giovedì 31 luglio 2014

QUINTA GIORNATA - NOVELLA N.2

QUINTA GIORNATA – NOVELLA N.2

Gostanza ama Martuccio Comito,. Ella, udendo che era morto, disperata e sola, si mette su una barca ed è trasportata dal vento in Susa; ritrovatolo vivo a Tunisi, si fa riconoscere; ed egli, divenuto importante per aver dato consigli al re, la sposa e, ricco, con lei se ne torna a Lipari.

La regina, dopo aver commentato la novella di Panfilo, fece cenno ad Emilia di proseguire con la narrazione di un’altra novella.
Ed ella incominciò dichiarando che era ben lieta di obbedire alla regina che chiedeva di parlare di amori che portavano piacere e non dolore, diversamente da quelli della giornata precedente.
Vicino alla Sicilia c’era un’isoletta chiamata Lipari, dove, non molto tempo addietro, viveva una bellissima giovane, di nome Gostanza, nata da una famiglia nobile dell’isola.
Di lei si innamorò un bel giovane valoroso, nativo dell’isola, chiamato Martuccio Gomito.
Anch’ella amava con uguale passione Martuccio e si sentiva bene solo quando lo vedeva.
Il giovane, desiderando sposarla, la fece chiedere in moglie al padre di lei, che gliela rifiutò perché era povero.
Martuccio, sdegnato per il rifiuto, giurò che non sarebbe mai più ritornato a Lipari ,se non ricco.
Partì, dunque, da Lipari, divenne corsaro e ,costeggiando la Tunisia, derubò i naviganti più deboli.
La Fortuna gli fu favorevole, se avesse saputo accontentarsi.
Egli e i suoi compagni, non contenti delle ricchezze accumulate, mentre cercavano di diventare straricchi, furono catturati e derubati da alcune navi saracene. Molti di loro furono uccisi e la nave fu affondata.
Martuccio fu condotto a Tunisi e fu imprigionato, vivendo in grande miseria.
A Lipari giunse la notizia che tutti quelli che erano sulla nave con Martuccio erano stati annegati.
La giovane, avuta la triste notizia, pensando che il suo amore era annegato, decise di darsi una morte insolita. Uscita di notte dalla casa del padre, trovò, per caso, una navicella di pescatori fornita di remi e di vela, un po’ separata dalle altre. Salita su di essa, si spinse in mare con i remi, abbastanza esperta della navigazione, come lo erano tutte le donne dell’isola. Poi gettò via i remi e il timone, abbandonandosi al vento.
Sicura di sfracellarsi contro uno scoglio e morire si mise a giacere nel fondo della barca, coprendosi il capo con un mantello.
Ma le cose andarono diversamente; il giorno seguente ,al Vespro, reggendo bene, la barca la portò a cento miglia oltre Tunisi, in una spiaggia vicina alla città di Susa.
La giovane non si accorse di nulla e rimase sul fondo della barca, col capo coperto, pensando di essere morta.
Per caso, quando la barca urtò contro la spiaggia, levava dal sole le reti dei pescatori una donna umile, che si meravigliò che la barca fosse giunta a terra con le vele spiegate. Pensò che i marinai si fossero addormentati, si avvicinò alla barca e vide soltanto la giovane che dormiva profondamente.
La chiamò più volte, per farla svegliare, capì che era cristiana perché parlava italiano e le chiese come era arrivata fin lì, sola soletta.
Gostanza, sentendo parlare italiano, credette di essere ritornata a Lipari, ma, non riconoscendo le strade, domandò alla donna dove fosse. Ella rispose che era a Susa, in Tunisia.
La fanciulla, dolente perché non era morta, si sedette, piangendo, vicino alla barca.
Solo dopo molte insistenze la buona donna riuscì a farsi raccontare tutta la storia e a farle mangiare un po’ di cibo, dato che era digiuna. Gostanza, rifocillatasi, le chiese il suo nome e come mai aveva imparato l’italiano.
La donna rispose che veniva da Trapani e il suo nome era  Carapresa. Il nome udito sembrò a Gostanza di buon auspicio e, scomparso il suo desiderio di morte, senza dare informazioni su di sé, pregò la donna di darle consigli per evitare le offese.
Carapresa, messe a posto le reti, coperta Gostanza col mantello, la condusse a Susa, da una buona donna saracena all’antica e di buona indole, sicura che l’avrebbe accolta come una figlia. Lì si sarebbe potuta trattenere fino a quando Dio non le avesse mandato una sorte migliore.
La donna, ormai vecchia, commossa per il triste racconto, prese Gostanza per mano e la condusse nella sua casa, dove viveva con diverse donne, senza alcun uomo.
Le donne facevano, con le proprie mani, diversi lavori di seta, di palma, di cuoio. La giovane imparò rapidamente e cominciò a lavorare insieme a loro e, trattata con grande affetto dalla padrona di casa, in breve, apprese anche il loro linguaggio.
Frattanto, mentre a Lipari Gostanza era creduta morta, ed era re di Tunisi Meriabdela ,un giovane di Granata, potente e nobile , dicendo che il reame di Tunisi apparteneva a lui, con un grande esercito, attaccò il re di Tunisi per cacciarlo dal suo regno.
Martuccio Gomito, in prigione, udì queste cose e disse ai suoi compagni che, se avesse potuto parlare con il re,
gli avrebbe dato un consiglio che gli avrebbe fatto vincere la guerra.
La guardia riferì immediatamente la cosa al re che fece chiamare Martuccio per sentire il suo consiglio.
Martuccio ben conosceva il modo di combattere dei saraceni, che conducevano le battaglie utilizzando soprattutto gli arcieri . Perciò spiegò al re che bisognava fare in modo che agli avversari mancassero le saette, mentre i suoi arcieri ne dovevano avere in abbondanza. In questo modo si poteva vincere la battaglia.
E continuò dicendo che bisognava fare, per gli archi degli arcieri, corde più sottili di quelle che comunemente si usavano, con le cocche adatte soltanto alle corde sottili. Consigliò di fare tutto segretamente. Dopo il lancio degli arcieri nemici e quello dei propri, al momento di raccogliere le frecce, i nemici non avrebbero potuto utilizzare le frecce degli arcieri del re ,mentre essi avrebbero avuto saette abbondanti.
Al re il consiglio di Martuccio piacque molto, lo seguì e vinse la guerra, grato rese onori e ricchezze al giovane.
La notizia di questi avvenimenti giunse a Gostanza che, per lungo tempo, aveva creduto morto Martuccio Gomito.
Ella comunicò alla buona donna che la ospitava di voler andare a Tunisi per vedere, con i propri occhi,
come stavano le cose. La donna , imbarcatasi con la giovane, come se fosse stata sua madre, andò a Tunisi a casa di una  parente, dove fu ricevuta onorevolmente. Subito  mandò Carapresa ,che era andata con loro, da Martuccio e gli disse che con lei a Tunisi era venuta anche la sua Gostanza.
Il giovane, lieto per la buona notizia, si recò con lei alla casa dove era ospitata Gostanza.
La fanciulla, come lo vide, quasi morì per la gioia; gli corse incontro, gli buttò le braccia al collo e, senza parole, cominciò a piangere.
Martuccio, sorpreso, rimase un po’ in silenzio ,poi, sospirando , disse “Gostanza mia, sei viva? Per molto tempo ti ho creduta morta e anche a casa tua non si sapeva niente di te”.
Poi l’abbracciò e la baciò teneramente. Gostanza gli raccontò le sue avventure e l’onore che aveva ricevuto dalla gentildonna, che l’aveva accolta nella sua casa.
Martuccio, allontanatosi , andò dal suo signore, gli raccontò tutto e gli chiese il permesso di sposarla secondo la religione cristiana.
Il re fece portare molti doni per i due innamorati e li lasciò liberi di fare ciò che volevano.
Martuccio compensò con molti doni la gentildonna che aveva accolto Gostanza. Poco dopo la donna partì, salutata dalla giovane in lacrime.
Poi, con il permesso del re, saliti sopra una navicella, portando con loro Carapresa, se ne ritornarono a Lipari, dove furono accolti con grandi feste.
A Lipari il giovane sposò la sua donna con grandi nozze e da quel giorno vissero insieme in pace, godendo del loro amore.   






venerdì 25 luglio 2014

QUINTA GIORNATA - NOVELLA N.1

QUINTA GIORNATA – NOVELLA N.1

Cimone diviene saggio per amore e rapisce in mare Efigenia, sua donna: in Rodi è messo in prigione, da cui lo tira fuori Lisimaco, e nuovamente con lui rapisce Efigenia e Cassandrea, che dovevano sposarsi fuggendo con loro a Creta; e quindi, divenute loro mogli,con esse ritornano alla propria casa, richiamati.


Panfilo, nell’iniziare il suo racconto, premise che esso avrebbe avuto felice fine e avrebbe fatto comprendere alla brigata quanto fossero divine e poderose le forze d’Amore, cosa che avrebbero dovuto tener presente tutti gli innamorati.
Dunque (come si era già detto nelle storie dei ciprioti) nell’isola di Cipro vi fu un nobilissimo uomo, chiamato Aristippo, ricchissimo, che aveva un solo problema. Tra tutti i suoi figli, ne aveva uno di grande potenza e bellezza fisica, ma quasi stolto e che non lasciava sperare niente di buono, che si chiamava Galeso.
Ma, poiché né fatica di maestro, né lusinghe o punizioni del padre o impegno d’altri gli aveva potuto far mettere giudizio, ed egli aveva una voce grossa e deforme e modi più convenienti ad una bestia che a un uomo , per burla, era chiamato da tutti Cimone, che, nella loro lingua, come nella nostra, suonava come “bestione”.
Il padre soffriva molto per la sua vita scombinata e , per non avere davanti la causa del suo dolore, gli comandò di andarsene in campagna e di vivere lì con i suoi contadini. La qualcosa gli riuscì graditissima perché egli gradiva di più le usanze degli uomini rozzi che quelle cittadine.
Standosene, dunque, Cimone in campagna, impegnato in lavori agricoli, un giorno, dopo mezzogiorno, passando da un possedimento ad un altro, col bastone in spalla, entrò in un bellissimo boschetto, tutto pieno di verdi foglie, poiché era il mese di maggio.
Andando per il boschetto, giunse in un praticello, circondato da alberi altissimi. Su uno dei lati c’era una bellissima fontana, al lato della quale ,vide dormire una bellissima giovane, con addosso un vestito molto sottile, che non nascondeva quasi per niente le candide carni. Solo dalla cintura in giù era coperta da un manto bianchissimo e sottile ;ai suoi piedi dormivano due femmine ed un uomo, suoi servi.
Cimone, come la vide, cominciò a guardarla con grandissima ammirazione e, nel rozzo petto, sentì nascere il pensiero di non aver mai veduto una cosa più bella.
Esaminò le varie parti di lei, ammirò i capelli, simili all’oro, la fronte, il naso e la bocca, la gola, le braccia e, soprattutto, il petto, non molto prosperoso, e, da agricoltore subito diventato intenditore di bellezza, desiderava di vedere gli occhi, che erano chiusi per il profondo sonno.
Desiderava svegliarla per vederli, ma, poiché era bella più di qualsiasi donna, pensava che potesse essere una dea ed aveva timore di svegliarla. E anche se gli pareva di trattenersi troppo, non riusciva ad allontanarsi.
Dopo molto tempo, la giovane, il cui nome era Efigenia, si svegliò prima dei suoi servi e, aperti gli occhi, vide davanti a lei, appoggiato al suo bastone, Cimone. Meravigliata, riconoscendolo, gli chiese che cosa cercava in quel bosco, a quell’ora.
Egli non rispose ma, fissando negli occhi aperti la giovane, provò una dolcezza che non aveva mai provato prima.
La giovane, temendo la fissità dello sguardo del giovane, lo salutò e, chiamate le serve, si avviò.
Cimone la seguì, senza indugi. Sebbene Efigenia cercasse di allontanarlo, egli non la lasciò andare finché non l’ebbe accompagnata a casa. Poi si recò dal padre dicendo che non voleva più ritornare in campagna.
Il padre, anche se malvolentieri, lo accontentò, aspettando di vedere quale fosse la ragione del cambiamento.
Ormai nel cuore di Cimone era entrata la saetta d’Amore per la bellezza di Efigenia.
In breve tempo il giovane ebbe un tale cambiamento da far meravigliare il padre e tutti quelli che lo conoscevano.
Dapprima chiese al padre vestiti eleganti come quelli dei fratelli, poi assunse modi garbati e raffinati, come si conveniva a gentiluomini e a innamorati. In breve tempo divenne molto colto. Non solo modificò il rozzo tono della voce, ma divenne maestro di canto e di suono e divenne espertissimo nel cavalcare e nel combattere sia per mare che per terra.
Dopo quattro anni dal giorno del suo innamoramento egli si trasformò nel più elegante e raffinato giovane dell’isola di Cipro.
La forza di Amore era stata tanto grande da trasformare completamente il giovane.
Sebbene Cimone, amando Efigenia, eccedesse in alcune cose, Aristippo lo assecondava in tutto, considerando che Amore ,da montone, l’aveva fatto ritornare uomo.
Ma Cimone, che rifiutava di essere chiamato Galeso, ricordandosi che così era stato chiamato da Efigenia, voleva onestamente coronare il suo sogno d’amore sposando la fanciulla amata. Perciò più volte la fece chiedere in sposa al padre di lei, Cipseo, che rispose di averla promessa a Pasimunda, giovane nobile di Rodi.
Venuto il momento stabilito per le nozze, Cimone promise ad Efigenia, grazie alla quale era diventato un uomo, di dimostrarle tutto il suo amore o morire. Ciò detto con alcuni amici fidati preparò una nave e si mise in mare, attendendo l’imbarcazione che doveva condurre la promessa sposa a Rodi dal marito.
La fanciulla si imbarcò e partì, dopo aver salutato il padre.
In mare Cimone raggiunse la nave e chiese ai marinai di arrendersi, poi, agganciando la nave con un rostro di legno, salì su di essa e in breve tempo la conquistò.
Il giovane spiegò ai marinai che non aveva nulla contro di loro, ma voleva soltanto Efigenia, da lui amata sopra ogni cosa. Il padre di lei non gliel’aveva voluta concedere come amico e Amore l’aveva costretto a conquistarla come nemico. Trasportata la donna sulla sua nave ,lasciò andare i rodiani senza prendere alcun bottino ,e, contento della cara preda, consolò lei che piangeva.
Poi, con gli amici, decise di non tornare a Cipro ma di dirigersi verso Creta dove, avendo tutti parenti e amici, credevano di essere al sicuro.
Ma la Fortuna, fino ad allora favorevole a Cimone, cambiò in amaro pianto, l’allegria del giovane.
Erano appena passate quattro ore da quando avevano lasciato i rodiani ed era appena sopraggiunta la notte che l’innamorato prevedeva la più piacevole di tutte.
All’improvviso sorse una violentissima tempesta, il cielo si riempì di nuvole e un vento pestilenziale si scatenò sul mare. La nave non si poteva più governare.
Tutti ebbero paura di morire, soprattutto Efigenia, che piangendo malediceva l’amore di Cimone e il suo ardire, che era contrario alla volontà degli dei. Tra i lamenti sempre più forti della fanciulla, non sapendo dove andassero, i marinai furono spinti con la nave in una piccola insenatura, dove erano giunti poco prima anche i rodiani, lasciati liberi da Cimone.
Appena spuntò l’alba, si accorsero che erano approdati vicino ai loro nemici.
Cercarono invano di allontanarsi ,ma il vento fortissimo glielo impedì e li spinse a terra. Appena approdati furono riconosciuti dai rodiani, che ,immediatamente, li catturarono e li condussero ad un villaggio vicino.
Ricopriva, allora, la somma magistratura dei rodiani Lisimaco che fece condurre in prigione Cimone con i suoi compagni ,come Pasimunda, lagnandosi con il senato di Rodi, aveva richiesto.
In tal modo il misero e innamorato Cimone perse Efigenia, appena conquistata, senza averle dato nemmeno un bacio.
La fanciulla fu accolta  e confortata dalle nobildonne di Rodi e rimase con loro fino al giorno fissato per le nozze.
A Cimone e ai compagni, poiché avevano lasciati liberi i marinai rodiani, fu donata la vita, ma furono condannati alla prigione eterna.
Frattanto Pasimunda faceva di tutto per accelerare il giorno delle nozze.
La Fortuna, pentita dell’offesa fatta a Cimone, decise di salvarlo.
Pasimunda aveva un fratello più piccolo d’età, non di valore, di nome Osmida, che voleva sposare una nobile e bella giovane di Cipro, chiamata Cassandrea, che Lisimaco amava straordinariamente.
Pasimunda decise di celebrare, con un’unica grandissima festa, sia le sue nozze con Efigenia che quelle del fratello Osmida con Cassandrea, per spendere meno, e anche il fratello e i suoi parenti furono d’accordo.
Diffusasi la notizia, Lisimaco si addolorò moltissimo , perché vedeva svanire la speranza di avere la giovane.
Da uomo saggio , tenne il dispiacere dentro di sé e cominciò a pensare di rapirla, non vedendo altra soluzione.
Ciò gli sembrò facile per il ruolo che ricopriva, ma disonesto. Tuttavia ,dopo lunga riflessione, l’onestà lasciò il posto all’amore e decise di rapirla.
Pensando ad un compagno per il rapimento si ricordò di Cimone, che era in prigione con i suoi uomini, e ritenne di non poter trovare un compagno migliore e più fedele per l’impresa.
La notte seguente, di nascosto, lo fece andare nella sua camera e gli disse “Cimone, gli dei, abili nel provare il valore degli uomini, hanno voluto sperimentare la tua virtù : prima , nella casa del tuo ricchissimo padre, quando la forza dell’amore ti fece diventare un uomo da insensato animale che eri, come ho saputo; poi, attualmente, ti hanno messo a dura prova facendoti stare in prigione, per vedere se il tuo animo cambiava.
Adesso ti preparano una cosa lieta, che io ti illustrerò, se non hai cambiato idea.
Pasimunda, che sperava che tu morissi, si affretta a celebrare le nozze con la tua Efigenia, che la Fortuna prima ti aveva concesso e poi ti ha tolto. La stessa ingiuria il fratello Osmida si prepara a fare a me , sposando Cassandrea, che amo sopra ogni cosa.
Per evitare questa offesa non vedo altra via che armarci col cuore e con le spade e tentare tu la tua seconda rapina ed io la prima, in modo da riavere tu la tua donna ed io la mia”.
Queste parole fecero ritornare il coraggio a Cimone , che subito rispose “ Lisimaco, non potrai trovare un compagno più forte e più fidato di me in questa impresa, perciò spiegami che cosa dobbiamo fare e vedrai che ti seguirò con grande forza”.
Lisimaco gli spiegò che tre giorni dopo le novelle spose sarebbero entrate nelle case dei loro mariti. Lì loro due con i compagni le avrebbero rapite e le avrebbero condotte su una nave, preparata in segreto, uccidendo chiunque li volesse contrastare. Cimone fu d’accordo e rimase, silenzioso, in prigione, attendendo il momento.
Venuto il giorno delle nozze, la casa dei due fratelli si riempì di gente per la festa.
Frattanto Lisimaco, preparata ogni cosa, divise Cimone e i suoi compagni ,con le armi nascoste sotto i vestiti,
in tre gruppi. Un gruppo lo mandò al porto, affinché nessuno potesse impedire loro di salire sopra la nave al momento opportuno. Gli altri due gruppi andarono alla casa di Pasimunda; uno rimase alla porta, affinché nessuno dall’interno la potesse chiudere ed impedire loro l’uscita; con l’ultimo gruppo, insieme con Cimone, salì su per le scale.
Giunti nella sala dove le donne erano sedute per mangiare, fattisi avanti e gettate le tavole per terra, ognuno afferrò la sua donna e la affidò ai compagni, per condurla subito alla nave, pronta per salpare.
La novelle spose cominciarono a piangere e a gridare insieme a tutti i presenti. Ma Cimone , Lisimaco e i compagni, tirate fuori le spade, liberarono la strada per la fuga.
Mentre scendevano , si fece loro incontro Pasimunda armato di un grosso bastone. Cimone, coraggiosamente, gli tagliò la testa a metà e lo fece cadere morto ai suoi piedi.
Il povero Osmida, che era corso in aiuto del fratello, fu ucciso anch’egli da uno dei colpi di Cimone. Gli altri che si interposero furono feriti e respinti dai compagni dei due innamorati.
Lasciata la casa piena di sangue, giunsero alla nave, imbarcatisi con le donne e i compagni, partirono ,mentre il lido si riempiva di armati.
Giunti a Creta furono accolti da parenti e amici e sposarono le loro donne.
 Trascorso un lungo periodo, placatisi in Cipro  e in Rodi i turbamenti per le loro imprese, per intercessione dei parenti, Cimone, dopo un lungo esilio, ritornò con Efigenia a Cipro e, similmente, Lisimaco con Cassandrea a Rodi. E vissero a lungo contenti, ciascuno nella sua terra.




giovedì 17 luglio 2014

QUINTA GIORNATA - INTRODUZIONE

Finisce qui la Quarta giornata del Decameron: incomincia la Quinta nella quale, sotto il reggimento di Fiammetta, si ragiona di ciò che ad alcuno amante, dopo diverse e difficili peripezie, capitò felicemente.




QUINTA GIORNATA – INTRODUZIONE

Era già tutto chiaro l’orizzonte ed erano sorti i primi raggi del sole nel nostro emisfero, quando Fiammetta fu svegliata dai dolci canti degli uccelli sugli alberi.
Appena alzata fece chiamare tutte le altre e i tre giovani, poi se ne andò a passeggiare per la campagna fino a quando il sole non si fu alzato, chiacchierando del più e del meno.
Venuta l’ora del pranzo, essendo stata apparecchiata ogni cosa dal siniscalco, dopo aver cantato qualche ballata, si misero a mangiare. Poi ballarono un po’, alcuni andarono a riposare, altri rimasero nel bel giardino.
Verso le tre del pomeriggio, si riunirono intorno alla fontana, come di solito.
Sedendo al posto d’onore ,la regina fece cenno a Panfilo di cominciare a raccontare le novelle allegre.




QUARTA GIORNATA - CONCLUSIONE

QUARTA GIORNATA – CONCLUSIONE

La novella di Dioneo fece ridere tutti ,sollevando gli animi rattristati per le novelle precedenti.
Il re, vedendo che il suo governo stava per finire, si scusò per aver scelto di parlare di un argomento così duro come quello dell’infelicità degli amanti.
Poi si alzò ,si tolse la corona e la pose sulla testa biondissima della Fiammetta, invitandola a scegliere per il giorno seguente delle novelle che potessero consolare un poco le sue compagne.
La Fiammetta, che aveva i capelli crespi, lunghi e d’oro, ricadenti sulle spalle delicate, un viso rotondetto con un colore di bianchi gigli e di rose vermiglie, splendido, con due occhi nerissimi e due labbra che sembravano due rubini, rispose che assumeva volentieri il comando.
Comunicò che in quel giorno si sarebbe parlato di ciò che ad alcuni amanti, dopo complicate e sventurate difficoltà, era accaduto felicemente. La qual cosa piacque a tutti.
Poi decise le cose da fare con il siniscalco, e licenziò tutti fino all’ora di cena.
Gli ospiti se ne andarono una parte verso il giardino e un’altra verso il mulino dove si macinava.
Venuta l’ora di cena si riunirono tutti intorno alla bella fontana e cenarono con molto gusto.
Dopo cena, come facevano di solito, si diedero alle danze e ai canti.
Filomena, che guidava le danze, invitò Filostrato a cantare una canzone sui dolori e sulle sue delusioni d’amore, per concludere quella giornata.
Filostrato volentieri cominciò a cantare una triste canzone d’amore.
Un amante piange per l’abbandono della sua donna e decide di morire. Le parole della canzone rivelarono lo stato d’animo di Filostrato e la ragione della sua tristezza.
Filomena, che era la causa del dolore del giovane, arrossì. Il suo rossore fu celato dalle tenebre della notte.
Dopo la sua canzone ne furono cantate altre, finché, al comando della regina, tutti si ritirarono nelle proprie camere.




giovedì 10 luglio 2014

QUARTA GIORNATA - NOVELLA N.10

QUARTA GIORNATA – NOVELLA N. 10

La moglie di un medico mette un suo amante, drogato con l’oppio, in una cassa, la quale , con lui dentro, due usurai portano a casa loro; questi si sveglia ed è scambiato per ladro; la fantesca della donna racconta alle guardie che ella l’aveva messo nella cassa rubata dagli usurai, così il giovane evita la forca e gli usurai sono condannati a pagare una somma di denaro per aver rubato la cassa.

Ormai toccava narrare l’ultima novella della giornata solo a Dioneo.
Egli incominciò dicendo che tutti erano stati rattristati dagli infelici amori raccontati in quel giorno e non vedevano l’ora che si giungesse alla fine. Voleva, perciò, senza tradire il tema, concludere quella giornata un po’ più lietamente., anticipando la narrazione della giornata successiva.
Non molto tempo addietro, viveva a Salerno un grandissimo chirurgo, il cui nome era maestro Mazzeo della Montagna. Costui era molto vecchio, ma aveva una moglie bella e gentile, che egli riforniva di gioielli e ricchi vestiti.
Ella, in verità, era sempre raffreddata, forse perché nel letto era mal coperta dal marito.
Il marito, come Riccardo di Chinzica, di cui si era già detto, che insegnava alla moglie tutte le feste, diceva alla sua che si faticava molto a riprendersi dopo che si era giaciuti una volta con una donna.
Di ciò la moglie era molto scontenta.
La donna, molto saggiamente, pensò di trovare per strada, quello che voleva risparmiare a casa, e si impegnò molto in tal senso.
Si accorse di ciò e rivolse a lei tutto il suo amore un giovane, chiamato Ruggieri di Agerola, di nobile origine ma di pessimi costumi, tanto che non aveva né un parente, né un amico che gli volesse bene.
In tutta Salerno godeva di pessima fama per le sue ruberie ed altre cattiverie.
La donna se ne curò poco perché il giovane le piaceva molto e ,con l’aiuto di una sua domestica, fece in modo da incontrarlo.
Dopo diversi incontri, la donna iniziò a pregarlo che ,per amor suo, abbandonasse le cattive azioni.
Per venirgli incontro, lo cominciò a rifornire ora di una certa quantità di denaro, ora di un’altra.
Mentre i due continuavano la loro relazione, fu affidato alle cure del medico un infermo con una gamba malata.
Il maestro, visto il difetto, disse ai parenti che l’osso della gamba era fradicio, bisognava, perciò, tagliare tutta la gamba, altrimenti sarebbe morto. Aggiunse che l’amputazione della gamba era l’unica possibilità di salvezza, anche se non poteva garantire nulla ; i parenti diedero il loro consenso.
Il medico, ritenendo che, per sopportare il dolore dell’operazione, l’infermo dovesse essere addormentato con l’oppio, la mattina preparò una pozione, che , data da bere all’ammalato, l’avrebbe fatto dormire per tutto il tempo necessario per operarlo. Fece portare il liquido nella sua camera, senza dire a nessuno che cosa fosse.
Nel pomeriggio ,quando il maestro doveva andare dall’infermo, giunse un messaggio, inviato da alcuni amici di Amalfi, che lo richiedevano con la massima urgenza, perché lì c’era stata una grandissima rissa con molti feriti.
Il medico rimandò alla mattina seguente l’operazione alla gamba e, salito su una piccola barca, andò ad Amalfi.
La donna, sapendo che la notte il marito non sarebbe tornato a casa, come era solita, fece andare, di nascosto, Ruggieri nella sua camera e lo chiuse dentro in attesa che tutti se ne fossero andati.
Stando il giovane in camera, in attesa della donna, sia per il lavoro fatto durante la giornata, sia perché aveva mangiato del cibo salato, gli venne una gran sete.
Vista sulla finestra la brocchetta che il medico aveva preparato per l’infermo, credendola acqua da bere, la portò alla bocca e la bevve tutta. Dopo poco tempo lo prese un gran sonno e cadde addormentato.
La donna, andata in camera, visto Ruggieri addormentato, tentò di svegliarlo in tutti i modi, prima con le buone, poi più forte, prendendolo per il naso, tirandolo per la barba. Ma non riuscì a svegliarlo in nessun modo.
Cominciò a temere che fosse morto, pure lo strinse più fortemente e lo scottò con una candela accesa; ma non c’era niente da fare. Per cui, ella ,che non era medico come il marito, credette veramente che fosse morto. Poiché lo amava, lo pianse a lungo, senza far rumore.
Dopo un certo tempo, per non aggiungere al dolore la vergogna, pensò che doveva trovare subito il modo per portare fuori di casa il morto. Chiamò la domestica e le chiese consiglio. La fantesca ,dopo aver cercato di rianimarlo, si convinse anch’ella che Ruggieri era morto e consigliò di portarlo fuori casa. Si ricordò che nella bottega del legnaiuolo loro vicino, c’era una cassa non troppo grande, proprio adatta ai loro bisogni, per nascondervi il corpo del giovane. Aggiunse che ,data la pessima fama di cui il giovane godeva, nessuno avrebbe sospettato di loro, ma tutti avrebbero creduto che era stato ucciso e messo nella cassa da qualche suo nemico.
Il consiglio della serva piacque alla donna, che non volle però ferirlo in alcun modo, dato l’amore che gli portava. La serva, che era forte e giovane, con l’aiuto della padrona, mise il corpo nella cassa e la richiuse.
Da qualche giorno erano andati ad abitare in quella zona due giovani usurai che avevano bisogno di mobili per la casa e volevano spendere poco. Avevano visto quella cassa e avevano deciso di portarsela a casa nella notte. A mezzanotte, trovata la cassa, senza controllare, anche se sembrava un po’ pesante, se la portarono a casa.
La sistemarono vicino alla camera dove dormivano le loro mogli e se ne andarono a dormire.
Ruggieri, che aveva dormito molto a lungo e aveva smaltito l’effetto della bevanda, essendo quasi l’alba, si svegliò. Man mano che riprese conoscenza provò un grave stordimento che gli durò per molte ore. Si cominciò a chiedere che cosa era successo mentre era nella camera della donna, se era tornato il marito e per questo l’avesse nascosto. Decise di rimanere tranquillo e di ascoltare se sentiva qualcosa.
Stando molto scomodo nella cassa che era piccola, gli cominciò a dolere il fianco su cui si appoggiava. Nel tentativo di girarsi, fece cadere la cassa che, cadendo, provocò un gran rumore, svegliando le donne, che, per paura, tacquero.
Cadendo la cassa si aprì e Ruggieri ne uscì. Trovandosi in un luogo a lui sconosciuto, cominciò a brancolare alla ricerca di una scala o di una porta da cui uscire.
Le donne, ormai sveglie, spaventate chiamarono i mariti e gridarono sempre più forte “Al ladro, al ladro”.
Corsero i vicini, si svegliarono i giovani che catturarono Ruggieri e lo portarono dalle guardie del magistrato.
Lo sventurato, sotto tortura, confessò di essere andato per rubare nella casa degli usurai, perciò il magistrato lo condannò all’impiccagione.
La notizia che Ruggieri era stato catturato mentre rubava nella casa degli usurai si diffuse al mattino per tutta Salerno.
Le due donne, udendo ciò che era accaduto, quasi pensarono di aver sognato ciò che avevano fatto.
Frattanto, poco dopo l’alba, il medico, tornato da Amalfi, cercando la bevanda per l’infermo, trovò la caraffa vuota e si adirò. La moglie ,sorpresa, lo rimproverò perché faceva tanto chiasso per un po’ d’acqua versata.
Il medico le spiegò, allora, che non si trattava di acqua chiara, ma di un’acqua preparata per far dormire.
La donna comprese che l’amante doveva averla bevuta e per questo le era sembrato morto.
Il maestro se ne preparò dell’altra mentre la moglie mandava la domestica a chiedere notizie del giovane.
La fantesca, ritornata, riferì alla padrona che di Ruggieri si diceva ogni male e non c’era nessuno che lo difendesse; sicuramente il magistrato l’avrebbe fatto impiccare. Aggiunse anche che aveva udito un litigio tra il legnaiuolo ,loro vicino, e il proprietario della cassa . Il legnaiuolo sosteneva che la cassa non era stata venduta ma gli era stata rubata. Era chiaro, dunque, per le due donne, come il giovane era stato trasportato a casa degli usurai e lì era resuscitato.
Bisognava, a quel punto, salvare Ruggieri e conservare l’onore.
Subito la donna mise a punto un piano e ne informò la fantesca, che andò dal medico piangendo e chiedendo perdono. Gi confessò che era divenuta l’amante del giovane Ruggieri di Agerola e che l’aveva ricevuto la notte precedente nella sua camera ,sapendo che il padrone non c’era.
Poiché il giovane aveva sete, era andata nella camera del medico ,aveva preso una caraffa che aveva trovato lì , gliela aveva data a bere, riportando poi la brocca dove l’aveva presa. Confessò, inoltre, che si era addolorata molto per gli urli che il padrone aveva fatto quando non aveva trovato più l’acqua .Chiese perdono  per tutto quello che ne era seguito e lo pregò di poter aiutare Ruggieri che stava per essere ucciso..
Il medico la perdonò e scherzò  sul fatto che la serva pensava di avere nella notte un amante focoso e si era trovato nel letto un dormiglione. Le disse, infine , di andare a salvare il suo amante, ma di non portarlo più a casa sua.
La fantesca, ben soddisfatta, si avviò alla prigione dove circuì tanto il carceriere che egli la lasciò parlare con il prigioniero. Istruì il giovane su ciò che doveva dire al giudice. Frattanto fu ricevuta dal giudice ,che, vedendola fresca e gagliarda, prima di ascoltarla , si divertì un pò con lei.
Ella al giudice  cominciò a raccontare dall’inizio alla fine tutta la storia : come l’aveva fatto entrare in casa e gli aveva fatto bere l’acqua con l’oppio, come, credendolo morto, l’aveva messo nella cassa, come la cassa era stata rubata, come Ruggieri era giunto in casa degli usurai.
Il giudice, per verificare, chiamò, per prima cosa, il medico che confermò che l’acqua era drogata; poi chiamò il legnaiuolo , il padrone della cassa e gli usurai. Ebbe conferma di tutto e anche del fatto che i due usurai ,nella notte, avevano rubato la cassa e se la erano portata a casa.
Per ultimo interrogò Ruggieri e gli chiese dove aveva passato la notte precedente.
Egli rispose che era stato a dormire con la servetta di maestro Mazzeo, nella camera di lei aveva bevuto l’acqua, si era ,poi, risvegliato nella casa degli usurai, in una cassa, senza sapere come.
Il giudice si fece ripetere l’accaduto più volte, divertendosi un mondo.
Alla fine, condannò al pagamento di dieci once d’oro i due usurai che avevano rubato la cassa; liberò Ruggieri, riconoscendolo innocente, con grande gioia sua , della donna e della domestica.
Fecero tutti e tre insieme gran festa, continuando nel loro piacere di bene in meglio.
Dioneo chiuse la narrazione augurando a sé stesso la stessa sorte, senza ,però, esser messo nella cassa.





giovedì 3 luglio 2014

QUARTA GIORNATA - NOVELLA N.9

QUARTA GIORNATA – NOVELLA N. 9


Messer Guiglielmo Rossiglione dà a mangiare a sua moglie il cuore di messer Guiglielmo Guardastagno, ucciso da lui e amato da lei; avendolo ella saputo, si getta da un’alta finestra a terra e muore, ed è seppellita con il suo amante.

Finita la novella di Neifile, che aveva commosso tutti, il re ,non essendovi altri narratori, escluso Dioneo che doveva raccontare per ultimo, cominciò egli stesso il suo racconto.
Disse alle donne che gli era venuta in mente una novella che le avrebbe impietosite ,non meno di quelle precedenti, per la crudeltà degli avvenimenti narrati.
Secondo quanto raccontavano i provenzali, in Provenza vi furono due nobili cavalieri, che avevano ,ciascuno per sé, castelli e vassalli.
Uno si chiamava messere Guiglielmo Rossiglione e l’altro messere Guiglielmo Guardastagno.
Erano entrambi uomini valorosi, prendevano le armi e, indossando l’armatura, andavano insieme ad ogni torneo o giostra, vestiti con la stessa divisa.
Anche se ognuno viveva nel suo castello, distante dall’altro dieci miglia, avvenne che Guiglielmo Guardastagno, nonostante l’amicizia che lo legava all’altro, si innamorò perdutamente della moglie di Guiglielmo Rossiglione, che era bellissima e leggiadra.
Anche la donna lo ricambiò e ben presto i due si incontrarono e si amarono appassionatamente.
Poiché i due non erano molto prudenti, il marito si accorse della cosa e si sdegnò moltissimo.
L’amicizia e l’affetto che provava per il Guardastagno si trasformò in odio mortale.
Pure egli seppe nascondere l’odio meglio di quanto i due amanti avevano nascosto il loro amore; decise, comunque, di uccidere il compagno.
Frattanto si bandì in Francia un gran torneo.
Rossiglione, meditando la vendetta,  invitò il Guardastagno a cenare con lui il giorno seguente, per decidere se volevano partecipare al torneo e come.
Lietissimo il giovane accettò l’invito.
Il giorno seguente il marito tradito tese al rivale un agguato nel bosco dove doveva passare.
Dopo una lunga attesa lo vide arrivare, accompagnato da due servitori, disarmato come chi non aveva niente da temere, e lo aggredì colpendolo con una lancia.
Il Guardastagno morì ,senza potersi difendere. I suoi servitori, senza riconoscere chi l’avesse ucciso, voltati i cavalli , fuggirono verso il castello del loro signore.
Il Rossiglione, smontato da cavallo, aprì con un coltello il petto del morto e con le proprie mani ne trasse il cuore. Messolo in una banderuola, attaccata alla punta della lancia, lo fece portare al castello dai servitori, cui aveva ordinato di non far parola dell’accaduto con nessuno. Poi rimontò a cavallo e se ne ritornò al castello, essendo sopraggiunta la notte.
La moglie ,sapendo che l’amante era stato invitato a cena, vedendo arrivare il marito da solo, un po’ turbata chiese sue notizie. L’uomo rispose che l’ospite non poteva essere presente quella sera.
Poi chiamò il cuoco , gli ordinò di cucinare un cuore di cinghiale nella maniera migliore, come sapeva ben fare, e di servirlo su un piatto d’argento.
Il cuoco, obbedendo agli ordini del signore, lo sminuzzò, lo condì con molte spezie e ne fece un manicaretto prelibato.
All’ora giusta messer Guiglielmo si mise a tavola con la moglie.
La vivanda fu portata, ma egli, turbato al pensiero del delitto commesso, mangiò poco, dicendo che non aveva fame.
Il manicaretto fu posto davanti alla moglie, che ,invece, aveva un buon appetito, lo cominciò a mangiare e, siccome era saporito, lo mangiò tutto.
Il cavaliere, come vide che la donna l’aveva mangiato tutto le chiese se la vivanda le era piaciuta.
La donna rispose che, in verità, le era piaciuta molto.
L’uomo rispose che non si meravigliava che da morto le era piaciuto ciò che da vivo le era piaciuto più di ogni altra cosa. E, alle insistenze della donna che lo interrogava ,rispose “ Quello che avete mangiato è veramente il cuore di messere Guiglielmo Guardastagno, che voi, donna sleale, amavate tanto; Sappiate che è certamente il suo, perché io stesso, con queste mie mani, glielo strappai dal petto, poco prima che tornassi”.
La moglie, udendo ciò che era successo, rimase a lungo senza parole, poi, rivolta al marito, disse “ Voi vi comportaste da cavaliere malvagio e sleale, perché io l’avevo scelto come mio amore , spontaneamente, senza che mi costringesse, e vi avevo oltraggiato; non lui, ma io dovevo pagare la pena. Ma a Dio non piaccia che su una così nobile vivanda , come è stata quella del cuore di un così nobile cavaliere,  ne vada un’altra”.
Detto ciò si alzò in piedi e , senza alcuna esitazione, si gettò dalla finestra. Caduta da una grande altezza, non solo morì, ma si sfracellò tutta.
Messer Guiglielmo, vedendo ciò, si turbò molto e ,temendo la punizione del conte di Provenza, fatti sellare i cavalli, andò via.
La mattina seguente gli abitanti dei due castelli, con grandissimo dolore e pianto, raccolsero i due corpi e li posero in una sola tomba, su cui furono scritti versi che indicavano coloro che vi erano sepolti e il modo e la ragione della loro morte.