giovedì 26 dicembre 2013

SECONDA GIORNATA – NOVELLA N.5


 Andreuccio da Perugia, venuto a Napoli a comprar cavalli, incappato in tre gravi incidenti, scampato a tutti, torna a casa con un rubino.


Fiammetta, alla quale toccava di raccontare, cominciò a dire che le pietre preziose trovate da Landolfo, le avevano ricordato un’altra novella, che, però, riportava gli avvenimenti di una sola notte.
Viveva a Perugia un giovane chiamato Andreuccio di Pietro, sensale di cavalli, il quale, avendo udito che a Napoli si vendevano degli ottimi cavalli, con nella borsa 500 fiorini d’oro, senza mai essere uscito di casa, partì con altri mercanti.
Giunto a Napoli una domenica, dopo il vespro, seppe dall’albergatore che l’indomani, a piazza Mercato , ci sarebbe stata la vendita dei cavalli.
Ne vide di molto belli, che gli piacquero e iniziò le trattative e, per mostrare che era in grado di pagare, da persona poco esperta, più volte, a destra e a manca, faceva vedere la borsa piena di fiorini ,che aveva con sé. Mentre discuteva, passò di lì una giovane siciliana bellissima, di facili costumi ,senza essere vista, vide bene la borsa e subito pensò che sarebbe stata meglio nelle sue mani.
Era con lei una vecchia anch’essa siciliana, la quale, come vide Andreuccio, gli corse incontro e lo abbracciò affettuosamente, la giovane notò tutto ma rimase in silenzio. Andreuccio le fece una gran festa, la invitò al suo albergo e se ne andò.
La ragazza che aveva seguito tutta la scena, pensando ad un piano per impadronirsi del denaro, si avvicinò alla vecchia e ,cautamente, cominciò a domandare chi era e da dove veniva il giovane, che cosa faceva lì e come lo conosceva. La donna spiegò che era stata a lungo in Sicilia col padre di lui e poi aveva vissuto a Perugia.
La giovane ,informata di tutto, maliziosamente si organizzò.
Impegnò la vecchia in lavori per l’intera giornata, affinchè non potesse andare a trovare il mercante.
Presa, poi, con sé una servetta molto sveglia, la mandò all’albergo dove Andreuccio si trovava, per riferirgli che una gentildonna di Perugia gli avrebbe parlato volentieri.
Egli, lusingato, si guardò allo specchio e, ritendosi un bel ragazzo, pensò che la donna si era innamorata di lui, come se a Napoli non ci fossero bei ragazzi; subito accettò l’invito e seguì la servetta ,senza dire niente, all’albergo.
La servetta ,rapidamente, condusse il giovane nel vicolo chiamato “Malpertugio” e già il nome indicava che era un luogo malfamato.
Ma egli, niente sospettando, lo ritenne un posto tranquillo.
Appena arrivati alla casa, la fantesca gridò “Ecco Andreuccio”. La donna era sulla scala ad aspettarlo, era giovane ,alta, con un viso bellissimo, con abiti distinti. Gli corse incontro scendendo le scale, con le braccia aperte, piangendo, gli baciò la fronte e ,con voce rotta dall’emozione, disse “ Andreuccio mio, tu sii il benvenuto”.
Egli fu molto sorpreso per l’accoglienza. La donna gli prese la mano e lo condusse prima in sala e poi nella sua camera, piena di fiori, profumata, con un letto di lusso, molti abiti e ricchi arredi, per cui ,il poverino credette di trovarsi alla presenza di una gran dama.
Postasi a sedere vicino al letto, tra lacrime e carezze, la donna gli raccontò che era sua sorella, ed era felice di aver ritrovato uno dei suoi fratelli prima di morire. Continuò col dire che Pietro, padre di entrambi, aveva dimorato ,per lungo tempo a Palermo, dove era stato molto amato da una gentildonna vedova, che deposta la paura del padre, dei fratelli e del disonore, si unì a lui e gli dette una figlia, cioè lei. Pietro, in seguito, dovette partire da Palermo e ritornare a Perugia, lasciando madre e figlia nella città, senza più cercarle, né ricordarsi minimamente di loro, dimostrandosi sommamente ingrato e meritevole di biasimo.
Cresciuta a Palermo, la madre che era ricca, la diede in moglie ad un uomo gentile e per bene di Agrigento (Girgenti), che, per amor suo ,si trasferì a Palermo.
Durante le guerre tra Angioini (Francesi) e Aragonesi (Spagnoli) , dovettero fuggire dalla Sicilia.
Prese poche cose, lasciate tutte le ricchezze, si rifugiarono a Napoli ,accolte da re Carlo, che, per riparare ai danni subiti, dette loro terre e possedimenti e continuò a proteggerle, dando aiuto al marito e cognato di Andreuccio, suo dolce fratello. Il giovane, udendo il racconto, tanto preciso, raccontato senza nessuna incertezza, ricordandosi che, veramente, il padre era stato per un certo tempo a Palermo, conoscendo i costumi dei giovani, vedendo le lacrime, gli abbracci e gli onesti baci, ritenne ciò che la donna diceva assolutamente vero. Meravigliato ,dichiarò che mai il padre aveva accennato di lei e della madre. Pure era felicissimo di aver trovato a Napoli dov’era solo e senza compagnia, un sorella così raffinata, mentre lui era un piccolo mercante. Chiese, comunque, come aveva saputo chi era.
Ella rispose che la mattina glielo aveva detto una donna che aveva vissuto, per molto tempo, con il padre a Palermo e poi era andata a vivere a Perugia.
Poi cominciò a informarsi di tutti i parenti, elencandone i nomi, cosa che convinse maggiormente Andreuccio.  La donna fece poi portare del greco (vino) locale e dolciumi, offrì da bere al giovane e ,visto che voleva ritornare in albergo, finse di rammaricarsi molto e lo invitò a cena, sebbene non ci fosse il marito. Preoccupandosi l’uomo di dover avvisare l’albergatore, la donna finse di inviare un servo all’albergo per avvertire che il mercante sarebbe rimasto fuori.
Cenarono ,poi, lietamente fino a notte inoltrata. Al momento di congedarsi , astutamente, ella sconsigliò al giovane di avventurarsi per le strade di Napoli, che erano malsicure, soprattutto per un forestiero e lo invitò a dormire nella sua camera,  infine ,si ritirò con la servitù nell’altra camera.
Rimasto solo ,Andreuccio, per il gran caldo , si svestì ,e poggiò i suoi abiti ai piedi del letto, rimanendo in gilè. Dovendo andare in bagno, chiese ad un fanciullo dove si trovava il gabinetto. Seguendo le indicazioni, senza alcun sospetto, entrò e pose il piede su una tavola che si capovolse facendolo cadere di sotto, dove si raccoglievano i liquami delle feci.
Era caduto in un buco, come ce ne sono spesso tra due case, su cui erano poste due travi, dove sedeva la gente che doveva defecare. Trovandosi, dunque, nel buco, cominciò a chiamare lo scugnizzo che, invece ,era andato ad avvisare la donna.
Ella senza preoccuparsi, cercò tra i panni dello sventurato i denari e, avendoli trovati ,se ne appropriò.
Andreuccio, compreso l’inganno, faticosamente, riuscì a risalire dal buco e andò a bussare lungamente con violenza alla casa, ma non ebbe alcuna risposta.
Piangendo, perchè comprendeva bene la sua disavventura , disse “O me misero, in poco tempo ho perduto 500 fiorini e una sorella”.
Tanto bussò e picchiò che svegliò tutto il vicinato, chiedendo chi conosceva madama Fiordaliso, di cui era il fratello. Tutti, ridendo, lo schernirono e richiusero le finestre.
Ben presto il dolore si tramutò in rabbia ed il giovane continuò a picchiare contro l’uscio , con una gran pietra, creando un putiferio. Alla fine si udì una voce terribile che chiedeva chi era laggiù, che disturbava.
L ‘uomo, che a giudizio di Andreuccio, doveva essere una persona importante, minacciò di dargli tante bastonate, perché si comportava come un asino fastidioso e ubriaco e non lasciava dormire nessuno.
Il mercante, ascoltando i consigli di alcuni vicini, che temevano per la sua vita, si allontanò, disperato per i denari perduti, non sapendo dove andare e come ritornare all’albergo.
Sentendo un gran puzzo provenire da sé stesso, desideroso di gettarsi in mare per lavarsi, girò a sinistra e andò per la via Catalana.
Per sfuggire a due uomini che venivano verso di lui con una lanterna, si rifugiò in un casolare.
Purtroppo, anche i due entrarono nel casolare. Uno si tolse di dosso alcuni attrezzi che teneva sulle spalle e si guardò intorno, per individuare da dove proveniva il gran puzzo che si sentiva.
Finalmente scovò il poveretto , che cercava di nascondersi in tutti i modi.
Una volta scoperto, Andreuccio raccontò la sua disavventura. Immediatamente capirono che si trattava di Buttafuoco ,lo scarafaggio, e gli dissero di rallegrarsi perché se era vero che ,in quella notte ,aveva perso i denari, aveva ,comunque, salvato la vita perché non era stato ammazzato da Buttafuoco, che era un furfante matricolato. Mossi a compassione, lo invitarono ad unirsi a loro per aiutarli in ciò che dovevano fare. il giovane accettò.
In quel giorno era stato seppellito nel Duomo di Napoli, l’arcivescovo Filippo Minutolo, con ricchissimi ornamenti e con al dito un anello ,che valeva molto più dei suoi 500 fiorini , con un rubino che i due malandrini volevano rubare. Rivelarono il loro piano ad Andreuccio e lo convinsero a collaborare.
Poiché il giovane puzzava molto, per lavarlo lo portarono presso un pozzo vicino al Duomo .
Giunti al pozzo, poiché mancava il secchio per tirar su l’acqua,  lo legarono alla fune e lo calarono giù, accordandosi che ,una volta lavato, desse uno strattone alla fune, per farsi tirare su.
Mentre era in fondo, alcune guardie si avvicinarono al pozzo per bere, i ladri, vedendo che i gendarmi si avvicinavano, fuggirono a gambe levate, lasciando il giovane nel fondo.
Andreuccio, lavatosi, diede uno strattone alla fune, le guardie, pensando che il secchio si era riempito tirarono su.
Come il giovane toccò il bordo del pozzo ,si gettò sulla sponda , i gendarmi ,spaventati, fuggirono, mentre
egli raggiunse i due compari.
A mezzanotte, di soppiatto ,andarono al Duomo, entrarono facilmente e si avvicinarono al sepolcro che era di marmo e molto grande. Sollevarono il coperchio che era pesantissimo, in modo che vi potesse entrare un uomo, e lo puntellarono.
Bisognava che uno di loro entrasse nell’arca e Andreuccio  fu costretto ad entrarvi con le minacce.
Temendo che ,una volta portati fuori i gioielli dell’arcivescovo, i compagni potevano fuggire , lasciandolo nell’arca senza niente, ricordandosi del prezioso anello, lo sfilò dal dito del religioso e lo infilò al suo.
Poi spogliò il morto completamente e dette ai due tutto il resto, dicendo che non c’era più niente.
I ladroni insistevano perché cercasse l’anello, nel frattempo, tirarono via il puntello e lo chiusero nell’arca.
Il poveretto cercò ,in tutti i modi, col capo e con le spalle, di alzare il coperchio, senza riuscirvi.
Vinto da un gran dolore, cadde come morto sul corpo del prelato. Ripresosi , cominciò a piangere pensando alla morte orribile che lo attendeva.
Mentre si disperava, sentì molte voci di gente che, come pensava, veniva a fare quello che aveva già fatto con i suoi compagni. Anche costoro, una volta aperta e puntellata la tomba, cominciarono a discutere su chi dovesse entrare, allora un prete, non temendo i morti, che riteneva inoffensivi, si offrì volontario, si sporse sul bordo e mise le gambe giù , per potersi calare.
Andreuccio per risalire afferrò le gambe del prete e le tirò. Sentendosi afferrare ,il prete emise un grido altissimo   e si gettò fuori. Tutti, spaventati ,lasciata aperta la tomba, fuggirono come se fossero inseguiti da centomila diavoli.
Tranquillamente Andreuccio risalì e uscì dalla chiesa per la via da cui era venuto.
All’alba, con al dito l’anello di rubini, giunse, per caso, alla marina e al suo albergo, dove trovò i suoi compagni e l’albergatore che ,tutta la notte, erano stati in ansia per lui, ai quali raccontò la sua avventura, senza accennare al rubino. L’oste gli consigliò di partire immediatamente.
Giunto a Perugia, vendette l’anello, dicendo che a Napoli, dove era andato a comprare dei cavalli, aveva investito i suoi denari nell’acquisto di un anello. 











giovedì 19 dicembre 2013

SECONDA GIORNATA - NOVELLA N.4

SECONDA GIORNATA – NOVELLA N.4


Landolfo Rufolo, caduto in povertà, diventa corsaro, catturato dai genovesi, naufraga e si salva appoggiandosi a una cassetta piena di tesori; Accolto a Corfù da una donna, torna ricco a casa sua.

Vedendo che Pampinea aveva smesso di narrare, Lauretta ,che le sedeva vicino, immediatamente cominciò a parlare, tenendo conto del tema di quella giornata.
Considerò, innanzitutto che la maggior prova della potenza della fortuna era il fatto che ,talvolta, chi era caduto in disgrazia si risollevava, come, appunto, era accaduto ad Alessandro, il protagonista della novella precedente. Poi iniziò un racconto che, partendo da gravi sventure, si sarebbe concluso con una splendida riuscita.
La storia era ambientata nel litorale che andava da Reggio Calabria a Gaeta; lungo di esso, nei pressi di Salerno, vi era la costiera di Amalfi, che si affacciava sul mare, piena di piccole città, di giardini, di fontane e di uomini ricchi  che vivevano di commerci. Tra queste cittadine ,ve ne era una, chiamata Ravello, dove abitava un uomo di nome Landolfo Rufolo, ricchissimo, il quale, desiderando raddoppiare la sua ricchezza, corse il rischio di perdere la vita , insieme con le ricchezze.
Costui, come era usanza dei mercanti, fatti i suoi conti, comprò una grandissima nave, la caricò di molte mercanzie, comprate con i suoi soldi, e anche di donne e partì per Cipro. Lì giunto, trovò molti altri mercanti, provenienti da tutte le parti del mondo, che parimenti commerciavano.
 Dovette, dunque, svendere le sue mercanzie, dandole quasi per niente, e per questo andò in rovina.
 Pensò ,quindi, o di morire o di andare a rubare. Trovato un compratore, vendette la sua grande nave e , con i soldi avuti, comprò una navicella agile e snella da corsaro, la armò in maniera adeguata e si diede alla vita di corsaro, derubando soprattutto i turchi.
Questa attività fu favorita dalla fortuna, molto più che quella, precedente, di mercante.
Dopo circa un anno rubò e catturò tante navi dei turchi, che non solo recuperò tutte le ricchezze che aveva perduto facendo il mercante, ma le raddoppiò completamente.
Reso prudente dalla prima perdita, misurando bene le sue sostanze, per evitare un secondo dissesto finanziario, decise che quello che aveva gli doveva bastare e che voleva ritornare a casa sua.
Non volle investire i suoi denari in altre avventure, ma, imbarcatosi su quella navicella che glieli aveva procurati, riprese la via di casa.
Era già giunto nell’Arcipelago Egeo, quando ,una sera, si alzò lo scirocco, che, non solo gli impediva di navigare, ma rendeva così agitato il mare che la sua nave non avrebbe potuto sopportarlo.
Si rifugiò, allora, in una insenatura del mare protetta da un’isoletta, decidendo di aspettare lì il momento più propizio al viaggio.
In questa insenatura, poco distante, due cocche (navi da trasporto) genovesi, che venivano da Costantinopoli, giunsero a fatica, per ripararsi, come aveva fatto Landolfo.
I naviganti ,vista la piccola nave bloccata nel porticciuolo, udendo a chi apparteneva, sapendo ,per fama, che il proprietario era ricchissimo, essendo ladri e desiderosi di danaro, decisero di appropriarsene.
Fatta scendere una parte degli uomini armati di balestre ed altre armi, fecero circondare la navicella, in modo che nessuno potesse scendere da essa , se non voleva essere colpito dalle frecce delle balestre; gli altri, trasportati dalle scialuppe e aiutati dal mare, si accostarono alla barchetta e se ne appropriarono, in breve tempo, con tutta la ciurma, senza colpo ferire.
Fatto salire Landolfo, vestito solo con il gilè, su una delle loro cocche, sfondarono la navicella e la affondarono.
Il giorno dopo, mutatosi il vento, le cocche fecero vela verso ponente, viaggiando per tutta la giornata favorevolmente . Sul far della sera, il vento cambiò, diventando fortissimo e gonfiando oltremodo  il mare, dividendo le due navi.
La nave su cui si trovava il misero Landolfo, con grande violenza, fu sbattuta in una secca  sull’isola di Cefalonia e, come un vetro che sbatteva contro un muro, si aprì tutta e si sgretolò.
Gli sventurati che si trovavano sulla cocca, come suole avvenire in questi casi, essendo già il mare pieno di mercanzie, di casse e di tavole, in una notte nerissima, con un mare agitatissimo, nuotando al meglio che potevano, si cominciarono ad aggrappare alle cose che, per fortuna, si paravano davanti.
Tra questi il povero Landolfo, avendo più volte invocato la morte preferendo quella piuttosto che ritornare povero e malandato a casa, quando se la vide vicina ne ebbe paura e ,come tutti gli altri, si aggrappò ad una tavola, ringraziando Dio che gliel’aveva mandata, per impedire che affogasse.
A cavallo di quella, come meglio poteva, spinto di qua e di là, si mantenne fino all’alba.
Guardandosi intorno, non vedeva altro che nuvole e mare ed una cassa che, con sua grande paura, gli si avvicinò, sospinta dalle onde.
Temendo che la cassa, avvicinandosi, lo potesse colpire, nonostante avesse poca forza, con la mano la allontanava .Sospinta da un improvviso colpo di vento, la tavola urtò la cassa, gettando  il giovane in mare. Landolfo andò sotto le onde e quando riemerse, non trovando più la tavola, si appoggiò col petto al coperchio della cassa che gli era assai vicina e, come meglio poteva, la teneva diritta.
In questo modo, senza mangiare e bevendo acqua di mare molto più di quanto avrebbe voluto, senza sapere dove fosse e vedendo nient’altro che mare, trascorse tutto quel giorno e la notte seguente.
Il giorno dopo ,come piacque a Dio e al vento, diventato quasi una spugna, attaccato con forza ai bordi della cassa, giunse alla spiaggia dell’isola di Corfù, dove una povera donnetta lavava i piatti con l’acqua salata e la sabbia. Come costei vide qualcosa che si avvicinava, cominciò a gridare spaventata.
Lo sventurato non poteva parlare e vedeva poco per cui non disse niente; man mano che si avvicinava, la donna riconobbe la cassa e, vedendo le braccia e la faccia dell’uomo ,capì quello che era successo.
Mossa a compassione, entrata un po’ nel mare, che, frattanto, si era calmato, afferratolo per i capelli, lo tirò a terra con tutta la cassa ,che pose sulla testa della figlioletta che era con lei ,e lo portò al villaggio.
Fattogli un bel bagno caldo, come a un bambino, tanto lo massaggiò e lo lavò, che ,ben presto, il naufrago ritrovò il calore e le forze perdute.
Lo trattò con grande cura, rifocillandolo con buon vino e dolciumi, trattenendolo per alcuni giorni, fino a quando, recuperate le forze, non ricordò chi era  e chiese dove si trovava.
La brava donna gli consegnò la cassa che aveva salvata dalle onde ,insieme con lui, e gli disse che ormai poteva andare per la sua strada.
Il giovane, che non se ne ricordava per niente, prese la cassa, pensando che potesse valere qualcosa, ma visto che pesava poco, non aveva molte speranze.
Un giorno, mentre la donna non era in casa, la aprì e trovò in essa un vero tesoro : molte pietre preziose, alcune montate, altre sciolte, delle quali era buon intenditore. Vedendole, provò un grande conforto, lodando Dio che non lo aveva voluto abbandonare.
Poi, con molta prudenza, come uno che , in poco tempo e per ben due volte aveva subito i colpi della fortuna, temendo che potesse essercene anche una terza, si organizzò per potersi portare a casa sua quei tesori.
Avvolte le pietre in alcuni stracci, come meglio potè, disse alla buona donna che non aveva più bisogno della cassa e che gliela donava in cambio di un sacco, se era possibile.
La donna l’accontentò volentieri, egli la ringraziò caldamente e messosi il sacco in spalla, partì .
Salito su una nave, arrivò a Brindisi e, di porto in porto, giunse fino a Trani, dove incontrò alcuni suoi concittadini, che commerciavano in stoffe, ai quali raccontò le sue vicissitudini, ma, prudentemente, non accennò alla cassa .
Costoro lo rivestirono, gli prestarono un cavallo e lo rimandarono a Ravello, dove diceva di voler tornare, dandogli una compagnia.
Giunto finalmente nel suo paese, sentendosi al sicuro, ringraziando Iddio, sciolse il sacchetto e guardò, con più attenzione, le pietre che vi erano contenute. Le vide belle e preziose sopra ogni sua aspettativa e calcolò che vendendole anche a un prezzo inferiore al loro valore, sarebbe diventato ricco il doppio di quando era partito.
Vendute le pietre, mandò fino a Corfù una buona quantità di denaro alla donna che lo aveva salvato dalle acque del mare e lo stesso fece per coloro che a Trani lo avevano aiutato.
Si tenne il resto senza voler più fare il mercante e così visse onorevolmente fino alla fine.






giovedì 12 dicembre 2013

SECONDA GIORNATA - NOVELLA N.3

SECONDA GIORNATA – NOVELLA N.3


 Tre giovani dissipano tutti i loro averi; il nipote di uno di questi, si accompagna ad un abate. Tornando a casa, disperato, si accorge che era la figlia del re d’Inghilterra, che lo sposa .Così risolve i problemi degli zii, rimettendo tutto a posto.

Furono ascoltate ,con divertimento le vicende di Rinaldo d’Asti, la sua devozione a Dio e a San Giuliano, né fu ritenuta sciocca la donna che aveva usato il bene che Dio le aveva mandato in casa.
Toccò, poi, a Pampinea, che sedeva a fianco di Filostrato,  iniziare a parlare, al comando della regina .
Fece, inizialmente,sagge considerazioni sulla fortuna, dicendo che tutto è nelle sue mani ed essa muove le cose della vita ,secondo un suo giudizio, nascosto agli esseri mortali.
Cominciò a raccontare che, un tempo, viveva in Firenze un cavaliere di nome Teobaldo, che ,secondo alcuni, apparteneva alla famiglia dei Lamberti, secondo altri a quella degli Agolanti. Ma, a prescindere dalla famiglia di appartenenza, era un ricchissimo cavaliere ed aveva tre figli. Il primo si chiamava Lamberto, il secondo Teobaldo ed il terzo Agolante, tutti belli ed eleganti.
Quando il primo non aveva ancora diciotto anni, messere Teobaldo morì e lasciò a loro, come legittimi eredi, tutti i beni mobili ed immobili. I giovani, vedendosi ricchissimi, cominciarono a spendere senza alcun ritegno, tenendo un gran numero di servi, molti cavalli, cani ed uccelli, facendo continue feste e banchetti, dilettandosi in tutto quello che piaceva loro, sia per la posizione sociale che per la giovane età.
Questa vita allegra non durò a lungo, ben presto consumarono il tesoro lasciato dal padre e dovettero vendere tutti i possedimenti, riducendosi in povertà.
Lamberto, chiamati i suoi fratelli e ricordando la magnificenza del padre, il loro disordinato spendere, la povertà in cui si trovavano in quel momento, decise con i fratelli di vendere quel poco che era rimasto e di andarsene via, e così fecero.
Senza salutare nessuno partirono da Firenze e se ne andarono in Inghilterra .
Qui presero una casetta, molto piccola, e cominciarono a prestare ad usura.
 La fortuna li aiutò e ,ben presto, accumularono una grandissima quantità di denaro.
Tornati a Firenze , ricomprarono i loro possedimenti e molte altre cose e si sposarono.
Continuarono a prestare soldi in Inghilterra e, per curare i loro affari, mandarono lì un nipote di nome Alessandro. Non avevano, comunque, messo giudizio e , dimenticando dove li aveva portati lo spendere dissennatamente, ripresero la vita di prima, buttando i soldi dalla finestra.
Per un po’ di anni li aiutò il danaro mandato da Alessandro, che si era messo a prestare ai baroni che impegnavano i castelli e le altre entrate, e la cosa gli rendeva molto bene.
Mentre i tre fratelli continuavano a spendere, sperando nei soldi provenienti dall’Inghilterra, contro ogni aspettativa, scoppiò una guerra tra il re (Enrico II) e suo figlio (Enrico) che divise tutta l’isola, parteggiando alcuni nobili per il re e altri per il figlio. Per questo tutti i castelli dei baroni furono tolti ad Alessandro, che rimase lì, in attesa che ritornasse la pace e gli fossero restituite le ricchezze, ma non mandò più soldi a Firenze. I tre spendaccioni persero nuovamente i loro averi e furono imprigionati per debiti, mentre le loro donne e i loro figli più piccoli se ne andarono chi di qua chi di là, vivendo in miseria.
Alessandro, avendo perso ogni speranza che ritornasse la pace, ritenendo che era inutile rimanere in Inghilterra, decise di ritornare in Italia e, solo soletto, si mise in cammino.
Uscendo da Burges, si imbattè in una carovana al seguito di un abate ,vestito di bianco, accompagnato da molti monaci, molti servi con molti bagagli, e, infine, da due anziani cavalieri ed altri parenti.
Alessandro fu accolto volentieri nella compagnia.
Mentre camminavano, il giovane chiese chi erano i monaci e dove andassero. Uno dei cavalieri rispose che il giovinetto che cavalcava davanti era un loro parente che era stato eletto abate di una delle più importanti badie d’Inghilterra. Poiché era troppo giovane per ricoprire la carica e ciò non era consentito dalla legge, andavano a Roma per pregare il Santo padre di concedere la dispensa e autorizzarlo a ricoprire l’incarico. Tutto questo, però, doveva rimanere segreto.
Il novello abate, mentre procedevano, spostandosi avanti e dietro, vide Alessandro che era un bel giovane,
molto garbato e con modi gentili ed eleganti, e ne rimase conquistato a prima vista.
Lo chiamò a sé e, discorrendo piacevolmente, gli chiese donde venisse e dove andasse. Il giovane rispose con sincerità a tutte le domande e si mise a disposizione, sebbene potesse fare poco. Il prelato, visto che era una persona gentile, che ragionava con garbo, fu ancora più attratto e, pieno di compassione per le sue sventure, lo confortò e, visto che andava verso la Toscana, lo invitò a viaggiare insieme.
 Procedendo, giunsero in un villaggio, dove c’era solo un alberghetto. Alessandro, che conosceva l’albergatore, fece preparare per l’abate la stanza migliore della casa, poi, come se fosse stato il maggiordomo, diede disposizioni per gli alloggi di tutta la schiera.
Dopo cena, a notte inoltrata, essendo tutti andati a dormire, domandò all’oste dove egli stesso potesse sdraiarsi. L’altro rispose che l’albergo era tutto pieno, solo nella camera dell’abate vi erano dei granai su cui il giovane poteva dormire ,arrangiandosi.
Alessandro era perplesso, in quanto avrebbe preferito dormire con gli altri monaci, senza disturbare il religioso, che dormiva profondamente. Alla fine il giovane , date le insistenze, si sistemò su un granaio con una coperta addosso, cercando di fare meno rumore possibile.
L’abate, che non dormiva per niente, ma era immenso in pensieri d’amore, aveva sentito tutto quello che i due si erano detti e anche dove si era sistemato Alessandro.
Tutto contento disse tra sé” Iddio mi ha mandato questa occasione, se non la prendo, non mi capiterà mai più”. Con voce sommessa, invitò, perché si coricasse vicino a lui, Alessandro, che dopo aver più volte rifiutato, si spogliò e si coricò.
L’abate , avvicinatosi lo cominciò a toccare come fanno le fanciulle innamorate con i loro amanti. Il giovane era sconcertato e non sapeva cosa fare, allora l’altro gli prese una mano e se la pose sul petto dicendo “Alessandro, scaccia ogni sospetto, ti svelo il mio segreto”.
  L’uomo con la mano , posta sul petto del religioso, sentì due seni tondi, sodi e delicati, come se fossero stati d’avorio, comprese, allora, che era una donna, e, senza indugio, voleva abbracciarla e baciarla.
 Ed ella disse “ Come puoi vedere sono femmina e non uomo, e, come fanciulla, stavo andando dal Papa perché mi sposasse; per mia sventura come ti vidi, mi innamorai perdutamente di te. Per questo ho deciso che voglio avere come marito solo te. Se tu non mi vuoi come moglie allontanati da qui e vai per la tua strada”.
Alessandro, sebbene non la conosceva, vedeva che era bellissima e doveva essere molto ricca, dato il seguito che aveva. Accettò, dunque, la proposta di matrimonio ben volentieri. 
La fanciulla, messasi a sedere davanti ad un dipinto di nostro Signore, gli pose in mano un anello, come promessa di matrimonio. Poi si abbracciarono e trascorsero la notte in giochi amorosi, che erano graditi ad entrambi.
All’alba, l’uomo, alzatosi, tutto sorridente, uscì dalla stanza senza che nessuno sapesse dove aveva dormito la notte. La carovana riprese il cammino e, dopo alcuni giorni, giunsero a Roma.
Lì  l’abate, con i due cavalieri ed Alessandro, senza nessun altro, fu ricevuto dal Papa.
Fatta la dovuta riverenza, l’abate cominciò a parlare “ Santo padre, ognuno deve vivere bene e onestamente,
come voglio fare io. Nell’abito in cui mi vedete sono fuggita ,con molte ricchezze del re d’Inghilterra, da mio padre, il quale mi voleva dare in sposa al re di Scozia, che è vecchissimo, e mi voleva far sposare da vostra Santità. Mi fece fuggire non tanto la vecchiaia del re di Scozia, quanto la paura che, una volta maritata, potessi fare qualcosa contro le leggi divine e contro l’onore del re mio padre.
Durante il viaggio, Dio, per sua misericordia, mi pose davanti colui che voleva che io avessi come marito : questo giovane”.
E gli mostrò Alessandro elogiandone l’onestà, il valore, anche se non era nobile come lei.
 Dichiarò che si era unita a lui, lo voleva, e non avrebbe sposato nessun altro qualsiasi cosa dicesse suo padre. E continuò dicendo “ Santità, vogliate benedire il matrimonio che Alessandro ed io abbiamo contratto alla presenza solo di Dio. Con la vostra benedizione, che ci darà la certezza che esso è gradito a Dio, di cui voi siete il vicario, noi possiamo onestamente vivere ed , infine,  morire”.
Il giovane si meravigliò udendo che la moglie era la figlia del re d’Inghilterra e ne gioì profondamente.
Anche i due cavalieri si stupirono, e ancor più si stupì  il Papa, ma, sapendo che non si poteva più tornare indietro, volle soddisfare la preghiera della donna.
Nel giorno fissato per la cerimonia, il Papa, davanti a tutti i cardinali e i nobili, che aveva invitati per fare una
gran  festa, fece venire la donna, regalmente vestita, che era uno splendore, ed Alessandro , anch’egli riccamente vestito, tanto che pareva un re e non un usuraio .
Fece celebrare nozze solenni, e poi licenziò gli sposi con la sua benedizione.
I due sposi si recarono, poi ,a Firenze, dove l’uomo pagò i debiti, fece liberare i tre fratelli e li rimise  con le loro donne nei possedimenti riacquistati.
Ripartirono ,infine, per Parigi, dove furono ricevuti dal re, portando con loro Agolante.
Frattanto, i due cavalieri andarono in Inghilterra e riuscirono a convincere il re ad accogliere i due sposi. Il Re li ricevette con grandissima festa e, poco dopo, nominò Alessandro cavaliere e gli donò la contea di Cornovaglia.  
Il giovane seppe operare così bene che pacificò il figlio con il padre, cosa che fu molto utile all’isola e ai suoi affari. Agolante, raccolti tutti i crediti ,straordinariamente ricco, ritornò a Firenze.
Alessandro visse felicemente con la sua donna e, secondo quanto si dice, con l’aiuto del suocero, conquistò la Scozia e fu incoronato re.




giovedì 5 dicembre 2013

SECONDA GIORNATA - NOVELLA N.2

SECONDA GIORNATA – NOVELLA N.2


Rinaldo d’Asti, derubato, capita a Castel Guglielmo ed è ospitato da una donna vedova, risollevato dalle sventure torna sano e salvo a casa sua.


Delle sventure di Martellino, raccontate da Neifile, risero le donne e soprattutto, tra i giovani, Filostrato, al quale, poiché sedeva vicino a Neifile, la regina comandò di continuare.
Ed egli iniziò, dicendo che voleva raccontare una novella di carattere religioso. In essa si mescolavano sventure e amore e doveva essere ascoltata da coloro che si mettevano in viaggio, che dovevano tutti dire ,prima di partire, un padrenostro a San Giuliano, protettore dei viaggiatori.
Un mercante di nome Rinaldo d’Asti, al tempo di Azzo da Ferrara ( intorno al 1300), era venuto a Bologna, per fare acquisti. Tornando a casa, dopo essersi rifornito, uscito da Ferrara e andando verso Verona, incontrò alcuni mercanti che parevano ,piuttosto dei masnadieri, ai quali, imprudentemente, si aggregò.
Costoro, stimandolo ricco e ben in soldi, decisero di derubarlo, alla prima occasione, anche se con lui fingevano di essere onesti e leali e si mettevano a disposizione per ogni sua esigenza.
Mentre camminavano, discutendo del più e del meno, cominciarono a ragionare delle preghiere che gli uomini facevano a Dio. Uno dei tre chiese a Rinaldo quali orazioni era solito fare a Dio quando si metteva in viaggio.
E Rinaldo rispose che era uomo all’antica e che dava poca importanza a queste cose, tuttavia aveva sempre avuto l’abitudine di dire, al mattino, quando usciva dall’albergo, un padrenostro e un’Ave Maria all’anima del padre e della madre di San Giuliano. Poi, pregava Dio e San Giuliano che gli dessero un buon alloggio per la notte seguente.
E, molte volte, viaggiando, aveva affrontato gravi pericoli ai quali era scampato, trovando un buon rifugio per la notte. Per questo rispettava la credenza che San Giuliano proteggeva i viaggiatori e non avrebbe mai più viaggiato tranquillo, se al mattino, prima di partire, non avesse rivolto la preghiera al Santo.
E i tre domandarono se quella mattina l’aveva detta. Rinaldo assentì..
Allora uno disse tra sé “ E a buon motivo ti servirà, perché ,se il nostro proposito non fallisce, stanotte tu alloggerai malissimo” e poi disse, rivolto a Rinaldo “Io, che pure, come te ,ho molto viaggiato, non l’ho mai detta, anche se ne ho sentito parlare da molti, eppure ho sempre albergato bene. Questa sera, per caso, vedremo chi alloggerà meglio, se tu che hai pregato o io che non ho pregato. Al posto del padrenostro io, di solito, dissi il “dirupisti” o il “ deprofundi” che mia nonna diceva che erano molto validi”.
Così conversando, procedevano, aspettando il momento opportuno per attuare il loro piano malvagio.
Giunti nelle vicinanze di Castel Guglielmo (nel Polesine), nell’attraversare un fiume, a notte inoltrata,assalirono Rinaldo e lo derubarono.
Allontanandosi, dopo averlo spogliato di tutto, lasciandolo solo con la camicia, gli dissero “Vattene e vedi se il tuo San Giuliano stanotte ti darà buon albergo, a noi il nostro ,sicuramente, lo darà buono”.
Il servitore di Rinaldo, vedendolo assalire, non si preoccupò di aiutarlo, ma, vigliaccamente, voltato il cavallo si diresse di corsa a Castel Guglielmo, dove, senza preoccuparsi, trovò ricovero.
Rinaldo, scalzo e in camicia, facendo molto freddo e nevicando, essendo già notte fonda, cominciò a cercare un rifugio per la notte, ma non ne trovò alcuno. Infatti, in quella zona c’era stata la guerra ed ogni cosa era stata bruciata. Spinto dal freddo si diresse verso Castel Guglielmo, per cercare soccorso.
Giunse al castello a notte fonda, quando le porte erano state chiuse e il ponte era stato alzato, perciò non potè entrare.
Cercando, affannosamente, un riparo dalla neve e dal gelo, vide una casa ,che sporgeva un po’ in fuori dalle mura del castello, subito decise di ripararsi lì fino all’alba. L’uscio era chiuso, ma, davanti ad esso ,il tetto sporgeva appena, raccolta un po’ di paglia che era lì vicino, si sistemò, lamentandosi che San Giuliano non si era comportato bene con lui. Ma San Giuliano, intervenendo rapidamente, gli preparò un buon alloggio.
Viveva in quel paese una vedova, bellissima come nessun’altra, che il marchese Azzo amava e teneva a sua disposizione. La donna abitava nella casa, sotto il cui tetto ,Rinaldo si era riparato.
Il giorno prima, il marchese, volendo la notte giacere con lei, nella casa aveva fatto preparare un bagno e un’ottima cena.
Era tutto pronto e la donna aspettava soltanto l’arrivo del marchese. Purtroppo arrivò un servo a cavallo, per avvisare la donna che il marchese era dovuto improvvisamente partire per cui non doveva più attenderlo.
 La donna, amareggiata, non sapendo cosa fare, decise di entrare nel bagno preparato per il signore, poi cenare ed, infine, andare a letto. Rapidamente entrò nel bagno, che era sistemato vicino alla porta, accanto alla quale si era rifugiato il meschino Rinaldo. Sentì il pianto ed il battito di denti, simile a quello di una cicogna, che faceva lo sventurato; chiamata la domestica, le disse di andare fuori a vedere chi c’era e che cosa faceva.
La fantesca andò , vide l’uomo semicongelato e gli domandò chi era.
Rinaldo le raccontò le sue disavventure e la pregò di non lasciarlo morire di freddo.
Udito il racconto, la vedova, presa la chiave che serviva per far entrare soltanto il marchese, disse alla domestica di aprire e di far entrare l’uomo ,che poteva mangiare, visto che la cena era pronta , e poteva essere ospitato senza problemi perché c’era molto spazio.
La fantesca, obbedendo all’ordine della padrona, lo fece entrare e, vedendo che era quasi assiderato, lo fece immergere nel bagno che era ancora caldo.
L’uomo fece tutto di buon grado e, riconfortato dal calore, gli parve di essere resuscitato.
La donna gli fece portare gli abiti del marito che era morto da poco, che gli andavano a pennello.
Il mercante, aspettando gli ordini della donna, cominciò a ringraziare Dio e San Giuliano che lo avevano salvato e gli avevano preparato un buon albergo per la notte.
La padrona, frattanto, chiese come stava l’uomo alla fantesca che, astutamente, rispose che si era rivestito e sembrava un bell’uomo e una persona per bene. Sentito ciò la donna lo fece invitare a cena, visto che non aveva cenato. Rinaldo ,entrato nella sala, ammirò la bellezza della dama e ringraziò per l’aiuto datogli.
La vedova, condividendo il giudizio della domestica, lo fece sedere familiarmente vicino al fuoco e si fece raccontare quello che gli era capitato. Confrontandolo con quanto aveva sentito dire in paese  riferito dal servo del mercante, gli credette completamente e gli disse ciò che sapeva del suo inserviente ,promettendo che  l’avrebbe fatto chiamare l’indomani.
 Poi, imbandita la tavola, dopo essersi lavate le mani, insieme si misero a cenare.
Rinaldo era alto, bello, di aspetto e di modi gentili, di mezza età (circa 35 anni). La donna cominciò a guardarlo con interesse e pensò che, poiché il marchese l’aveva lasciata sola quella notte, dopo aver destato in lei il desiderio d’amore, poteva usare quel bene che la fortuna le aveva mandato.
Dopo cena, alzatasi da tavola, chiese consiglio alla domestica che, conoscendo il suo desiderio, l’assecondò.
Tornata, dunque, vicino al fuoco, guardò amorosamente il giovane e gli disse “ Rinaldo, non siate così pensieroso, non pensate di poter recuperare il cavallo e gli abiti che avete perduto? Confortatevi, siete a casa vostra. Anzi ,vedendovi indossare i panni di mio marito morto, sembrando che siate proprio lui, mi è presa una gran voglia di abbracciarvi e di baciarvi, cosa che avrei certamente fatto se non avessi temuto di dispiacervi”.
Rinaldo ,udendo queste parole e vedendo la luce d’amore negli occhi di lei, le andò incontro a braccia aperte, dicendo “Signora, farò tutto quello che volete, perché vi sono grato di avermi salvato e, pensando alle cortesia che mi avete usato, vi accontenterò in tutto e se voi desiderate abbracciarmi e baciarmi, vi abbraccerò e bacerò più che volentieri”.
Non ci furono più parole. Dopo molti baci, ella, che ardeva di amoroso desiderio, lo condusse nella sua camera, e più volte si accoppiarono, come entrambi desideravano.
Sul far dell’alba, la donna , svegliatasi, perché non si potesse sospettare nulla, gli diede dei vecchi abiti, gli riempì la borsa di denari e, pregandolo di tener nascosto l’accaduto, lo fece uscire da dove era entrato.
Egli, fattosi giorno, entrò nel castello, ritrovò il servo e si rivestì con gli abiti che erano nella sua valigia.
Venne , poi, a sapere che i tre masnadieri che lo avevano derubato, per un altro furto che avevano fatto, erano stati catturati ed avevano confessato. Gli furono, dunque, restituiti il cavallo, i panni e i denari, perdette soltanto dei lacci per le scarpe che i ladroni avevano buttato.
Rinaldo, ringraziando Dio e San Giuliano, montò a cavallo e ritornò sano e salvo a casa sua, mentre i tre masnadieri furono impiccati.