mercoledì 26 novembre 2014

SESTA GIORNATA - NOVELLA N.8

SESTA GIORNATA – NOVELLA N.8

Fresco consiglia alla nipote di non specchiarsi , se le persone spiacevoli, come diceva, le sembravano noiose da vedere.
La novella di Filostrato aveva fatto un po’ vergognare le donne che ascoltavano, sul cui viso comparve un velo di rossore. Poi, guardandosi l’un l’altra ,non poterono trattenersi dal ridere.
Finito il racconto, la regina, voltandosi verso Emilia, le fece segno di proseguire.
Ella precisò che un pensiero l’aveva distratta per molto tempo, per cui avrebbe narrato una novella più breve di quanto avrebbe fatto se avesse concentrato la sua attenzione sul novellare.
Iniziò, dunque, narrando di una giovane che era stata rimproverata dallo zio con un motto molto garbato, se l’aveva ben compreso.
Un tale, che si chiamava Fresco da Celatico, aveva una nipote chiamata con il vezzeggiativo di “Cesca”, che aveva un bel corpo e un bel viso, anche se non proprio angelici, come quelli che ogni tanto si vedevano.
Ella, dal canto suo, si credeva così bella e nobile, che aveva preso l’abitudine di criticare uomini ,donne e ogni cosa che vedeva, senza tener conto di sé stessa. Risultava , perciò, sgradevole , antipatica e odiosa a tutti; ed, oltre a ciò, era superba ,come se appartenesse ai Reali di Francia.
Quando camminava per la strada aveva una faccia così disgustata e storceva continuamente il muso, come se sentisse che tutte le persone che vedeva e incontrava puzzassero.
Tralasciando gli altri suoi modi sgradevoli, un giorno, mentre era tornata a casa ,dove era anche Fresco, postasi a sedere, non faceva altro che sbuffare. Allora Fresco le domandò perché, essendo un giorno di festa, era ritornata a casa così presto.
Al che ella ,tutta sorrisi e moine, rispose che era tornata così presto a casa perché, mai come in quel giorno, sulla terra aveva visto tanti uomini e donne così sgradevoli e non ne era passato uno per la strada che non le fosse risultato antipatico. Concluse che non c’era niente di peggio per lei che vedere persone sgradevoli, perciò se ne era ritornata così presto a casa.
Allora Fresco, al quale i modi altezzosi della nipote non piacevano per niente, le disse “ Figliuola ,se tanto ti dispiacciono le persone spiacevoli, se vuoi vivere lieta, non ti guardare mai nello specchio”.
Ma Cesca, vuota come una canna, che pensava di avere la saggezza di Salomone, non diversamente da come avrebbe fatto uno stupido montone, rispose che si voleva specchiare come le altre.
E così nella sua presunzione e nella sua stupidità  rimase e rimaneva ancora.





giovedì 20 novembre 2014

SESTA GIORNATA - NOVELLA N.7

SESTA GIORNATA – NOVELLA N. 7

Madonna Filippa , dal marito col suo amante trovata,chiamata in giudizio, con una pronta e piacevole risposta libera sé stessa, e fa modificare la legge.

Già Fiammetta taceva e ognuno ancora rideva per l’argomento originale con cui lo Scalza aveva nobilitato i Baronci, quando la regina fece cenno a Filostrato di iniziare la narrazione.
E Filostrato, rivolto alle donne, cominciò dicendo che era, senz’altro, una cosa bella saper parlare in ogni circostanza, ma era bellissimo saperlo fare quando le circostanze lo richiedevano.
Così seppe fare, appunto, la donna di cui avrebbe parlato, la quale, con la sua risposta, non solo divertì tutti gli ascoltatori, ma si liberò dai lacci di una morte vergognosa.
Nella terra di Prato era in vigore uno statuto, in verità biasimevole e crudele, che ordinava che fosse arsa la donna che fosse colta dal marito in flagrante adulterio con l’amante, al pari di una prostituta, che fosse stata per denari con qualunque uomo.
Mentre vigeva questa legge, avvenne che una gentildonna bella e molto innamorata, di nome madonna Filippa, una notte fu trovata da Rinaldo dei Pugliesi, suo marito, nelle braccia di Lazzarino dei Guazzagliotri, giovane nobile e bello di Prato, che l’amava nella stessa misura.
Rinaldo vedendo ciò, adirato, si trattenne a fatica dal gettarsi loro addosso e dall’ucciderli e, se non avesse temuto di essere condannato, seguendo l’impeto d’ira, li avrebbe uccisi.
Trattenutosi, dunque, pretese di ottenere la morte della sua donna, come prevedeva lo statuto di Prato.
Perciò trovò dei testimoni e, venuto il giorno, senza riflettere ulteriormente, accusata la donna, la fece chiamare in tribunale.
La donna, che era di animo generoso, come erano ,di solito, le donne molto innamorate, sebbene sconsigliata da parenti e amici, decise di comparire in giudizio e di confessare la verità. Preferiva morire coraggiosamente, piuttosto che vivere fuggendo vilmente e vivere in esilio, condannata in contumacia, indegna di un amante valoroso, come era colui, nelle cui braccia era stata la notte passata.
Accompagnata da un folto gruppo di donne e di uomini, che le consigliavano di negare, giunta davanti al podestà, gli chiese, con coraggio, di essere interrogata.
Il podestà, vedendola bellissima e molto garbata, e, come dimostravano le sue parole, di gran valore, cominciò ad avere compassione di lei. Temeva che ella potesse confessare qualche cosa per cui, nel rispetto della legge, dovesse condannarla a morte.
Dovendo, dunque, interrogarla in relazione a ciò di cui era accusata, le disse che Rinaldo, suo marito, l’aveva denunziata, perché diceva che l’aveva trovata in adulterio con un altro uomo ; chiedeva ,come previsto dallo statuto, che fosse punita con la morte.
Il giudice precisava che non poteva condannarla se ella non confessava, perciò la invitava a riflettere bene a ciò che rispondeva e a dire se era vero quello di cui il marito l’accusava.
La donna, senza scomporsi, con voce dolce rispose che era vero che Rinaldo, suo marito, l’aveva trovata, la notte passata, nelle braccia di Lazzarino, nelle quali, per l’amore grande che gli portava, era stata molte volte, né l’avrebbe mai negato.
Ma aggiunse che, come tutti sapevano, le leggi dovevano essere uguali per tutti e dovevano essere fatte con il consenso di coloro cui riguardavano.
Per quella legge non era avvenuto così, infatti essa puniva solo le donne, meschine, le quali potrebbero soddisfare molti uomini. Inoltre, mai nessuna donna aveva approvato tale legge, né era stata chiamata a farlo. Per quel motivo tale legge era ingiusta e crudele.
Proseguì dicendo che il giudice poteva applicarla con danno del corpo di lei e della propria anima. Ma lo pregava, prima di emettere il giudizio, di chiedere al marito se si era mai rifiutata di concedersi a lui, con tutta sé stessa, ogni volta che glielo aveva chiesto.
Rinaldo, senza aspettare che il podestà glielo chiedesse, rispose che la donna, senza alcun dubbio, gli aveva concesso tutta sé stessa per il suo piacere ogni volta che glielo aveva chiesto.
Allora la donna, prontamente, chiese al podestà “ Se mio marito ogni volta che ne ha avuto bisogno e gli è piaciuto si è preso tutto quello che ha voluto, di quello che è avanzato che cosa io ne avrei dovuto fare? Forse gettarlo ai cani? Non è stato molto meglio offrirlo ad un gentiluomo che amo, invece di lasciarlo perdere o guastare? “.
Tutti i pratesi lì accorsi, udendo la donna, risero e, immediatamente, quasi ad una voce, gridarono che la donna aveva ragione e diceva bene.
Prima di allontanarsi, con il parere favorevole del podestà, modificarono lo statuto crudele e lasciarono che esso si applicasse solo alle donne che tradissero i mariti per denaro.
 In conclusione Rinaldo, molto confuso, si allontanò dal giudizio, mentre la donna ,libera e lieta per aver aver evitato di essere arsa, se ne tornò trionfante a casa sua.







giovedì 13 novembre 2014

SESTA GIORNATA - NOVELLA N.6

SESTA GIORNATA – NOVELLA N. 6


Michele Scalza prova a certi giovani , come i Baronci sono i più nobili uomini del mondo o di Maremma e vince una cena.

Le donne ancora ridevano per la bella e arguta risposta di Giotto, quando la regina ordinò alla Fiammetta di continuare. Ed ella incominciò a parlare dicendo che il fatto che Panfilo avesse ricordato i Baronci, che tutte conoscevano bene, le aveva fatto ricordare una novella che avrebbe dimostrato la loro nobiltà, rimanendo nel tema della giornata.
Non era ancora passato molto tempo da quando era vissuto a Firenze un giovane , chiamato Michele Scalza.
Egli era l’uomo più simpatico e divertente del mondo e aveva sempre novelle insolite e originali da raccontare, perciò i giovani fiorentini, quando erano in comitiva, desideravano averlo con loro.
Un giorno, mentre era a Montughi, con un gruppo di amici, si cominciò a discutere su quali fossero gli uomini più nobili di Firenze e di più antica nobiltà. Alcuni dicevano gli Uberti, altri i Lamberti, e chi uno e chi un altro, come gli diceva la testa.
Udendoli, lo Scalza si mise a ridere, dicendo che erano degli stupidoni, che non sapevano che i geniluomini di più antica nobiltà, non solo di Firenze, ma di tutto il mondo o della Maremma, erano i Baronci, loro vicini di Santa Maria Maggiore.
Quando i giovani sentirono ciò, lo derisero dicendo che conoscevano bene ,come lui, i Baronci, e non li doveva
ingannare. Lo Scalza rispose che non intendeva ingannarli, ma diceva la verità. Aggiunse che se c’era qualcuno che voleva scommettere una cena e pagarla a chi vinceva, con sei compagni scelti dal gruppo, l’avrebbe scommessa volentieri; avrebbe accettato il giudizio di un giudice proposto da loro.
Tra quelli vi era un giovane ,che si chiamava Neri Vannini ,che disse di essere disposto a scommettere per vincere la cena. Si accordarono tutti per avere come giudice Piero di Fiorentino, nella cui casa si trovavano.
Andati da lui, gli raccontarono ogni cosa, desiderosi di veder perdere lo Scalza.
Piero, che era un giovane prudente, udite le parole di Neri, si rivolse allo Scalza e gli chiese come poteva dimostrare le cose che affermava. Prontamente lo Scalza rispose che avrebbe dimostrato quello che affermava in modo da convincere non solo Piero, ma anche colui che lo aveva negato.
Proseguì, poi, dicendo che, come tutti, sapevano, gli uomini più erano antichi , più erano nobili; egli avrebbe dimostrato che i Baronci erano gli uomini più antichi, così avrebbe vinto la disputa.
Tutti sapevano ,infatti, che i Baronci furono fatti da Dominedio al tempo in cui aveva cominciato ad imparare a dipingere, ma tutti gli altri uomini furono fatti quando Dio già sapeva dipingere.
A dimostrazione di ciò che diceva, li invitò a confrontate i Baronci e gli altri uomini.    
Dal confronto risultava evidente che, mentre gli altri uomini avevano visi armoniosi e ben proporzionati, i Baronci avevano visi lunghi e stretti, uno largo oltre misura, uno col naso molto lungo, uno col naso corto, alcuni col mento in fuori e rivolto in su e con le mascelle enormi, che sembravano quelle di un asino. E vi era un tale che aveva un occhio più grosso dell’altro, così come solevano essere i visi che facevano i bambini che imparavano a disegnare.
Perciò, come aveva detto loro, era evidente che Dominedio li aveva fatti quando imparava a dipingere, per questo i Baronci erano i più antichi e i più nobili degli altri uomini.
Tutti si ricordarono dell’aspetto dei Baronci, sia Piero, che era il giudice, sia Neri che tutti gli altri.
Avendo udito il divertente discorso dello Scalza, tutti cominciarono a ridere e affermarono che lo Scalza aveva ragione e aveva vinto la cena.
Infatti era vero che i Baronci erano i più nobili e i più antichi uomini che c’erano, non solo a Firenze ma nel mondo o in Maremma.
Perciò, concluse Fiammetta, aveva avuto ragione Panfilo, quando, volendo mostrare la bruttezza di messer Forese, aveva detto che era più brutto di uno dei Baronci.



giovedì 6 novembre 2014

SESTA GIORNATA - NOVELLA N.5

SESTA GIORNATA  -  NOVELLA N.5

Messer Forese da Rabatta e maestro Giotto , pittore, venendo dal Mugello, l’uno punge motteggiando l’aspetto smunto dell’altro.

Come Neifile tacque ,le donne mostrarono di essersi molto divertite per la risposta di Chichibio.
Subito Panfilo ,per volere della regina, si rivolse alle donne. Disse che spesso come la Fortuna nascondeva grandissimi tesori sotto vili arti, così la Natura nascondeva sotto uomini di aspetto bruttissimo meravigliosi ingegni. Il che si vedeva chiaramente in due cittadini fiorentini dei quali Panfilo voleva parlare.
L’uno si chiamava messer Forese da Rabatta, piccolo e sformato nel corpo, col viso piatto e cagnesco, che sarebbe sembrato orribile anche per uno qualsiasi dei Baronci, ma così esperto nelle leggi che fu ritenuto da molti uomini di cultura un vero pozzo di scienze.
L’altro, di nome Giotto, fu dotato di un ingegno tanto eccellente che sapeva dipingere ogni cosa data dalla natura ,creatrice e madre, con lo stilo o la penna o il pennello del tutto simile, che anzi sembrava proprio quella, tanto che quando gli uomini vedevano le cose dipinte da lui pensavano che fossero vere.
Giotto poteva essere ritenuto, a ragione, una delle luci della gloria fiorentina.
Aveva, infatti, ridato splendore all’arte del dipingere che , per molti secoli, era rimasta sepolta sotto gli errori di alcuni, che dipingevano per dilettare gli occhi degli ignoranti e non l’intelletto dei saggi. Era ancora più meritevole perché ottenne la gloria con grandissima umiltà, sempre rifiutando di essere chiamato maestro. Tale titolo, sebbene rifiutato, risplendeva in lui, mentre era desiderato e ambito da tanti altri che sapevano meno di lui. Ma, sebbene la sua arte fosse grandissima, egli non era nel corpo e nell’aspetto più bello di messer Forese.
Panfilo proseguì dicendo che , avendo messer Forese e Giotto dei possedimenti nel Mugello, messer Forese era andato a vedere i suoi, nel periodo estivo, durante le ferie.
Per caso, mentre andava su un ronzino, incontrò Giotto, il quale, avendo visitato le sue terre, se ne tornava a Firenze. Tutti e due, mal conciati, sia per la cavalcatura che per il resto, come due vecchi se ne andavano insieme, facendosi compagnia.
All’improvviso scoppiò un temporale, per sfuggire alla pioggia, più velocemente che potevano, si rifugiarono nella casa di un contadino loro amico e conoscente.
Dopo un certo tempo, poiché non smetteva di piovere e dovevano essere in giornata a Firenze, fattisi prestare due mantellacci vecchi e due cappelli molto consumati, ché migliori non ve ne erano, cominciarono a camminare. Camminarono per un po’ e si inzupparono tutti di fango per gli schizzi che i ronzini facevano con gli zoccoli, andando nelle pozzanghere; la qual cosa non accrebbe la loro rispettabilità.
Rischiaratosi il tempo, dopo un lungo silenzio, ricominciarono a parlare.
Messer Forese, cavalcando e ascoltando Giotto, che era un ottimo conversatore, cominciò a guardare il maestro dal capo ai piedi, dappertutto. Vedendolo così brutto e malridotto, senza pensare al proprio aspetto, cominciò a ridere e disse “ Giotto, tu pensi che, se, per caso, ci venisse incontro un forestiero che non ti avesse mai visto, crederebbe che tu sei il migliore pittore del mondo, come ,in realtà,  sei?”.
E Giotto, prontamente, gli rispose “Messere, forse che egli, guardando voi, potrebbe credere che sapete l’abicì?”. Udendo ciò messer Forese riconobbe il suo errore e si vide ripagato con la stessa moneta.