovane , e, per farsi perdonare, poiché aveva una bella figlioletta di quasi undici anni, gliela diede in moglie con grande dote.
Salito, poi,  con la figlia, il giovane, la balia e l’ambasciatore su una nave ben armata, venne a Lerici ed andò al castello di Corrado ,dove era pronta una festa grande.
Si può immaginare le gioia di tutti, quando si ritrovarono insieme.
Perché la felicità fosse completa, Dominedio volle che giungessero notizie anche di Arrighetto.
Infatti ritornò colui che era stato mandato in Sicilia e riferì che Arrighetto, tenuto prigioniero da re Carlo, quando era scoppiata la rivolta, era stato liberato dal popolo, che aveva assaltato le prigioni.
Come nemico di re Carlo, era stato fatto capitano per inseguire ed uccidere i francesi.
Per l’aiuto dato fu molto apprezzato da Pietro d’Aragona, che gli restituì i suoi beni e gli onori.
L’ambasciatore aggiunse che era stato ricevuto con grande riguardo da Arrighetto, felicissimo di ricevere notizie della moglie e del figlio, di cui non aveva saputo più niente.
Madama Beritola e Giuffredi non smettevano più di ringraziare Corrado e la moglie.
Poi, rivolti a messer Guasparino, la cui disponibilità giungeva imprevista, si dissero certissimi che Arrighetto gli sarebbe stato molto  grato per la generosità dimostrata verso lo Scacciato.
Dopo di ciò ,lieti mangiarono e si godettero la festa, che continuò per molti giorni.
Al termine, madama Beritola, Giuffredi e tutti gli altri, tra molte lacrime e abbracci, si imbarcarono e partirono. Col vento favorevole, rapidamente giunsero in Sicilia, dove furono accolti con indicibile gioia da Arrighetto.
E in Sicilia vissero per molto tempo, riconoscenti a Dio per il beneficio ricevuto.