mercoledì 31 luglio 2013

PRIMA GIORNATA - NOVELLA N.4

PRIMA GIORNATA – NOVELLA N.4



 Un monaco commise un peccato che meritava una gravissima punizione, evitò la pena, evidenziando che  il suo abate si era macchiato della stessa colpa.


Appena Filomena, raccontata la sua novella tacque, Dioneo, senza aspettare il comando della regina, poiché sapeva che, per l’ordine stabilito, toccava a lui, cominciò a parlare “ Donne piene d’amore ,ognuno di noi deve raccontare la novella che , pensa, possa recare a tutti maggiore piacere.
Ho udito, in precedenza, che Giangiotto di Civignì salvò l’anima ad Abraam e Melchisedech, grazie alla sua intelligenza, salvò le sue ricchezze dagli agguati del Saladino, adesso, senza vostri rimproveri, vi voglio dire come un monaco riuscì ad evitare una gravissima pena”.
E iniziò a raccontare che un tempo , in Lunigiana, in un paese non molto lontano, vi era un monastero, con molti più monaci di quanti ve ne erano in quel periodo. Tra questi, ve ne era uno giovane, il cui vigore fisico e la forza giovanile, né i digiuni , né le veglie potevano attenuare.
Un giorno, per caso, a mezzogiorno, andandosene in giro, mentre tutti gli altri dormivano, in un luogo solitario, vide una giovinetta molto bella, forse figlia di un contadino del posto, che coglieva delle erbette nei campi; appena l’ebbe vista fu assalito dal desiderio carnale.
Avvicinatosi, cominciò a parlarle, e tanto proseguì la cosa, che la condusse nella sua cella, senza che nessuno se ne accorgesse.
Mentre i due erano presi dai giochi d’amore, l’abate, che si era appena svegliato, passò davanti alla  cella ed udì degli schiamazzi. Si avvicinò all’uscio e  comprese, senza ombra di dubbio, che lì dentro c’era una femmina. Tentò di aprire, ma non vi riuscì.
Poi pensò di fare diversamente. Rientrò nella sua camera e aspettò che il monaco uscisse.
Il giovane, preoccupato perché aveva sentito uno stropiccio di piedi nel dormitorio, avvicinò l’occhio ad un piccolo foro e vide chiaramente che l’abate stava ascoltando e ,quindi, sapeva che c’era una donna nella sua cella.
Ben sicuro che ciò  avrebbe determinato una pesante punizione, senza dimostrare alcuna preoccupazione, rapidamente, mise a punto un piano che gli avrebbe potuto procurare la salvezza.
Disse alla donna di starsene tranquilla lì dov’era fino al suo ritorno, perché doveva andare a trovare un modo per farla uscire senza essere vista.
Appena fuori, chiuse la cella con la chiave e si recò nella camera dell’abate, al quale chiese il permesso di andare nel bosco a raccogliere la legna, che non aveva potuto raccogliere al mattino.
L’abate, pensando che il monaco ignorasse di essere stato scoperto, acconsentì volentieri e prese la chiave.
Appena il giovane si fu allontanato, cominciò a pensare che cosa gli conveniva fare : se, in presenza di tutti i monaci, aprire la cella e far vedere la colpa, dando a tutti l’occasione di criticarlo per la punizione inflitta al compagno, inoltre, avrebbero voluto sentire dalla donna, come erano andati i fatti.
Pensando tra sé che il padre della ragazza non avrebbe voluto subire quella vergogna, conosciuta da tutti, decise di vedere chi fosse, prima di intervenire.
Tranquillamente, dunque, si recò dal lei, aprì, entrò e l’uscio si richiuse.
La giovane, vedendo l’abate ,si turbò molto, e, per la vergogna, cominciò a piangere.
Il religioso, vedendola bella e fresca, sebbene fosse vecchio, sentì gli stimoli della carne, non meno del giovane monaco, e tra sé, iniziò a dire “ Perché non godo anch’io di questo piacere, che potrà essere a disposizione per me ogni volta che vorrò, per vincere il dispiacere e la noia? Costei è bella e giovane e nessuno al mondo lo sa. Se la posso convincere a fare il mio piacere, non so perchè non debbo farlo. Non lo saprà mai nessuno e peccato celato è mezzo perdonato. Questa occasione , forse non si presenterà mai più. Ritengo sia molto saggio prendersi il bene, quando il Signore lo manda”.
Avendo cambiato completamente intenzione, si avvicinò alla giovinetta ,confortandola e pregandola di non piangere, e, tra una parola e un’altra, le palesò il suo desiderio.
La giovane che non era di ferro né di diamante, molto facilmente si piegò ai piaceri dell’abate.
Il vecchio, abbracciatala e baciatala più volte, salì sul letto del monaco e, tenuto conto del suo rango e della tenera età della giovane, per non offenderla con il  peso del suo corpo, non salì sul petto di lei, ma pose lei sul suo . Così giocarono per molto tempo.
Il monaco, che non era andato nel bosco, ma si era nascosto nel dormitorio, come vide l’abate entrare da solo nella sua cella e chiudere  a chiave la porta, fu certo di aver raggiunto il suo scopo.
Uscito dal nascondiglio, spiando da un buco, vide ed udì tutto ciò che l’altro fece.
L’abate, dopo che si era trattenuto a lungo con la giovinetta, chiusala nella cella , se ne ritornò nella sua stanza.
Dopo un certo tempo, ritenendo che il monaco fosse ritornato dal bosco, lo fece chiamare, lo rimproverò con viso severo e comandò che fosse incarcerato, in modo da poter possedere da solo la giovinetta.
Allora il monaco, molto prontamente, disse “ Signore, non sono ancora stato nell’ordine di San Benedetto tanto a lungo da aver imparato le particolarità di questa regola. Voi non mi avevate ancora detto che cosa i monaci devono fare con le donne, come invece, mi avevate detto per i digiuni e per le veglie. Ora che me lo avete mostrato, vi prometto, se mi perdonate per questa volta, di non peccare mai più e di fare come ho visto fare a voi”.
L’abate, che era uomo prudente, comprese subito che il giovane non solo sapeva, ma aveva visto tutto.
Provando rimorso, si vergognò di punire il monaco, per una colpa per la quale, egli stesso avrebbe meritato una punizione.
Gli perdonò e gli ordinò il silenzio su ciò che aveva visto.

Senza danno per entrambi, fecero uscire la giovinetta, e, tutto fa credere che, in seguito, la facessero tornare più volte. 

martedì 30 luglio 2013

PRIMA GIORNATA - NOVELLA N.3

PRIMA GIORNATA – NOVELLA N.3


Il giudeo Melchisedech con una novella su tre anelli evita un gran pericolo, preparatogli dal Saladino.


Appena Neifile terminò la sua narrazione, su indicazione della regina, Filomena cominciò a parlare. Ella disse che la novella raccontata da Neifile le aveva riportato alla memoria l’episodio accaduto ad un giudeo, udito il quale, forse sarebbero diventate più prudenti nel rispondere ai quesiti posti da altri.
Iniziò il racconto dicendo che la stupidità, talvolta, gettò l’uomo da una condizione di benessere in grande miseria e ,al contrario, il senno evitò al saggio grandi pericoli e lo pose al sicuro. Ciò si vedeva da molti esempi ed anche quella breve storiella lo avrebbe dimostrato.
Il Saladino che, grazie al suo valore, era diventato il sultano di Babilonia e aveva ottenuto molte vittorie sui saraceni e sui cristiani, aveva speso nella guerre tutto il suo tesoro ed aveva bisogno di molto denaro per un incidente capitatogli. Non avendo come procurarsi così rapidamente il denaro che gli serviva, si ricordò di un ricco giudeo , di nome Melchisedech, che prestava denaro ad usura in Alessandria. Pensò di avere da lui il denaro, ma il giudeo era tanto avaro che non lo avrebbe mai, spontaneamente, accontentato.
Costretto dal bisogno cercò una giustificazione che avesse parvenza di legalità.
Fatto chiamare l’usuraio, lo ricevette familiarmente vicino e gli chiese “Valente uomo, ho saputo da molti che sei saggio ed esperto nelle cose di Dio, per questo vorrei sapere da te, delle tre leggi, la giudaica, la saracena e la cristiana, quale reputi la più vera?”.
Il giudeo, da saggio qual’era, capì subito che il Saladino voleva metterlo in difficoltà e pensò di non poter lodare nessuna delle tre religioni, senza favorire l’intento dell’altro.
Aguzzo, dunque, l’ingegno e, subito, gli venne in mente la risposta che doveva dare e disse “ Signor mio, la questione che mi ponete è bella e vi risponderò con una favoletta.
Ricordo di aver udito molte volte che, nei tempi passati, vi fu un uomo molto ricco che tra i suoi tesori aveva un anello bellissimo e prezioso, che voleva lasciare in eredità ai suoi discendenti.
Nascose, dunque, l’anello e stabilì che il figlio che l’avesse ritrovato sarebbe divenuto il suo erede, onorato e riverito come fratello maggiore.
Colui che ereditò l’anello fece la stessa cosa con i suoi discendenti e così l’anello passò, di mano in mano, a molti successori. Infine, giunse nelle mani di un uomo che aveva tre figli belli, virtuosi e obbedienti, che amava in egual misura.
 I giovani sapevano della consuetudine dell’anello e, ciascuno per sé, come meglio sapeva, pregava il padre affinchè, dopo la morte, gli lasciasse l’anello.
Il padre, che amava parimenti i tre figli, non sapeva decidere a chi lasciare il gioiello. Allora, avendolo promesso a tutti, pensò di voler accontentare tutti e tre.
Di nascosto, da un buon orafo, fece fare altri due anelli, tutti somiglianti al primo ed egli stesso a stento riconosceva quale era quello vero.
Sul punto di morte, in segrato, diede a ciascuno dei figli il suo anello.
Dopo la sua morte ciascun figlio, per ottenere l’eredità e gli onori del padre, mostrò il suo anello.
Non si potè riconoscere quale era l’originale, poiché gli anelli erano del tutto simili.
Rimase, pertanto, irrisolta la questione su chi fosse il vero erede del padre; ed ancora oggi non è stata risolta.
Signor mio, vi dico che delle tre leggi date da Dio ai tre popoli, sulle quali mi poneste la domanda, ognuna crede, giustamente, che la sua regola e i suoi comandamenti siano i più giusti, ma come per gli anelli, la questione è ancora irrisolta”.
Il Saladino riconobbe che costui aveva saputo uscire abilmente dal tranello che gli aveva teso e, perciò, gli espose con franchezza le sue necessità, per vedere se poteva aiutarlo, con la stessa saggezza che aveva dimostrato nella risposta.
Il giudeo ,spontaneamente, dette al sovrano tutto il denaro che gli fu chiesto.
Il Saladino ,poi, gli restituì tutto il dovuto, gli fece grandissimi doni, lo considerò sempre suo amico e lo tenne presso di sè con grandi onori.

lunedì 29 luglio 2013

PRIMA GIORNATA - NOVELLA N.2

PRIMA GIORNATA – NOVELLA N.2


Il giudeo Abraam, spinto da Giangiotto di Civignì, va in Vaticano a Roma, e, vista la malvagità dei chierici, torna a Parigi e si converte al cristianesimo.


La novella di Panfilo, commentata dalle donne, fece ridere tutti.
La regina comandò, poi, a Neifile, che, seguendo l’ordine, proseguisse con il secondo racconto.
Neifile, anche lei bella e cortese, sorridendo, cominciò “ Panfilo vi ha mostrato come la bontà di Dio non guarda ai nostri errori, se essi non sono dovuti a nostre colpe. Io voglio dimostrarvi quanto questa stessa bontà sopporti pazientemente i difetti degli uomini , che dovrebbero dare prova di bontà con le loro opere ed ,invece, fanno il contrario”.
 Ella aggiunse che già da qualche tempo , aveva sentito dire che a Parigi viveva un mercante chiamato Giangiotto di Civignì, gran brav’uomo, esperto di tessuti e di drappi. Egli era molto amico di un ricchissimo giudeo, chiamato Abraam, il quale era, anche lui, uomo onesto e leale.
Giangiotto, vedendo l’onestà e la lealtà del giudeo, pensò che si potesse dannare per difetto di fede. Per questo, amichevolmente, lo cominciò a pregare affinchè lasciasse la fede giudaica e ritornasse alla verità cristiana che il mercante vedeva crescere, perché buona e santa, mentre l’altra diminuiva sempre più.
Il giudeo, convinto e fedele alla sua religione, diceva che non vi era alcuna fede più giusta e più santa di quella giudaica, nella quale era nato e nella quale voleva vivere e morire.
Il cristiano, dopo pochi giorni, ritornò alla carica e ,piano piano, le considerazioni che egli faceva sulla religione, o messe sulla sua bocca dallo Spirito Santo, o per amicizia, cominciarono a piacere molto all’uomo  che ,comunque, rimaneva nelle sue convinzioni .
Alla fine, dopo un lungo tergiversare, il giudeo, vinto dalle continue insistenze dell’amico, disse “ Ecco, Giangiotto, sono disposto a diventare cristiano, come tu vuoi, ma ,prima ,voglio andare a Roma per vedere il Papa , vicario di Dio sulla terra, e anche i suoi fratelli cardinali. Solo se quelli mi sembreranno tali da farmi ritenere che la vostra fede sia migliore della mia, come tu hai cercato di dimostrarmi, io mi convertirò al cristianesimo, altrimenti rimarrò giudeo”.
Questa cosa rattristò molto Giangiotto che, tra sé e sé, disse “ Ho perduta tutta la fatica, perché ,quando costui si recherà a Roma e vedrà la vita corrotta e scellerata che fanno i religiosi, non diventerà sicuramente cristiano, anzi ,se prima era cristiano, ritornerà giudeo”. Nel tentativo di dissuaderlo, disse ad Abraam “Amico mio, perché vuoi fare questa grande spesa, per andare da qui a Roma ? E viaggiare per terra e per mare, quando puoi ricevere qui il battesimo ? Anche qui ci sono maestri della fede e uomini savi che potranno chiarire tutti i tuoi dubbi. Questo tuo viaggio, a parer mio, è inutile . Questa grande fatica potrai farla un’altra volta, come pellegrinaggio, per chiedere l’indulgenza ed, allora, ti accompagnerò anch’io”.
Ma Abraam era veramente deciso e a nulla valsero le parole dell’amico, che si dovette rassegnare alla partenza e gli augurò buon viaggio.
Il giudeo montò a cavallo e, il più velocemente che potè, arrivò alla corte di Roma, dove fu ricevuto onorevolmente dagli altri giudei, ai quali rivelò il motivo del suo viaggio.
Poi, cautamente, cominciò a guardare a come si comportavano il Papa, i cardinali e tutti gli altri prelati e cortigiani. Attento com’era, si accorse personalmente e ricevette informazioni da altri, che, dal religioso più importante a quello che lo era meno, tutti commettevano il peccato di lussuria, non solo quella naturale, ma, ancor peggio, quella sodomitica, senza freno né vergogna, sottostando ai ricatti delle meretrici e dei giovinetti. Oltre a ciò, erano tutti golosi, bevitori, ubriaconi, servendo più al ventre che allo spirito, come gli animali. E guardando più avanti, li vide tutti avari e avidi di danaro, per questo vendevano e compravano le cose sacre, facendone un  commercio molto maggiore di quello delle stoffe e delle altre cose che il mercante faceva a Parigi.
Essi denominavano “ procureria” la manifesta simonia e “sostentazione” la golosità, come se Dio ,conoscendo le cose umane, si potesse lasciare ingannare dalle parole.
Il giudeo, molto dispiaciuto, ritenendo di aver visto abbastanza, decise di ritornare a Parigi .
Giangiotto, sapendo che l’amico era ritornato, non sperando assolutamente che si facesse cristiano, si recò a trovarlo e fecero gran festa insieme.
Dopo alcuni giorni, gli domandò che ne pensava del Santo padre, dei Cardinali e degli altri cortigiani.
E quello ,prontamente, rispose “ Mi sembra che Dio debba punire tutti quanti. Ti dico così perché mi parve di vedere che lì non vi era nessuna santità o opera buona o esempio di vita da parte di alcun religioso, ma lussuria, avarizia e golosità, frode, invidia e superbia e cose peggiori, se peggiori ve ne possono essere in alcuno.
Ho visto Roma come fucina di diaboliche operazioni ,piuttosto che di opere divine . Per come stimo io, con ogni arte e iniziativa il vostro pastore e tutti gli altri si impegnano a cacciare dal mondo la fede cristiana, mentre dovrebbero diffonderla e sostenerla. E , personalmente, penso che  non debba accadere quello che loro stanno facendo, ma ritengo che la vostra religione debba aumentare e farsi più pura e più chiara. Lo Spirito Santo deve esserne il sostegno e il fondamento, perché è la più vera e la più santa di tutte le altre. Dunque, io ,che ero rigido e duro nei tuoi confronti e non mi volevo fare cristiano, ora ti dico che nessuna cosa al mondo potrà impedirmi di diventare cristiano. Andiamo ,perciò, in chiesa, per battezzarmi secondo la vostra fede”.
Giangiotto ,che si aspettava una conclusione contraria, fu l’uomo più felice del mondo, e, insieme all’amico, si recò nella chiesa di Notre dame, a Parigi, e chiese ai sacerdoti di battezzare Abraam.
 Subito furono accontentati . Con il battesimo ad Abraam fu dato il nome di Giovanni e suo padrino fu Giangiotto.
Ricevuti tutti gli insegnamenti della fede cristiana, Abraam fu uomo buono e santo per il resto della vita.

domenica 28 luglio 2013

PRIMA GIORNATA - NOVELLA N.1

Comincia la prima giornata del Decameron, nella quale, dopo la motivazione data dall’autore del perché quelle persone, che si mostrano in seguito ,si siano riunite per ragionare insieme, essendo regina Pampinea, si narra di quello che più piace a ciascuno.




PRIMA GIORNATA- NOVELLA N.1


Ser Cepparello, con una falsa confessione ,inganna un santo frate e muore; sebbene sia stato un pessimo uomo in vita, da morto viene ritenuto santo e chiamato san Ciappelletto.


Panfilo iniziò il suo racconto dicendo che si sapeva bene che tutte le cose terrene erano transitorie e mortali e arrecavano fatica, angoscia e pericoli, dai quali non ci si poteva riparare senza l’aiuto di Dio. L’aiuto veniva dato da Dio ,non per merito degli uomini ,ma per sua benevolenza, ottenuta grazie alle preghiere e all’intercessione di coloro che erano morti ed erano diventati beati, seguendo nella vita terrena i suoi comandamenti. A costoro gli uomini rivolgevano le loro preghiere , non avendo il coraggio di rivolgersi direttamente a Dio. Avveniva, talvolta, che, ingannati dall’opinione popolare, ci si rivolgesse a qualcuno che era stato scacciato da Dio in eterno esilio. Nonostante ciò, il Signore aiutava lo stesso colui che pregava, guardando più alla purezza di chi pregava, che a quella di colui che intercedeva.
Il che si poteva vedere chiaramente nella novella che egli si accingeva a raccontare.
Si raccontava che il ricchissimo mercante e usuraio Musciatto Franzesi, divenuto in Francia cavaliere, grazie a traffici poco chiari con la corte del re di Francia Filippo il Bello, fu chiamato da papa Bonifacio VIII, per il conferimento di una onorificenza. Egli doveva venire in Toscana con Carlo Senzaterra, fratello di Filippo il Bello, per questo affidò a diverse persone la liquidazione dei suoi affari in Francia.
Gli rimase solo il dubbio su chi scegliere per la riscossione dei suoi crediti in Borgogna. Essendo i borgognoni uomini litigiosi e sleali, non riusciva a trovare un uomo tanto malvagio che potesse opporre alla loro malvagità.
Dopo lungo pensare, gli venne in mente ser Cepparello da Prato ,che spesso si rifugiava nella sua casa di Parigi.
I francesi, poiché costui era piccolo e molto ricercato( manieroso) e affettato , da Cepparello, che significava “cappello”,”ghirlanda” lo chiamarono non “Ciappello” ma “ Ciappelletto” e con questo nome era conosciuto da tutti.
Ciappelletto viveva così. Era notaio e provava grandissima vergogna se non faceva atti notarili falsi, facendosi pagare moltissimo. Diceva , con grande piacere, testimonianze false, richiesto e non richiesto, e, dandosi grande fiducia in quei tempi, ai giuramenti, egli vinceva moltissime cause, giurando spudoratamente il falso.
Provava straordinario piacere a provocare inimicizie e scandali tra amici e parenti e qualunque altra persona, provandone maggiore allegria, quanto più grande era il danno. Invitato a partecipare ad un omicidio o ad un altro misfatto, volentieri correva e, a volte, ferì o uccise con le proprie mani. Bestemmiava molto Dio e i Santi e si adirava per ogni piccola cosa. Non andava in chiesa e riteneva cosa vile i Sacramenti, deridendoli con parole volgari; al contrario, frequentava le taverne e i luoghi malfamati. Amava le donne come i cani amano i bastoni. Avrebbe imbrogliato e rubato con una coscienza che avrebbe offeso ogni uomo timorato di Dio.
Era golosissimo e gran bevitore, baro, giocatore di dadi truccati; senza dire altro, era il peggior uomo che fosse mai nato.
Un tale soggetto fu protetto, nelle sue malefatte ,da messer Musciatto.
Messer Musciatto Franzesi, che conosceva bene la vita di ser Ciappelletto/Ciapparello, pensò che fosse l’uomo giusto per la malvagità dei borgognoni. Perciò, fattolo chiamare ,gli disse “ Ser Ciappelletto, come sai, devo allontanarmi da qui e, dovendo riscuotere dei crediti dai borgognoni, che sono uomini pieni d’inganni, ho pensato di affidare tale incarico a te. Se lo assolverai bene ,ti farò avere il favore della Corte e ti donerò una parte  proporzionata a ciò che riscuoterai”.
Ser Ciappelletto che era ,al momento disoccupato e in cattive acque, subito accettò.
Ricevuta la procura e le lettere favorevoli del re, si recò in Borgogna, dove nessuno lo conosceva, dopo la partenza di Musciatto. Lì si comportò benignamente e con mansuetudine ,senza adirarsi nello svolgere il suo compito.
Mentre faceva queste cose ed era ospitato ,per rispetto a messer Musciatto, in casa di due fratelli fiorentini, che prestavano denaro ad usura, si ammalò.
I due fratelli subito chiamarono un medico e lo assistettero come meglio potevano. Ma ogni aiuto era inutile, perché l’esattore era già vecchio ed aveva vissuto disordinatamente ; i medici dicevano che peggiorava di giorno in giorno perché aveva il male della morte.

 I due fratelli se ne addoloravano molto e ,un giorno, vicino alla camera in cui ser Ciappelletto giaceva infermo, cominciarono a discutere tra loro.
Essi dicevano “Che faremo di costui? Mandarlo fuori casa così gravemente ammalato, in procinto di morire, ci procurerebbe grande biasimo e critiche da parte della gente che l’ha visto ricevere da noi, prima, un’ottima accoglienza. D’altra parte è stato un pessimo uomo, per cui non si vorrà confessare, né vorrà prendere alcun sacramento dalla chiesa. Morendo senza confessione ,nessuna chiesa accoglierà il suo corpo che sarà gettato come quello di un cane. Seppure, poi, vorrà confessarsi, i suoi peccati sono così orribili che nessun prete o frate lo potrà assolvere e, poiché non assolto, sarà gettato nei fossi. Il popolo di Borgogna, conoscendo il nostro mestiere di usurai, che appare molto iniquo, per la volontà di non pagarci, vedendo ciò, comincerà a gridare contro i Lombardi che non sono stati accolti nella chiesa. Poi correrà alle nostre case, ruberà i nostri averi e ci ucciderà. Per cui, comunque vada, siamo nei pasticci ,se costui muore”.    
Ser Ciappelletto, che giaceva nella stanza accanto, udì quello che dicevano, avendo l’udito fine, per cui li fece chiamare e disse loro “ Non voglio che possiate avere alcun danno per colpa mia. Ho udito ciò che temevate, ma le cose non andranno così. Ho fatto tante offese a Dio nella mia vita che una in più per la mia morte non farà né più ,né meno. Per questo fate venire un frate santo e lasciate fare a me ; sistemerò  così bene le cose che potrete essere contenti”.
I due fratelli, senza troppo fiducia, andarono in convento e chiesero di un frate che udisse la confessione di un  lombardo, che era infermo a casa loro. Fu mandato un frate molto venerabile, esperto nelle Sacre Scritture, che tutti i cittadini stimavano.
Il frate, giunto nella camera dove ser Ciappelletto giaceva, si pose a sedere al lato e gli domandò da quanto tempo non si confessava.
Ser Ciappelletto, che non si era mai confessato in vita sua, rispose “ Padre mio , è mia abitudine confessarmi almeno una volta alla settimana, alcune settimane anche di più, però, da quando mi sono ammalato, sono otto giorni che, con mio sommo dispiacere, non mi confesso “.
Dietro le insistenze dell’infermo, che ben disposero la sua mente, il sant’uomo iniziò la confessione, e cominciò col chiedere se avesse mai peccato di lussuria con alcuna donna.
Il malato, sospirando ,rispose che era vergine ,come uscì dal corpo della madre.
Il frate lo lodò perchè egli aveva evitato il peccato di lussuria, anche se era libero di amare, a differenza dei religiosi che si abbandonavano alla lussuria, anche se ciò era vietato dalle regole della religione.
Domandò, poi, se aveva commesso il peccato della gola, al che l’interrogato rispose che si e molte volte e ,per punirsi, oltre ai digiuni della quaresima, ogni settimana, almeno per tre giorni, aveva l’abitudine di digiunare a pane ed acqua. Provava grande soddisfazione soprattutto nel bere ,come facevano i grandi bevitori di vino dopo la fatica di un lungo pellegrinaggio.
Il confessore rispose “Figlio mio ,questi sono peccati naturali e leggieri, ad ogni uomo sembra buono il mangiare dopo un lungo digiuno e il bere dopo la fatica .
Ma dimmi se hai peccato in avarizia, desiderando più del giusto o tenendo più di quello che dovresti? “.
E ser Ciappelletto rispose “ Padre mio, non sospettate di me, perché sono in casa di questi usurai. Io non ci ho niente a che fare, anzi sono venuto per convincerli a lasciare questo abominevole guadagno e credo che ci sarei riuscito se Dio non mi avesse mandato questo malanno. Dovete sapere che mio padre, alla sua morte, mi lasciò ricco ed io diedi la maggior parte in elemosine, e poi, per continuare a vivere dignitosamente e per aiutare i poveri, ho avviato piccoli commerci. Quello che ho guadagnato, comunque, l’ho sempre diviso a metà con i poveri, cosa che è stata gradita a Dio, che ha fatto crescere i miei guadagni “.
Il frate chiese, ancora, al malato se si era ,talvolta ,adirato.
E Ciappelletto rispose che sì ,si adirava spesso quando vedeva i giovani inseguire le vanità e bestemmiare e andare per taverne, non frequentare le chiese e non seguire la via del Signore. Il sant’uomo rispose che quella era un’ira giusta, ma era sbagliata se lo aveva portato all’omicidio e alla violenza. Il vecchio negò con convinzione.
Il frate gli diede la benedizione e gli chiese se aveva mai reso falsa testimonianza o aveva parlato male di qualcuno o aveva rubato. E l’interrogato rispose che solo una volta aveva parlato male , con i parenti, di un uomo che picchiava la moglie, quando aveva bevuto troppo. Ancora il confessore gli domandò se , essendo mercante, aveva mai ingannato qualcuno. E Ciappelletto rispose che solo una volta aveva ingannato un uomo che non conosceva. Costui gli recò i denari per pagare una stoffa che gli aveva venduto. Il mercante mise i denari in cassa, senza contarli, solo dopo un mese si accorse che vi erano quattro spiccioli in più del dovuto, aspettò un anno per restituirli, poi li diede in elemosina.
Il frate gli domandò ancora molte altre cose ed il malato si rammaricò di aver ordinato ,una volta, ad un domestico di spazzare di sabato, a notte inoltrata, quando già era iniziata la domenica, che, per questo, non era stata onorata come Dio voleva. Confessò, poi, di aver, inavvertitamente, sputato in chiesa una volta.
Il sant’uomo ,sorridendo, rispose che anche i religiosi vi sputavano tutto il giorno.
Ed infine, come ultima colpa, confessò, con grande pentimento, di aver bestemmiato, quando era piccolino, la mamma sua e, detto ciò, cominciò a piangere forte. Il confessore disse “ Figlio mio, questo non è poi un gran peccato, gli uomini ,tutto il giorno, bestemmiano Dio, ma Dio volentieri perdona chi si pente, tanto grande è la sua misericordia. Se tu fossi stato tra coloro che lo crocifissero e avessi dimostrato un pentimento così grande ,come stai facendo ora, il Signore, sicuramente, ti avrebbe perdonato”.
Il religioso gli dette l’assoluzione e la benedizione, ritenendolo uomo santissimo, credendo a tutto ciò che l’infermo gli aveva detto. E chi non ci avrebbe creduto, udendo un uomo dire così in punto di morte?
Gli chiese, poi, se, in caso di morte ,voleva essere sepolto in Borgogna.
E il moribondo rispose “ Ebbene si, voglio essere sepolto qui, dopo che mi avete promesso di pregare Dio per me. Anzi, quando ritornate al convento, disponete di portare da me il Corpo di Cristo per l’estrema unzione, affinchè ,io che sono vissuto come un peccatore, muoia come un cristiano”.
Il frate, commosso, fece come gli era stato richiesto.
I due fratelli, che ascoltavano di nascosto, quasi scoppiavano dalle risate e dicevano “ Che razza di uomo è costui che non teme neanche il giudizio di Dio, al cui cospetto si troverà tra poco, timore che non lo ha indotto a rimuovere la sua malvagità ? ”
Ma, vedendo che tutto quello che aveva detto gli aveva procurato la sepoltura in chiesa, non si preoccuparono d’altro.
Ser Ciappelletto ,dopo poco, si comunicò e ricevette l’estrema unzione.
I due fratelli chiamarono i frati perché andassero a fare la veglia notturna e predisponessero per la sepoltura.
Il frate che lo aveva confessato arrivò insieme al priore e, ritenendo il morto un santo uomo, convinse il suo superiore a seppellire quel corpo con grande riverenza e devozione.
Il priore e gli altri frati creduli, predisposero una grande veglia e un corteo funebre molto solenne, indossando i paramenti religiosi, con al seguito quasi tutto il popolo. Poi il frate iniziò l’elogio funebre raccontando della vita, della verginità e di tutte le cose straordinarie che il mercante gli aveva raccontato in punto di morte.
Ed, infine, si rivolse ai fedeli che lo ascoltavano ,dicendo “ E voi, maledetti da Dio, che per ogni sciocchezza bestemmiate Dio, la Madonna e tutta la Corte del Paradiso”.
Tutti i fedeli fiduciosi, dopo la celebrazione, presi da una grande devozione, si accalcarono intorno al feretro, per baciargli i piedi e le mani. Gli stracciarono i panni di dosso per conservarne almeno un pezzetto, come reliquia. Si decise, allora, di tenerlo esposto per tutto il giorno, affinchè tutti potessero vederlo.
Poi, sopraggiungendo la notte, fu seppellito in una cappella di marmo.
Il giorno seguente cominciarono ad arrivare le genti per adorarlo, per fare voti, per ottenere una grazia.
E tanto crebbe la fama della sua santità, che la maggior parte degli abitanti della Borgogna fece voti a lui e lo chiamò San Ciappelletto.
Così visse e morì Ser Ciappelletto da Prato e divenne santo, come avete udito.
Panfilo concluse la narrazione dicendo “ Non voglio negare che Dio, nella sua infinita misericordia, abbia potuto riceverlo nel suo regno, ma ritengo che egli dovrebbe essere dannato nelle mani del diavolo, piuttosto che in Paradiso. Ma il Signore, conoscendo la buona fede degli uomini, spero che abbia esaudito le preghiere dei borgognoni a lui rivolte, attraverso quell’uomo falso e bugiardo. Anche noi, che siamo sani e salvi in questa lieta compagnia, ci raccomanderemo a Dio, sicuri di essere ascoltati “.

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venerdì 26 luglio 2013

INTRODUZIONE ALL'OPERA

INTRODUZIONE


Tutte le volte che, graziosissime donne, penso a quanto voi siate, per natura, pietose, capisco che questa opera sarà, a vostro giudizio, pesante e noiosa, così come il doloroso ricordo della passata pestilenza, che tutti quelli che la vissero portano impressa nella memoria.
Non voglio ,perciò, che vi spaventi quello che leggerete più avanti, tanto da continuare a leggere tra sospiri e lacrime.
Questo orrido inizio sia per voi come per i viaggiatori che devono superare una montagna dura e ripida, nella quale si trovi una bellissima pianura, che sembra tanto più gradevole quanto più faticosa è stata la salita. E così, come il dolore segue l’allegria, così la letizia succede alle miserie.
A questo breve disagio seguirà ,poi, la dolcezza e il piacere che vi ho promesso.
In verità, se avessi potuto condurvi per un sentiero meno aspro di questo, lo avrei fatto volentieri, ma sono stato costretto a scrivere molte cose ,per spiegare perché esse avvenissero.
Dico, dunque, che si era giunti all’anno 1348 dalla nascita di Cristo, quando nella città di Firenze e nelle altre bellissime città d’Italia, giunse la terribile pestilenza, la quale ,per opera degli astri celesti o per la giusta ira di Dio, a causa delle nostre opere inique, fu mandata come punizione sui mortali.
Incominciata alcuni anni prima in Oriente, provocando la morte di innumerevoli esseri viventi, senza fermarsi, si spostò, ampliandosi, verso Occidente.
A nulla valsero la prudenza e i provvedimenti presi per motivi sanitari ,in base ai quali fu pulita dalle immondizie tutta la città ,ad opera di ufficiali all’uopo comandati, né il divieto per gli ammalati di entrare in città. A nulla valsero le preghiere rivolte a Dio da persone devote, né le processioni.
All’inizio della primavera la pestilenza cominciò a dimostrare i suoi terribili effetti.
Essa, mentre in Oriente si era manifestata con fuoriuscita di sangue dal naso, che portava irrimendiabilmente alla morte, in Occidente si manifestò diversamente.
Inizialmente, sia ai maschi che alle femmine, comparivano dei rigonfiamenti all’inquine e sotto le ascelle, alcuni crescevano come una comune mela, altri come un uovo, essi venivano chiamati “gavoccioli”.
In breve tempo questi gavoccioli mortiferi si diffondevano in tutte le parti del corpo, successivamente sopravvenivano macchie nere o livide ,alcune più grandi, altre più piccole.
Esse, come i gavoccioli, erano indizio di sicura morte.
Per queste infermità non valeva nessun consiglio di medico e nessuna medicina, sebbene il numero dei medici fosse grandissimo.
Solo pochissimi guarivano, anzi, quasi tutti al terzo giorno dalla comparsa di questi segni, con o senza febbre, morivano.
La peste passava dagli infermi ai sani ,come fa il fuoco con le cose secche o unte, che gli sono vicine.
Il contagio si diffondeva non solo se si parlava o si stava vicino agli infermi, ma anche se si toccavano i panni o qualsiasi cosa che era stata da loro usata.
 E devo dire un’altra cosa straordinaria di questa pestilenza, il fatto che essa attaccava non solo gli uomini tra loro, ma passava anche dagli uomini agli animali e li uccideva in brevissimo tempo.
Vidi con i miei occhi che, essendo stati gettati in mezzo alla strada gli stracci di un pover’uomo morto di tale infermità, due porci ,prima col muso e poi con i denti ,li afferrarono e vi si avvolsero. Dopo appena un’ora i porci caddero a terra morti.
Così i vivi pensarono bene di schifare e fuggire gli infermi e le loro cose, sperando, in tal modo, di acquistare salute.
Alcuni ritenevano che vivere con moderazione, senza cose superflue, li avrebbe protetti dalla peste e, costituita una brigata, vivevano isolati nelle case in cui non c’era alcun infermo, mangiando cibi delicatissimi, bevendo vini leggeri e profumati, evitando ogni lussuria e non parlando né di morti ,né di infermi.
 Altri, di opinione contraria, preferivano bere molto e godere, mangiare smodatamente, beffandosi di ogni cura e medicina, andando in giro per taverne, facendo solo ciò che arrecasse loro piacere, e, ritenendo di non dover più vivere a lungo, abbandonavano  le loro case. Per questo molte case erano state abbandonate ed occupate da estranei, a volte anche ammalati.
In tanta miseria, nella città le leggi non avevano più autorità perché i ministri o gli esecutori di esse o erano morti o giacevano infermi, per cui non potevano attendere ai propri doveri. Per questo tutti facevano quello che volevano, senza alcun rispetto delle leggi.
Altri , ancora, seguivano una via di mezzo tra i due estremi.
Bevevano e mangiavano moderatamente, usavano le cose, senza rinchiudersi, andavano in giro portando nelle mani fiori e spezie odorose ,avvicinandole continuamente al naso, per vincere il puzzo dei morti, dei malati e delle medicine.
Altri, ancora, ritenevano che la cosa migliore fosse abbandonare la propria città ed andare nel contado, in periferia, pensando che la pestilenza colpisse solo chi abitava in città.
Ormai ogni cittadino evitava l’altro non avendo cura dei parenti, sia gli uomini che le donne. Un fratello abbandonava l’altro e spesso la donna abbandonava il marito, e i padri e le madri, cosa terribile, abbandonavano i figli, quasi come se non fossero propri, e si rifiutavano di accudirli. Perciò quelli che si ammalavano non avevano alcun aiuto, se non la carità degli amici, in verità molto pochi, e l’avidità dei servitori.
Essi non facevano altro che porgere agli ammalati alcune cose da loro richieste o guardare quando morivano, e, anche così, spesso perdevano sé stessi insieme con il guadagno ,perché morivano per il contagio.
Per l’abbandono da parte dei parenti e degli amici, si diffuse un uso mai udito, per cui una donna, anche se leggiadra e bella, se si ammalava, prendeva a suo servizio un uomo a cui si affidava per tutte le cure e le incombenze, anche le più intime, che la sua malattia richiedeva, il che, in quelle che sopravvissero, fu causa di una minore onestà.
E poiché morirono tantissime persone, quelle che sopravvissero, fecero cose contrarie agli onesti costumi di prima.
Era usanza che le donne parenti o vicine di casa del morto si riunissero e piangessero, così pure i vicini e gli amici si radunassero davanti alla casa e poi veniva il clero che portava il morto nella Chiesa che egli aveva, precedentemente, indicato.
Man mano che la pestilenza divenne più feroce, queste usanze cambiarono.
Molti morivano da soli, senza alcun conforto o pianto dei congiunti e non potevano essere trasportati nella chiesa che avevano scelto. Venivano, invece, prelevati da persone prezzolate che venivano chiamate  “beccamorti” o “becchini”, di umile origine, che messili nella bara, li portavano nella chiesa più vicina ,dove c’erano pochi chierici che ,rapidamente, senza lunghi e solenni offici, con l’aiuto dei becchini, li seppellivano in qualche sepoltura ancora vuota.
La gente umile stava ancora peggio, perché non aveva potuto lasciare la propria casa, abitata da molte persone, dove il contagio si diffondeva molto più rapidamente, non aveva alcun aiuto e tutti morivano.
I vicini, temendo per sé, gettavano i corpi dei morti o degli infermi nella strada.
I vicini, da soli o con l’aiuto di alcuni portatori, tiravano fuori i morti, li ponevano davanti agli usci e facevano venire le bare. Ben presto le bare furono insufficienti. Allora misero molti cadaveri in una sola bara.
I preti, nel seppellirli ,sotto una sola croce misero sei o otto morti, senza che essi fossero onorati da alcuna lacrima, lume o compagnia.
I morti venivano trattati come capre.
Man mano che la moltitudine dei cadaveri aumentava, non fu possibile seppellirli in terra sacra, nelle chiese, secondo l’antica consuetudine, si scavarono, allora , delle grandissime fosse comuni dove si misero ,a centinaia, i morti , fino a quando ogni fossa non veniva riempita, poi si ricopriva con poca terra.
Anche nella periferia della città le cose non andarono meglio, anche lì i poveri ,con le loro famiglie, morivano come bestie, abbandonando i sani costumi antichi e i loro animali , buoi, asini, pecore, capre, porci, polli e cani, fedelissimi agli uomini.
Gli animali andavano in giro per la campagna, nutrendosi a sazietà ,senza controllo, e, a sera, ritornavano a casa spontaneamente.
Dunque, ritornando alla città di Firenze, si può dire che ,tra il marzo e il luglio del 1348, morirono più di centomila creature umane.
Ahimè, quanti palazzi e belle case, in precedenza pieni di nobili famiglie, rimasero vuoti.
In poco tempo la città divenne quasi vuota.
Un martedì mattina, come mi fu raccontato da una persona degna di fiducia, nella Chiesa di Santa Maria Novella, non essendovi quasi nessun altro, si ritrovarono sette donne, delle quali nessuna aveva superato i ventotto anni e nessuna era minore di diciotto, unite da amicizia o da parentela, di sangue nobile ,molto belle ed oneste.
Non posso dire i loro nomi perché le cose da loro raccontate, essendo oggi le leggi sulla morale molto ristrette, potrebbero arrecare loro critiche da parte degli invidiosi e diminuire la loro onestà.
Però, perchè si possa comprendere chi racconterà le novelle nei vari giorni, darò loro un nome fittizio.
Chiamerò la prima Pampinea, che è la più grande di età, la seconda Fiammetta, la terza Filomena, la quarta Emilia, la quinta Lauretta, la sesta Neifile , la settima , a ragione, Elissa ( le fanciulle sono sette come i giorni della settimana, come i pianeti, come le virtù teologali e cardinali, come le Arti Liberali. Sono le nuove Muse ,
ispiratrici di poesia).
Le sette fanciulle, portate lì dal caso, dopo aver pregato a lungo, cominciarono a ragionare.
Iniziò a parlare Pampinea “ Donne mie care” disse “ non si fa offesa a nessuno se si usa la ragione nel prendere i rimedi che noi possiamo per conservare la nostra vita.
Ogni volta che penso al nostro modo di comportarci stamattina, ai nostri sentimenti e al fatto che non facciamo altro che udire nomi di chi è morto o di chi sta per morire e pensare ai parenti che soffrono ,e dobbiamo ritornare nelle nostre case, dove mi sembra di vedere solo ombre di trapassati, sto male .
Vedo, ben chiara, l’inutilità di continuare a star qui, a piangere i morti e a correre il rischio di morire noi stesse per contagio.
Invece, penso che sarebbe opportuno che uscissimo dalla città e ce ne andassimo a stare in campagna (contado), dove prendessimo l’allegria e il piacere possibile, senza superare il buon senso.
In campagna si odono gli uccelli cantare, si vedono le verdi colline e le pianure e i campi di biada ondeggiare come il mare e alberi di vario genere e il cielo aperto, paesaggio molto più bello a guardare delle mura vuote della nostra città.
In campagna c’è un’aria più fresca e muoiono meno persone che in città, perché ci sono meno case e meno abitanti.
Noi non lasciamo nessuno, perché i nostri sono tutti morti, non arrechiamo dolore e noia a nessuno.
Perciò, quando vi sembrerà opportuno, credo che sia ben fatto prendere le nostre cose, le nostre fantesche e spostarci oggi in un luogo, domani in un altro, dove possiamo trovare allegria e festa, prendendo quello che questo tempo lugubre può offrire, prima che sopraggiunga la morte”.
Le altre donne lodarono e approvarono subito il consiglio di Pampinea e, desiderose di attuarlo, si misero a discutere.
Ma Filomena, molto prudente, disse “ Donne , ricordatevi che siamo tutte femmine e le femmine, senza l’aiuto e il consiglio di un uomo, non sanno regolarsi. Siamo volubili, litigiose, sospettose, paurose, per cui temo che, se non ci procuriamo altra guida che la nostra, la nostra compagnia si scioglierà presto, per questo  è opportuno attrezzarci ,prima di cominciare”.
Elissa, allora, disse “Veramente gli uomini sono a capo delle femmine. Senza la loro guida raramente le opere femminili giungono a buon fine. Ma come possiamo avere noi questi uomini? I nostri sono  morti o sono sparsi qua e là ,in diverse brigate, senza che si possano ritrovare. Prendere uomini sconosciuti non è opportuno sia per la nostra salute che per lo scandalo che ne seguirebbe”.
Mentre le donne così ragionavano, entrarono nella chiesa tre giovani, il più giovane dei quali non aveva meno di venticinque anni di età. Dei quali, uno era chiamato Panfilo, un altro Filostrato e il terzo Dioneo, tutti belli e garbati.
Essi provarono una grande consolazione nel vedere che le donne amate ,per fortuna, erano tutte e tre fra le sette donne ed alcune erano loro parenti.
Come le donne li videro, Pampinea ,sorridendo, disse “Ecco che la fortuna è favorevole ai nostri progetti e ci pone davanti giovani onesti e valorosi, che ,volentieri, ci faranno da guida”.
Neifile, arrossita fortemente, perché era una delle tre fanciulle da uno dei giovani amata, disse “ Pampinea, dobbiamo stare attente  perché, dato che si sa che i giovani sono innamorati di alcune di noi, senza che facciamo niente di male, potrebbero scaturirne critiche e infamia”.
Disse allora Filomena “Questo non importa; se viviamo onestamente e non abbiamo niente da rimproverarci, parli pure chi vuole, ci difenderanno Iddio e la verità. Se essi fossero disposti a venire, come ha detto Pampinea, sarebbe un colpo di fortuna “.
Le altre, alle parole di Filomena tacquero e assentirono e, tutte d’accordo, decisero di chiamare i giovani e di chiedere se volevano tener loro compagnia in quell’impresa.
Senza più parole, Pampinea, che era parente di uno dei giovani, si avvicinò con un sorriso, spiegando il programma e chiedendo loro di accompagnarle con animo puro e fraterno.
I giovani inizialmente credettero che si trattasse di uno scherzo, poi, vedendo che la donna parlava sul serio, risposero, lieti, di essere pronti per la partenza.
Preparata, dunque, ogni cosa, il giorno seguente, cioè il mercoledì, all’alba, le donne ,con alcune delle loro domestiche, e i tre giovani ,con i tre servi, si allontanarono dalla città per circa due miglia e giunsero al luogo prescelto.
Questo luogo era su una collinetta (Colle di Fiesole-sembra la casa abitata da Giovanni Boccaccio), lontano dalle strade, ricca di piante e di alberelli, sulla cima vi era un palazzo con un grande cortile nel mezzo, con logge, sale e camere, tutte bellissime e ornate di dipinti che raffiguravano prati e giardini, fonti di acqua, con cantine a volta piene di vini preziosi ,che si addicevano più ad esperti bevitori che a sobrie ed oneste fanciulle.
La casa, con grande piacere della brigata, era pulita, con i letti fatti , ed era piena di fiori di stagione.
Postisi a sedere, Dioneo, giovane pieno di spirito, disse “Donne, che, con tanto senno, ci avete guidati qui, non conoscendo le vostre intenzioni, vi dico subito le mie. Io voglio scherzare, ridere e cantare insieme con voi, se non siete d’accordo mi lascerete ritornare nella città piena di tribolazioni”.
Pampinea, lieta ,rispose “Dioneo, parli bene, noi qui vogliamo vivere festosamente, perciò abbiamo fuggito le tristezze della città. Ma , poiché le cose senza ordine non possono durare, io , che proposi il programma che fece nascere questa bella compagnia, ritengo necessario che ci sia un capo a cui noi tutti obbediamo. Perché ciascuno non provi il peso della responsabilità e non vi sia nessuno che provi invidia, propongo che a ciascuno di noi si attribuisca ,per un giorno, il comando della brigata e che chi comanderà per primo sia eletto da tutti noi. Il Capo dei giorni che seguiranno ,sarà scelto ogni giorno ,al tramonto, da colui che ha comandato in quella giornata”.
Queste parole piacquero molto a tutti, ed essi, ad una voce, elessero regina Pampinea.
Filomena corse a raccogliere un ramo di alloro, ne fece una ghirlanda e la pose in testa a Pampinea.
 La corona, poi, posta sul capo ,stette ad indicare chi deteneva il comando nelle varie giornate.
Pampinea, incoronata regina, comandò che tutti tacessero, poi assegnò alla servitù i vari incarichi.
Parmeno, servo di Dioneo, fu nominato siniscalco, con il compito di preoccuparsi delle esigenze di tutto il gruppo e del servizio della mensa. Sirisco, servo di Panfilo, fu nominato tesoriere e incaricato degli acquisti richiesti da Parmeno. A Tindaro, servo di Filostrato, fu affidato l’incarico di attendere alle camere dei tre giovani signori. Misia , fantesca di Pampinea, e Lisisca, domestica di Filomena, furono incaricate di provvedere alla cucina e alla preparazione delle vivande, secondo le disposizioni di Parmeno. A Cimera, di Lauretta, e a Stratilia, di Fiammetta, fu dato il compito della pulizia delle camere.
Tutti , infine, si allontanarono dal luogo e poi vi ritornarono. Ognuno aveva l’ordine di ascoltare, di vedere e di riferire agli altri solo buone notizie.
Dati questi ordini, Pampinea, lieta, si alzò e disse “ Qui ci sono giardini, prati e altri luoghi assai piacevoli, per i quali ciascuno può andare a suo piacere, all’ora terza, verso le undici  / mezzogiorno,  ci ritroveremo qui per mangiare al fresco”.
Sciolta la riunione , passeggiarono, con passo lento, in giardino, intrecciando ghirlande e cantando.
Quando tornarono all’ora stabilita e si sistemarono nello spazio assegnato dalla Regina , trovarono che Parmeno aveva iniziato il suo lavoro.
Infatti, entrati in una stanza a pianterreno, videro tavole ricoperte di tovaglie bianchissime, con bicchieri che parevano d’argento ed ogni cosa ricoperta di fiori di ginestra.
Dunque, lavatisi le mani, tutti occuparono i posti assegnati da Parmeno.
Furono portate delicatissime vivande e vini finissimi e silenziosamente i tre servi servirono le tavole.
Tutti mangiarono lietamente, scambiandosi piacevoli discorsi.
 Finito il pranzo ,la regina ordinò che fossero portati gli strumenti per suonare, ritenendo che le donne sapessero cantare ed anche gli uomini sapessero suonare e cantare.
Dioneo prese un liuto e Fiammetta una viola e cominciarono a suonare una musica, la Regina con le altre donne e i giovani, mandati i servi a mangiare, scelse una canzone e, con passo lento, cominciò a cantare.
Si continuò così fino all’ora di andare a dormire.
Allora, per ordine di Pampinea, i tre giovani si ritirarono nelle loro stanze, separate da quelle delle donne, e tutti si addormentarono in stanze piene di fiori.
Era appena passata l’ora nona (circa le diciotto) che la regina, svegliatasi, fece svegliare tutti dicendo che era nocivo il dormire troppo, di giorno.
Così se ne andarono in un praticello al riparo dal sole, mentre spirava un soave venticello.
Come ordinò la regina. Si posero a sedere in circolo.
Pampinea ,allora, disse “ Come vedete, qui è bello stare e fare qualsiasi gioco, perché ci sono  tavolette per giocare a dama o a scacchi.. Ma io vi propongo di non giocare, perché nel gioco c’è chi gioca e chi sta a guardare, annoiandosi, ma di raccontare novelle (novellare), il che può essere gradito a tutta la compagnia, in quanto uno racconta e tutti gli altri ascoltano. In questo modo trascorreremo la parte più calda della giornata. Ciascuno di voi non avrà ancora finito di narrare la sua novella, che il sole sarà declinato, il caldo sarà diminuito e potremo andare dove più desideriamo. Se il programma vi piace ,realizziamolo, altrimenti fino a sera (vespro) ciascuno faccia ciò che vuole”.
Tutti, uomini e donne ,approvarono “il novellare”.
La regina ,allora, stabilì che, nella prima giornata il tema delle novelle da raccontare fosse libero. E, rivolta a Panfilo, gli dette il comando di narrare lui la prima novella.
Immediatamente Panfilo, ascoltato da tutti, iniziò il racconto.
























venerdì 12 luglio 2013

PROEMIO


Comincia il libro chiamato Decameron ,soprannominato principe Galeotto ,nel quale sono raccolte 100 novelle dette in dieci giorni da sette donne e da tre giovani uomini.


 

E’ proprio degli esseri umani avere pietà degli afflitti: soprattutto di coloro che hanno ricevuto conforto e compassione da alcuni ed io, Giovanni Boccaccio, sono uno di quelli. Infatti, dalla prima giovinezza ad oggi sono stato acceso da un altissimo e nobile amore per una donna di stirpe reale, Maria d’Aquino o Fiammetta, sebbene fossi di umile origine, infatti sono figlio di un borghese e mercante.

Questa situazione fece nascere in me una continua ansia ,che non mi dava mai tregua, non per crudeltà della donna amata, ma per un gran fuoco che bruciava la mente. Mi davano refrigerio i ragionamenti e le consolazioni di alcuni amici, che mi impedirono di morire.

Ma, così come piacque a Dio, che stabilì, come legge immutabile, che tutte le cose del mondo dovessero avere fine, il mio amore, che nessuna forza avrebbe potuto rompere o piegare, da solo diminuì, lasciando nella mente solo il piacere e la dolcezza, eliminando il dolore.

Ma, sebbene sia cessata la pena, rimane la memoria dei benefici ricevuti dagli amici e del sollievo recatomi, ricordo che non passerà mai fino alla morte.

E questa mia gratitudine la donerò alle donne leggiadre, più che agli uomini.

Esse , con timore e vergogna, tengono nascoste, nei delicati petti, le fiamme dell’amore e , oltre a ciò, costrette dalla volontà dei padri, delle madri, dei fratelli e dei mariti, trascorrono gran parte del tempo nello spazio limitato delle loro piccole camere, stando sedute quasi oziose, rimescolando i propri pensieri, che non sono sempre allegri.

E, se qualche malinconia d’amore è nella loro mente, essa vi rimane a lungo se non viene rimossa da nuovi pensieri.

Ciò non avviene negli uomini innamorati, come possiamo ben vedere.

Infatti essi hanno molti modi di alleggerire i pensieri e le malinconie d’amore; possono andare a caccia, pescare, cavalcare, giocare, dedicarsi al commercio, tutte occupazioni che li distraggono dal noioso pensiero dell’amore, fino a quando esso non diminuisce.

Dunque, perché, per opera mia, si ripari al torto fatto alle donne dalla fortuna, voglio narrare 100 novelle o favole o parabole o storie, raccontate in 10 giorni da una allegra brigata di sette donne e tre giovani, durante la passata pestilenza che ha provocato tante morti, insieme con alcune canzoni, cantate dalle predette donne per loro piacere.

In queste novelle sono raccontati diversi casi d’amore ,ambientati sia nei tempi moderni che in quelli antichi.

Le donne, leggendo queste novelle, potranno trarne diletto e, al tempo stesso, ricavarne qualche utile consiglio su cosa sia meglio fuggire, finchè non si placano le pene d’amore.

E, se questo avviene, rendano grazie ad Amore, che liberatomi dalla sofferenza ,ha consentito che mi dedicassi ai loro piaceri.

LIBERA INTERPETRAZIONE DEL DECAMERON di GIOVANNI BOCCACCIO - In lingua italiana contemporanea, a cura di Luciana De Lisa

Nel 2013 cade il centenario della nascita di Giovanni Boccaccio, che nacque, probabilmente a Certaldo, in quel di Firenze, nel 1313.
Il Decameron conserva, ancora oggi, immutato, tutto il suo fascino.
L’intento è quello di avvicinare  le nuove generazioni alla lettura dei Classici della Letteratura Italiana,
facilitando la comprensione del testo, mediante la conversione del “Volgare” in lingua italiana contemporanea, per una lettura agile e divertente.
In particolare , l’interesse per il Decameron è nato dall’ascolto delle lezioni del prof. Salvatore Battaglia, Docente di Letteratura Italiana dell’Università degli Studi di Napoli, nel decennio 1960/1970.
Egli sosteneva che le lettere italiane erano state influenzate dai tre grandi scrittori del trecento : Dante, Petrarca e Boccaccio, tutti nati nel territorio fiorentino. Il loro destino letterario fu, comunque, diverso, perché Dante e Petrarca composero le loro opere nel Nord Italia, Boccaccio, invece, visse nel periodo della giovinezza alla Corte di Roberto d’Angiò a Napoli. Il contatto con il variopinto mondo napoletano gli mise in fermento il sangue e l’immaginazione.