sabato 18 aprile 2020

PANDEMIA di CORONAVIRUS 2020. Quarta settimana

18.04.2020

Siamo giunti, ormai, alla quarta settimana.
In questa giornata ci soffermeremo sulla drammatica situazione che la pandemia di Coronavirus, attualmente in corso, sta creando in tutto il mondo. I servizi televisivi, che ci informano costantemente sullo stato delle cose, sembrano bollettini di guerra. La permanenza forzata in casa, senza contatti con l’esterno e con i familiari, ci induce ad immaginare cose tristissime e a temere di tutto.
Ogni cosa rappresenta un pericolo e la mente va alle immagini del passato che ci hanno maggiormente colpito. In un cantuccio della memoria ho gelosamente conservato un passo dei Promessi Sposi che, dopo tanti anni, mi accompagna ancora e riemerge con forza ora, ai tempi del Coronavirus. Mi riferisco ad un brano del cap. XXXIV de I Promessi Sposi. che voglio riportare integralmente. Nessuno di noi potrà mai dimenticare “La madre di Cecilia”.

Renzo, sopravvissuto alla peste, ormai guarito, ritorna a Milano per cercare notizie di Lucia e, per le strade ancora piene di cadaveri, assiste a scene inenarrabili di devastazione.

Entrato nella strada, il suo sguardo incontrò un oggetto singolare di pietà, di una pietà che invogliava l’animo a contemplarlo; di maniera che si fermò, quasi senza volerlo. Scendeva dalla soglia di uno di quegli usci e veniva verso il convoglio, una donna, il cui aspetto annunziava una giovinezza avanzata, ma non trascorsa; e vi traspariva una bellezza velata e offuscata, ma non guasta, da una gran passione, e da un languore mortale: quella bellezza molle e a un tempo maestosa, che brilla nel sangue lombardo. La sua andatura era affaticata, ma non cascante; gli occhi non davano lacrime, ma portavano il segno d’averne sparse tante; c’era in quel dolore un non so che di pacato e di profondo, che attestava un’anima tutta consapevole e presente a sentirlo. Ma non era solo il suo aspetto che, tra tante miserie, la indicasse così particolarmente alla pietà, e ravvivasse per lei quel sentimento ormai stracco e ammortito nei cuori. Portava essa in collo una bambina di forse nove anni, morta; ma tutta ben accomodata, coi capelli divisi sulla fronte, con un vestito bianchissimo, come se quelle mani l’avessero adornata per una festa promessa da tanto tempo, e data per premio. Né la teneva a giacere, ma sorretta, a sedere su un braccio, col petto appoggiato al petto, come se fosse stata viva; se non che una manina bianca a guisa di cera, spenzolava da una parte, con una certa inanimata gravezza, e il capo posava sull’omero della madre, con un abbandono più forte del sonno: della madre, ché, se anche la somiglianza dei volti non ne avesse fatto fede, l’avrebbe detto chiaramente quello dei due che esprimeva ancora un sentimento. Un turpe monatto andò per levarle la bambina dalle braccia, con una specie però d’insolito rispetto, con una esitazione involontaria. Ma quella, tirandosi indietro, senza però mostrare sdegno né disprezzo,«no!» disse «non me la toccate per ora; devo metterla io su quel carro: prendete». Così dicendo, aprì una mano, fece vedere una borsa, e la lasciò cadere in quella che il monatto le tese. Poi continuò :«Promettetemi di non levarle un filo d’attorno, né di lasciar che altri ardisca a farlo, e di metterla sotto terra così». Il monatto si mise una mano al petto; e poi, tutto premuroso, e quasi ossequioso, più per il nuovo sentimento da cui era come soggiogato, che per l’inaspettata ricompensa, s’affaccendò a fare un po’ di posto sul carro per la morticina. La madre, dato a questa un bacio in fronte, la mise lì come su un letto, ce l’accomodò, le stese sopra un panno bianco, e disse l’ultime parole: «Addio Cecilia! Riposa in pace! Stasera verremo anche noi, per restare sempre insieme. Prega intanto per noi; ch’io pregherò per te e per gli altri», poi voltatasi di nuovo al monatto, «voi» disse «passando di qui verso sera, salirete a prendere anche me, e non me sola». Così detto, rientrò in casa, e, un momento dopo, s’affacciò alla finestra, tenendo in collo un’altra bambina più piccola, viva, ma coi segni della morte sul volto. Stette a contemplare quelle così indegne esequie della prima, finché il carro non si mosse, finchè lo poté vedere; poi disparve. E che altro poté fare, se non posar sul letto l’unica che le rimaneva e mettersele accanto per morire insieme? come il fiore già rigoglioso sullo stelo cade insieme al fiorellino ancora in boccio, al passar della falce che pareggia tutte l’erbe del prato”.

Quale madre, nelle notti insonni che passiamo seguendo in televisione le notizie sull’espandersi veloce dell’epidemia, non si sente stringere il cuore al pensiero dei rischi che corrono i figli, soprattutto quelli che sono rimasti lontano, non potendo rientrare nelle loro case.
Come dimenticare le immagini sconvolgenti di tanti carri funebri fermi davanti ai cimiteri e davanti agli inceneritori.
Abbiamo ancora davanti agli occhi gli sguardi terrorizzati delle persone nelle stazioni mentre cercavano di partire per tornare a casa a ricevere e a dare conforto ai propri familiari.
Ascoltiamo sgomenti le notizie che ci giungono dagli ospedali informandoci che mancano medici e personale sanitario, mancano attrezzature idonee, mancano posti letto negli ospedali quindi dobbiamo curarci in casa.

Ci ritorna alla mente, con incredibile vivezza e attualità la vicenda della “madre di Cecilia”. Gianbattista Vico ci parla di “corsi e ricorsi storici” e lascia intendere che dalle esperienze del passato si possono trarre insegnamenti per il presente, ciò sarebbe utile per noi Esseri Umani, che stiamo vivendo un momento particolarmente difficile. Infatti tutte le nostre certezze, faticosamente conquistate, sono ora paurosamente messe in discussione dal Coronavirus, un “mutante”, di cui non si conosce la provenienza.

Esso si diffonde in tutto il mondo con una spaventosa velocità, non risparmiando nessuna categoria e classe sociale, nessuna razza e colore della pelle.

sabato 11 aprile 2020

L’AMORE AI TEMPI DEL COLERA di Gabriel García Márquez. Terza settimana

11.04.2020
.........

L’AMORE AI TEMPI DEL COLERA di Gabriel García Márquez

Nella terza settimana ci soffermeremo sul romanzo L’amore ai tempi del colera di Gabriel García Márquez, il più noto autore sudamericano del ‘900. Protagonista è una violenta epidemia di colera. L’opera è ambientata a Cartagena de Indias tra la metà dell’800 e l’inizio del '900. Lo spettro del colera è sempre presente, come un filo sottile che accompagna la narrazione.
Mi soffermerò, in particolare, sul ritorno del Dott. Juvenal Urbino nei Caraibi, proveniente da Parigi. L’ambientazione è completamente diversa. Non siamo nelle città italiane, sconvolte dalla peste. Con il Boccaccio a Firenze e nel suo circondario, con il Manzoni a Milano e nel bergamasco.

Iuvenal Urbino, di ritorno da Parigi dove aveva vissuto per motivi di studio, è a bordo di una nave.
“La nave si fece strada nella baia, attraverso una coltre galleggiante di animali annegati, e la maggior parte dei passeggeri si rifugiò nelle cabine, per sottrarsi al fetore”.
Il giovane, perfetto nella sua eleganza parigina, riuscì a conservare il suo autocontrollo, anche se gli stringeva la gola un nodo che non era di tristezza ma di terrore.
Sul molo, quasi deserto, lo aspettavano la madre, le sorelle e gli amici più intimi. Li trovò smarriti e sparuti, con un tremito nella voce ed una incertezza nelle pupille. La vista della madre lo turbò moltissimo.
“Il mare sembrava di cenere, gli antichi palazzi di marchesi sembravano soccombere al proliferare dei mendicanti ed era impossibile cogliere la fragranza dei gelsomini dietro i suffumigi di morte delle fogne a cielo aperto”.
Nelle strade, simili a porcili, giravano un’infinità di topi affamati, che ostacolavano l’avanzare delle carrozze. Colto da un’infinita tristezza, nascose il volto alla madre e si mise a piangere in silenzio.

La vecchia dimora degli Urbino, un tempo palazzo nobiliare, era in pieno decadimento. Suo padre era morto nell’epidemia di colera che aveva decimato la popolazione sei anni prima e con lui era morto lo spirito della casa. A poco a poco si abituò all’afa e agli odori nauseanti, ripetendosi che quello era il suo mondo e doveva abituarsi.

Si gettò con vigore nel lavoro, rinnovando, in parte, lo studio del padre. Cercò di portare le innovazioni apprese a Parigi all’Ospedale della Misericordia, dovendo continuamente lottare con superstizioni ataviche.
“La sua ossessione erano le pericolose condizioni della sua città”.
Lottò in tutti i modi affinché fossero chiuse le fogne spagnole, abitate da un’infinità di topi, e si costruissero condutture chiuse che sfociassero in lontani canali e non nello spazio del mercato. La popolazione più umile che abitava nelle baracche faceva i propri bisogni all’aria aperta. Le feci si seccavano al sole, si trasformavano in polvere e venivano respirate da tutti.
Lottò invano perché i rifiuti non fossero gettati nelle lagune e non andassero in putrefazione, ma fossero inceneriti in un luogo appartato. Anche le acque da bere rappresentavano un pericolo mortale, perché in fondo agli orci proliferavano vermiciattoli invadenti.
Il dottore era seriamente preoccupato anche per le condizioni igieniche del mercato pubblico, un vasto spazio pubblico all’aperto davanti alla Baia di Las Animas, approdo per i velieri provenienti dalle Antille. Lì venivano buttati gli avanzi del mattatoio attiguo, teste macellate, visceri marce, residui di animali che rimanevano a galla, sotto il sole e la pioggia, in un pantano di sangue.
I suoi amici lo schernivano e, degni eredi degli hidalgos spagnoli, rivangavano i pregi storici della città, le loro origini gloriose, minimizzando il degrado del luogo.

Ad un tratto la situazione degenerò del tutto. L’epidemia di colera, le cui prime vittime caddero nelle pozzanghere del mercato, provocò in pochissimo tempo una grandissima mortalità.
In precedenza i morti venivano seppelliti sotto i pavimenti delle chiese o nei patii dei conventi, i poveri nel cimitero.
“Nelle prime due settimane di colera il cimitero traboccò, non rimase più un posto libero nelle chiese”.
Nell’orto della Comunità di Santa Chiara furono scavate fosse profonde per seppellire i cadaveri su tre livelli. Il suolo si impregnò di sangue come una spugna.
Dopo che fu dichiarato ufficialmente il colera, nella fortezza della guarnigione si sparò un colpo di cannone ogni quarto d’ora, perché una superstizione locale sosteneva che la polvere da sparo purificava l’aria.

Il colera cessò all’improvviso, come era cominciato, e non si seppero mai i danni che aveva arrecato. Esso aveva, comunque, dato una mano al destino, per un equivoco, come dice Marquez.
Infatti, perché sospettata di avere il colera, Fermina Daza, la più bella fanciulla dei Caraibi, venne visitata dal dottor Juvenal Urbino. Egli ne rimase folgorato e la sposò. Frattanto la vita scorreva e infinite vicende si susseguivano.

Florentino Ariza, l’eterno innamorato di Fermina, pur passando attraverso infinite avventure, che egli celò abilmente fingendosi omosessuale, non dimenticò il suo grande amore. Sempre col pensiero alla donna costruì la sua fortuna, diventando proprietario della compagnia fluviale dei Caraibi.
Morto Juvenal, ripresero i contatti tra Florentino e Fermina. La donna era ormai decisa a non perdere l’ultima occasione offertale dalla vita di vivere il suo amore. Nonostante le severe critiche di una componente della sua famiglia, si incontrò con l’uomo e ne accettò la corte.
“In una delle prime visite, parlando dei suoi battelli Florentino Ariza aveva rivolto un invito formale a Fermina Daza per fare un viaggio di riposo lungo il fiume… lei sentiva un’attrazione molto forte per il fiume”.
“Florentino portò mappe della rotta per entusiasmarla, cartoline di crepuscoli furibondi, poesie sul paradiso primitivo del fiume Magdalena, scritte da viaggiatori illustri”.
Nel viaggio sarebbe stata l’ospite d’onore ed avrebbe avuto una cabina tutta per lei, arredata come la sua casa.
Partirono il 7 Luglio del 1924, sulla nave dal nome “Nueva Fidelidad”, nome particolarmente appropriato.
All’imbarco fece gli onori di casa, con champagne e salmone affumicato, il Capitano Diego Sammartino, perfetto nella sua uniforme di lino bianco.
Il battello uscì dalla baia, avanzando per paludi e canali nell’aria libera del Grande Fiume della Magdalena.
Florentino conservava ricordi molto piacevoli, del suo viaggio di gioventù sul fiume. Proseguendo nella navigazione, rimase stupito dai cambiamenti.
Si accorse che il fiume Magdalena, uno dei più grandi del mondo, era solo un’illusione della memoria.
I giorni successivi furono caldi e interminabili. Il fiume divenne torrido e si fece sempre più stretto. Non arrivava il profumo dei gelsomini ma “la zaffata nauseabonda dei morti che passavano, galleggiando verso il mare. Non c’erano più guerre, né pesti ma i corpi gonfi continuavano a passare”.

C’erano pochi luoghi dove poter fare rifornimento di legna, per cui il battello rimase ormeggiato per una settimana. I taglialegna avevano abbandonato le terre, fuggendo dal colera invisibile e dalle guerre. La sosta forzata fu per i due innamorati un “contrattempo provvidenziale”. Immersi in un letargo irreale, vissero ore inimmaginabili, in una intimità struggente. “Uscivano dalla cabina quasi solo per mangiare”. Giunsero a La Dorada, porto finale, dopo undici giorni di viaggio. Uscirono dalla loro camera quando tutti i passeggeri furono sbarcati.

Ben presto cominciarono a salire sul battello i passeggeri del viaggio di ritorno. Fermina entrò in crisi perché tra i nuovi arrivati riconobbe molti suoi amici, che la conoscevano benissimo. Si rinchiuse di nuovo nella sua cabina, temendo le critiche. Ed ecco che, improvvisamente, mentre erano a cena nella sala riservata, Florentino ebbe l’idea che avrebbe trasformato la loro vita. Chiese al capitano «Sarebbe possibile fare un viaggio diretto, senza carico né passeggeri, senza toccare un solo porto, senza niente?». L’interrogato rispose che era possibile solo se vi era un caso di peste a bordo. Il battello si dichiarava in quarantena, si issava una bandiera gialla e si navigava in stato di emergenza. Aggiunse che lo aveva fatto diverse volte per molti casi di colera. Spesso si faceva per impedire perquisizioni inopportune. Con decisione Florentino disse «Bene, allora facciamo così». E firmò l’ordine scritto come gli era stato richiesto dal comandante.
Dalla riva i villaggi sparavano cannonate per scacciare il colera. Anche i battelli che incrociavano, mandavano segnali di condoglianze. Sulla nave Florentino suonò per ore il valzer “dea incoronata”. Ormai il solo pensiero del ritorno imminente toglieva il sonno ai due che, ormai, ritenevano la cabina del battello come la propria casa.

Rapidamente i passeggeri furono trasferiti su un altro battello. Il capitano chiese di fare un solo scalo a Puerto Nare per far salire una donna alta e robusta, Zenaida Neves, che egli affettuosamente chiamava “mia energumena”. E iniziò il viaggio più singolare del mondo.

L’ultimo giorno della traversata si alzarono già vestiti, pronti per sbarcare, quando una lancia della Sanità del porto ordinò di fermare la barca. Il Capitano rispose che vi erano a bordo tre passeggeri ammalati di colera che non avevano avuto contatti con l’equipaggio. Il comandante della pattuglia ordinò che uscissero dalla baia e si fermassero alla palude di Las Mercedes, in attesa di disposizioni per la quarantena.
Il battello uscì dalla baia e tornò alle paludi, mentre il capitano non sapeva come giustificare la bandiera del colera. Immediatamente Florentino disse «Andiamo a dritta, a dritta, a dritta, di nuovo verso La Dorada». Il capitano guardò l’uomo e Fermina e domandò «Fino a quando crede di poter proseguire questo andirivieni del cazzo?». E Florentino, senza un attimo d’incertezza, rispose «Per tutta la vita».
Il colera questa volta fu complice ed amico.

sabato 4 aprile 2020

I PROMESSI SPOSI (Cap. XXXI e XXXII) di Alessandro Manzoni. Seconda settimana

04.04.2020
........

Nella seconda settimana ci soffermeremo a considerare il diffondersi della peste nel milanese nel 1630. Esamineremo i capitoli XXXI e XXXII dei I Promessi sposi di Alessandro Manzoni.
.......

I PROMESSI SPOSI (Cap. XXXI e XXXII) – ALESSANDRO MANZONI

Vi si dice che nei primi giorni del 1630 le soldatesche alemanne dilagarono nel milanese e nella Lombardia, portando con sé la peste. Essa non si fermò lì ma invase buona parte dell’Italia (in particolare Piemonte, Liguria, Emilia, Repubblica Veneta). Le notizie fornite dagli storici sono confuse e contraddittorie, come anche quelle degli atti pubblici. Di certo risulta che, per tutto il territorio attraversato dalle bande alemanne, si trovarono cadaveri nelle case e per le strade.
Poco dopo nei vari paesi cominciarono ad ammalarsi e morire persone e famiglie con mali che avevano sintomi sconosciuti ai più. Solo il protofisico Lodovico Settala, che era stato uno dei curatori più attivi della peste di San Carlo, pochi anni prima, precisamente nel 1629, la riconobbe e fornì informazioni al Tribunale della Sanità di Lecco, confinante con il bergamasco. Come dice il Tadino, Commissario inviato a Lecco, il problema fu sottovalutato e non si prese alcun provvedimento, in quanto le preoccupazioni della guerra erano più pressanti. Frattanto furono emanate grida in cui il Governatore ordinava pubbliche feste per la nascita del figlio primogenito del re Filippo IV.

Se la condotta dei governanti fu deplorevole, quella della popolazione non fu da meno. Tutti, governanti e popolo, evidenziarono una totale cecità di fronte al pericolo. Il Tadino individuò nel soldato Pietro Antonio Todato il primo ad entrare in Milano, portandovi il contagio. Egli giunse recando con sé un gran fagotto di panni rubati o comprati dai soldati alemanni, si fermò a casa dei parenti e poi vicino al convento dei Cappuccini. Si ammalò e fu portato all’ospedale, dove gli scoprirono un bubbone sotto l’ascella, il quarto giorno morì. La sua famiglia fu sequestrata, i suoi vestiti e il letto furono bruciati. Ma le tante tracce da lui lasciate seminarono morte sia nel lazzaretto che nella città. Ma ancora si negava che vi fosse la peste.

Molti medici, seguendo la voce del popolo, deridevano gli auguri sinistri e parlavano di malattie comuni. Il terrore dell’abbandono e dell’isolamento aguzzavano gli ingegni. Si corrompevano i becchini, non si denunziavano gli ammalati, e i medici che visitavano gli ammalati venivano corrotti per fare falsi attestati. L’odio del popolo colpì soprattutto due medici convinti della realtà del contagio, il Tadino e Senatore Settala, figlio di Lodovico Settala. Essi, come dice il Ripamonti, furono considerati nemici della patria, e, quando attraversavano le piazze, venivano assaliti con parolacce e con sassi. Lodovico Settala, mentre si recava a visitare i suoi ammalati, fu aggredito dalla folla e i suoi portantini furono costretti a ricoverarlo in casa di amici. La situazione peggiorò sul finire del mese di Marzo. In ogni quartiere della città si ebbero malattie e morti con evidenti tracce di lividi, bubboni, febbri maligne e pestilenziali. Il tribunale della Sanità emanò editti che prescrivevano la quarantena e i Decurioni, su ordine del Governatore, raccoglievano danari con imposte per mantenere la popolazione cui erano mancati i lavori. Il Tribunale e i Decurioni, non sapendo dove battere il capo, pensarono di rivolgersi ai Cappuccini. Fu proposto dalle alte sfere religiose, per l’assistenza ai malati, padre Felice Casati, di età matura e molto caritatevole, a lui si unì padre Michele Pozzobonelli, giovane ma ugualmente caritatevole. Il 20 Marzo entrarono nel Lazzaretto. Man mano che gli ammalati aumentarono, accorsero altri Cappuccini che sopperivano a tutte le incombenze. Padre Felice prese inizialmente la peste, in seguito guarì e si dedicò, con nuovo vigore, alla cura degli ammalati. Il padre rimase in quel luogo per sette mesi, assistendo circa cinquantamila appestati con l’aiuto dei frati, grazie ai quali furono aiutati migliaia di poveri. Ormai diffusosi il male in ogni parte d’Europa, non si poté più negare che si trattava di peste.

Si sparse allora la voce di gente che con arti magiche spargeva la peste per mezzo “di veleni, di malie”. Si parlava di 4 francesi, sospettati di spargere unguenti velenosi, pestiferi, che sarebbero capitati a Milano. Questa diceria fece sorgere il sospetto di un attentato. Alcuni sostennero che fossero state unte le panche e perfino le corde delle campane del Duomo. Poco dopo, in ogni parte della città, si videro le porte e le mura delle case intrise di una pittura giallognola sparsa come con delle spugne. I padroni delle case tentarono di coprire le zone unte e tutti i forestieri sospettati, chiamati “Untori” venivano arrestati e condotti in prigione.

Il 4 Maggio il Consiglio dei Decurioni si rivolse per aiuto al Governatore. Tra le tante cose, i Decurioni chiesero al Cardinale di Milano che si facesse una processione solenne, portando per la città il corpo di San Carlo. Inizialmente il buon prelato rifiutò perché temeva che gli untori, se veramente ve ne erano, avrebbero avuto vita facile a spargere il veleno durante la processione; inoltre, il radunarsi di tanta gente poteva favorire il contagio. Si diceva che il veleno fosse composto di rospi, di serpenti, di bava e materie degli appestati. La gente stava all’erta per scoprire gli untori, come dice il Ripamonti.
Un giorno, nella chiesa di Sant’Antonio, un povero vecchio, prima di sedersi, spolverò la panca con il mantello. Alcune donne, vedendolo, cominciarono ad urlare, accusandolo di ungere le panche. La gente, presente in chiesa, fu addosso al vecchio, colpendolo con violenza e portandolo, semivivo, in prigione. Lo stesso accadde a tre giovani compagni francesi che studiavano le scritte sulla facciata del Duomo.

Il Cardinale Federico, dopo molte insistenze da parte del popolo, acconsentì che si portasse in processione la cassa con le reliquie del Santo e che essa rimanesse poi esposta per 8 giorni sull’Altare del Duomo. All’alba dell’11 Giugno la processione uscì dal Duomo in gran pompa. Erano rappresentate tutte le classi sociali. Dietro al venerato cadavere veniva l’Arcivescovo Federico, seguito dal clero, poi venivano i magistrati, poi i nobili ed infine il popolo misto. La processione passò per tutti i quartieri della città. Ed ecco che, il giorno seguente, le morti crebbero in ogni parte della città. Tutti furono d’accordo nel ritenere che ciò fosse dovuto alla processione e agli untori che, mescolati alla folla, avevano infettato molti col loro unguento. In poco tempo la popolazione del Lazzaretto passò da duemila a sedicimila. I Decurioni si trovarono in grandissime difficoltà, dovendo provvedere alle pubbliche necessità. Furono create nuove figure, quali i Monatti e gli Apparitori.

I Monatti svolgevano il servizio più pericoloso, cioè quello di togliere dalle case, dalle strade, dal lazzaretto, i cadaveri. Li portavano, poi, sui carri alle fosse comuni. Conducevano gli ammalati al lazzaretto e bruciavano la roba infetta e sospetta. Vi erano, poi, gli Apparitori che avevano il compito di precedere i carri, suonando con un campanello in modo che i passanti si ritirassero. Infine vi erano i Commissari che dovevano provvedere a fornire il Lazzaretto di Medici, di Chirurghi, di Infermieri, di medicine, di vitto.

Aumentando gli ammalati furono necessari nuovi alloggi. Furono, allora, costruite, in gran fretta, capanne di legno e di paglia e un nuovo Lazzaretto, poi, altri due che non furono finiti, perché, crescendo il fabbisogno, diminuiva il Personale idoneo.
Molti bambini, cui erano morte le madri di peste, furono abbandonati. La Sanità propose di disporre un ricovero per i bambini abbandonati e per le donne partorienti bisognose di assistenza. Ma niente di tutto ciò fu fatto. Quando l’enorme fossa comune fu piena di cadaveri, i nuovi rimasero insepolti in ogni angolo della città, aumentando di giorno in giorno. Alla fine il buon ed energico padre Michele Pozzobonelli, scongiurato dal presidente della Sanità, si impegnò a sgombrare la città dei cadaveri in 4 giorni. Egli, con la forza del suo abito e delle sue parole, andò fuori dalla città dai contadini e ne convinse circa 200 a scavare tre grandissime fosse. Spedì, poi, i Monatti a raccogliere i morti.

Nel quarto giorno la promessa fu mantenuta. Accanto alla misericordia degli ecclesiastici, in aiuto venne la misericordia privata. Infatti, accanto all’indifferenza di tanti, vi fu la carità di molti civili. Il Cardinale Federico dava a tutti incitamento ed esempio, seguito dai religiosi, visitava i Lazzaretti, portava soccorso ai poveri, sequestrati nelle case. Visse in mezzo alla pestilenza, meravigliato di esserne uscito illeso.

I Monatti, in tali drammatiche circostanze, divennero gli arbitri di ogni cosa. Entravano da padroni nelle case, derubavano i proprietari e mettevano le loro mani infette, che avevano toccato gli appestati, sui sani, favorendo il contagio.

sabato 28 marzo 2020

EPIDEMIE: QUATTRO EPOCHE A CONFRONTO - DECAMERON (Introduzione) di Giovanni Boccaccio. Prima settimana

28.03.2020

Essere costretti a rimanere in casa a tempo indeterminato, nell'inattività fisica, può favorire lo sviluppo di impreviste attività mentali. Infatti, come tutti ben sappiamo, la mente non si ferma mai, non ha un attimo di riposo. Mi è sembrato opportuno riprendere la tecnica usata nel “Decameron a puntate” e sviluppare, con cadenza settimanale, il tema “EPIDEMIE: QUATTRO EPOCHE A CONFRONTO”.

Tratterò, dunque,delle gravi epidemie del 1348, del 1630, del 1900 e del 2020 che hanno colpito l’Italia, l’Europa, i Caraibi ed, infine, il mondo intero. Anche adesso mi avvarrò della collaborazione e dell’assistenza di mio figlio Francesco, esperto di informatica.

Nella prima settimana ci soffermeremo sulla peste che colpì Firenze nel 1348, di cui ci parla Boccaccio nel Decameron. Riportiamo, di seguito, l’introduzione dell’opera, rivisitata in chiave moderna e in italiano contemporaneo.

..........


DECAMERON (Introduzione) - Giovanni Boccaccio

Si era giunti all’anno 1348 dalla nascita di Cristo, quando nella città di Firenze, e nelle bellissime città d’Italia, giunse la terribile pestilenza, la quale, per opera degli astri celesti o per la giusta ira di Dio, a causa delle nostre opere inique, fu mandata come punizione ai mortali.

Incominciata alcuni anni prima in Oriente, provocando la morte di innumerevoli esseri viventi, senza fermarsi, si spostò, ampliandosi, verso Occidente. A nulla valsero la prudenza e i provvedimenti presi per motivi sanitari, in base ai quali fu pulita dalle immondizie tutta la città, ad opera di ufficiali all’uopo comandati, né il divieto per gli ammalati di entrare in città. A nulla valsero le preghiere rivolte a Dio da persone devote, né le processioni. All’inizio della primavera la pestilenza cominciò a dimostrare i suoi terribili effetti. Essa, mentre in Oriente si era manifestata con fuoriuscita di sangue dal naso che portava direttamente alla morte, in Occidente si manifestò diversamente.

Inizialmente comparivano dei rigonfiamenti all’inguine e sotto le ascelle. Questi venivano chiamati “gavoccioli” e si diffondevano in tutte le parti del corpo, erano indizio di morte sicura. Per queste infermità non valeva nessun consiglio di medico e nessuna medicina, sebbene il numero dei medici fosse grandissimo. Solo pochissimi guarivano, anzi, quasi tutti al terzo giorno dalla comparsa di questi segni, con o senza febbre, morivano. La peste passava dagli infermi ai sani, come fa il fuoco con le cose secche o unte, che gli sono vicine. Il contagio si diffondeva non solo se si parlava o si stava vicino agli infermi, ma anche se si toccavano i panni e qualsiasi cosa che era stata da loro usata. Così i vivi pensavano bene di schifare e fuggire gli infermi e le loro cose, sperando, in tal modo,di acquistare salute. Alcuni ritenevano che vivere con moderazione, senza cose superflue, li avrebbe protetti dalla peste e, costituita una brigata, vivevano isolati nelle case in cui non c’era alcun infermo, mangiando cibi delicatissimi, bevendo vini leggeri e profumati, evitando ogni lussuria, non parlando né di morti, né di infermi. Altri, di opinione contraria, preferivano bere molto e godere, mangiare smodatamente, beffandosi di ogni cura e medicina, andando in giro per taverne, facendo solo ciò che arrecasse loro piacere, e, ritenendo di non dover più vivere a lungo, abbandonavano le loro case. Per questo molte case erano state abbandonate e occupate da estranei, a volte anche ammalati.

Ormai ogni cittadino evitava l’altro, non avendo cura dei parenti, sia gli uomini che le donne. Un fratello abbandonava l’altro e, spesso, la donna abbandonava il marito, e i padri e le madri, cosa terribile, abbandonavano i figli, quasi che non fossero propri, e si rifiutavano di accudirli. Perciò quelli che si ammalavano non avevano alcun aiuto, se non la carità degli amici, in verità molto pochi, e l’avidità dei servitori. Essi non facevano altro che porgere agli ammalati alcune cose da loro richieste o guardare quando morivano e, anche così, spesso perdevano sé stessi insieme con il guadagno, perché morivano per il contagio.

Per l’abbandono dei parenti e degli amici si diffuse un uso mai udito prima, per cui se una donna, anche se bella e leggiadra, si ammalava, prendeva a suo servizio un uomo a cui si affidava per tutte le cure e le incombenze, anche le più intime, che la sua malattia richiedeva, il che, in quelle che sopravvissero, fu causa di una minore onestà. Era usanza che le donne, parenti o vicine del morto, si riunissero e piangessero, così pure i vicini e gli amici si radunassero davanti alla casa, e poi veniva il clero che portava il morto nella chiesa che egli aveva precedentemente indicato.

Man mano che la pestilenza divenne più feroce, queste usanze cambiarono. Molti morivano da soli, senza alcun conforto o pianto dei congiunti e non potevano essere trasportati nella chiesa che avevano scelto. Venivano, invece, prelevati da persone prezzolate, chiamate “beccamorti” o “becchini”, di umile origine che, messili nella bara, li portavano nella chiesa più vicina, dove c’erano pochi chierici che, rapidamente, senza lunghi e solenni offici, con l’aiuto dei becchini li seppellivano in qualche sepoltura ancora vuota.

La gente umile stava ancora peggio, perché non aveva potuto lasciare la propria casa abitata da molte persone, dove il contagio si diffondeva molto più rapidamente, e non aveva alcun aiuto e tutti morivano. I vicini, temendo per sé, gettavano i corpi dei morti e degli infermi nella strada. I vicini, da soli o con l’aiuto di alcuni portatori, tiravano fuori i morti, li portavano davanti agli usci e facevano venire le bare. Ben presto le bare furono insufficienti. Allora misero molti cadaveri in una sola bara. I preti, nel seppellirli, sotto una sola croce misero sei o otto morti, senza che essi fossero onorati da alcuna lacrima, lume o compagnia. I morti venivano trattati come capre.

Man mano che la moltitudine dei cadaveri aumentava, non fu possibile seppellirli in terra sacra, nelle chiese, secondo l’antica consuetudine. Si scavarono allora delle grandissime fosse comuni dove si misero, a centinaia, i morti, fino a quando ogni fossa non veniva riempita, poi si ricopriva con poca terra. Anche nella periferia della città le cose non andarono meglio, anche i poveri, con le loro famiglie, morivano come bestie, abbandonando i sani costumi antichi e i loro animali, buoi, asini, pecore, capre, porci, polli e cani, fedelissimi agli uomini. Gli animali andavano in giro per la campagna, nutrendosi a sazietà, senza controllo e, a sera, ritornavano a casa spontaneamente.

Dunque, ritornando alla città di Firenze, si può dire che, tra il marzo e il luglio del 1348, morirono più di centomila creature umane.
Ahimè, quanti palazzi e belle case, in precedenza pieni di nobili famiglie, rimasero vuoti. 

In poco tempo la città rimase quasi vuota.




QUANDO LA CULTURA CLASSICA SI SPOSA CON LA COMPETENZA INFORMATICA

27.03.2020
In questo periodo di riposo forzato per la pandemia che sta sconvolgendo le nostre abitudini e la nostra vita, sono riandata col pensiero ai momenti lieti del passato e agli studi che mi avevano maggiormente interessato.
Sono, dunque, ritornata a Giovanni Boccaccio, il mio grande amore e al suo Decameron. Ho ricordato che parlai a mio figlio Francesco della mia intenzione di elaborare una libera interpretazione del Decameron in italiano moderno, utilizzando la tecnica della pubblicazione a puntate di una novella a settimana. Francesco fu entusiasta dell’idea ed, esperto com’era di informatica, si è laureato “maxima cum laude” in Scienze della Comunicazione, mi disse che mi avrebbe aperto un blog su Internet, dove pubblicare il mio lavoro. Egli è stato da sempre convinto del valore insostituibile della cultura. Circa 10 anni fa, quando è iniziato il viaggio telematico del "Decameron a puntate", ha fondato con il cugino Angelo, suo coetaneo e compagno di merende giovanili, la "NEO EDIZIONI" Casa Editrice indipendente, che si sta facendo onore nel panorama culturale nazionale e internazionale. 

Attivo da circa 10 anni, questo blog, di assoluta attualità ora, ai tempi del Coronavirus, ha valicato le Alpi, le Montagne Rocciose, gli Urali raggiungendo i luoghi del mondo più appartati e lontani da noi. Ha portato veramente la cultura classica italiana nel mondo servendosi dei più moderni strumenti di comunicazione. È proprio in seguito ad un’epidemia di peste, che ha colpito Firenze nel 1348, che un gruppo di fiorentini, composto da 7 fanciulle e 3 giovani, si allontana dalla città e si sposta nelle campagne fiorentine per trascorrere in allegria, dimenticando i lutti, i morti e le malattie, un periodo di riposo, dedicandolo al racconto di 10 novelle al giorno, per un totale di 100 novelle, in un panorama variopinto di personaggi e di situazioni.