giovedì 26 marzo 2015

OTTAVA GIORNATA – NOVELLA N.2

Il prete di Varlungo fa l’amore con monna Belcolore e le lascia in pegno il mantello; avuto in prestito da lei un mortaio, glielo rimanda e le fa chiedere il mantello lasciato per pegno; la buona donna glielo restituisce con un motto.

Sia gli uomini che le donne commentarono ciò che Gulfardo aveva fatto all’ingorda milanese.
Frattanto la regina ,sorridendo, si rivolse a Panfilo, imponendogli di continuare.
E Panfilo cominciò dicendo che voleva raccontare una novelletta contro coloro che continuamente offendevano gli uomini, che , a loro volta, non potevano ricambiare le offese, cioè contro i preti.
Essi avevano bandito una crociata contro le mogli e ,quando riuscivano a mettere sotto una, provavano una grandissima soddisfazione, come se avessero portato il sultano legato da Alessandria ad Avignone. Cosa che i miseri uomini secolari non possono fare contro di loro ,per vendicarsi.
Egli, dunque, voleva raccontare un amorazzo contadino, piuttosto breve, divertente per la conclusione, dal quale avrebbero potuto ben comprendere che ai preti non bisognava credere sempre.
A Varlungo, un villaggio lì vicino, come ciascuna di loro poteva aver udito, visse un prete valente e gagliardo nei rapporti con le donne. Egli, anche se non sapeva leggere troppo bene, pure ,con parole buone e sante, la domenica ,ai piedi dell’olmo, ricreava i suoi parrocchiani, e, meglio ancora, le loro donne, che, quando i mariti erano lontani, visitava più di quanto avesse fatto alcun altro prete prima di lui.
Portava loro roba da vendersi durante le feste, acqua benedetta, pezzi di candela, talvolta fino a casa, dando la benedizione..
Tra le sue parrocchiane ce n’era una che gli piaceva più delle altre, che si chiamava monna Belcolore, moglie di un contadino ,di nome Bentiveglia del Mazzo.
Belcolore era una contadinotta di bell’aspetto, fresca, brunazza e ben tarchiata, capace di macinar meglio di ogn’altra. Inoltre, sapeva suonare il cembalo e cantare l’acqua corre verso il burrone e danzare la ridda e il salterello, balli contadini, tenendo per mano il bambino bello e gentile.
Per quelle cose il prete si invaghì di lei tanto che smaniava e andava in giro tutto il giorno per poterla vedere.
Quando la mattina la sentiva in chiesa, cantava un kyrie e un Sanctus, volendo sembrare un gran maestro di canto, mentre pareva un asino che ragliava. Sapeva fare così bene che né Bentiveglia del Mazzo, né nessun altro se ne accorgeva.
Non potendo entrare in confidenza con monna Belcolore, di tanto in tanto le faceva dei doni, talvolta le mandava un mazzo di fiori freschi, che coltivava con le sue mani nel suo orto ed erano i più belli della contrada, altre volte un canestro di baccelli ed altre ancora un mazzo di cipolle fortissime e di scalogni.
Quando ne aveva l’occasione la guardava in cagnesco e amorevolmente la rimproverava.
Ella era scontrosetta e ,fingendo di non accorgersi dei corteggiamenti, faceva la contegnosa, per cui il prete non poteva venirne a capo.
Un giorno, a mezzogiorno, mentre il parroco se ne andava a zonzo, incontrò Bentivegna del Mazzo, che spingeva un asino carico di cose, e gli domandò dove andava.
Bentivegna gli rispose che andava fino in città per una sua faccenda e portava quelle cose a ser Bonaccorri da Ginestreto, giudice del maleficio, che l’aveva fatto chiamare per una comparizione in giudizio.
Il prete, tutto contento, gli diede la sua benedizione e gli raccomandò di ricordare a Lapuccio o a Naldino, se, per caso, li avesse incontrati, di mandargli le strisce per il corregiato.
Bentiveglia disse che l’avrebbe fatto e se ne andò a Firenze.
Il prete pensò che era tempo di andare da Belcolore per vedere se aveva fortuna. Si avviò e non si fermò finchè non giunse a casa di lei.
Belcolore era in soffitta, come lo sentì scese e si mise a pulire i semi di cavolini che il marito aveva trebbiato.
Il prete le cominciò a dire che lo faceva morire perché non accettava di fare l’amore con lui, come egli voleva e Dio comandava.
La donna, ridendo, gli disse che correva troppo e si chiedeva se anche i preti facessero quelle cose.
Il prete rispose che le facevavo meglio degli altri e non macinavano continuamente ma solo quando si raccoglieva. Questo era a suo vantaggio e , se se ne stava buona, glielo avrebbe dimostrato.
La Belcolore gli chiese che vantaggio ne avrebbe ricavato, visto che i preti erano più avari del diavolo.
E il prete, di rimando, le disse di chiedergli tutto quello che voleva: un paio di scarpette, una cintura di lana, un bel taglio di stoffa o qualsiasi altra cosa.
La donna rispose che di quelle cose ne aveva già; se le voleva bene, le doveva fare un servizio, poi avrebbe fatto tutto quello che voleva.
Il prete promise di accontentarla.
La Belcolore allora gli disse che il sabato seguente doveva andare a Firenze per portare la lana che aveva filata e far aggiustare il suo filatoio. Gli chiese di prestarle cinque lire, che sicuramente aveva, per riscattare dall’usuraio una sua gonna, una cintura per i giorni di festa, che aveva portato in dote, senza la quale non poteva andare in chiesa, né in alcun luogo elegante. Promise che, dopo, avrebbe fatto tutto ciò che egli voleva.
Il prete rispose che purtroppo non aveva denari con sé, ma che prima del sabato glieli avrebbe fatti avere.
La donna non credeva alla promessa e non voleva fare la fine della Biliuzza, che era stata ingannata da inutili promesse ,non mantenute, ed era finita a fare la mala femmina; se non li aveva, andasse a prenderli.
Il prete insistette che non poteva andare a casa sua anche perché il momento era propizio, non c’era nessuno, mentre , al suo ritorno, avrebbe potuto trovare qualcuno che desse loro fastidio.
Ma la donna fu irremovibile.
Il prete, vedendo che la donna non voleva accontentarlo senza una garanzia, ed egli voleva fare l’amore senza alcun pegno,le disse che le avrebbe lasciato, come pegno ,il suo mantello di panno azzurrino.
La donna, sollevato il viso, gli chiese quanto poteva valere quel mantello. Il parroco, prontamente, rispose che era di buona qualità e che non erano ancora passati quindici giorni da quando l’aveva comprato da Lotto rigattiere. Il mantello valeva ben sette lire ma egli l’aveva pagato, a buon mercato, solo cinque lire. Aveva fatto un buon affare, a detta di Buglietto, che conosceva molto bene il prezzo di quei tabarri .
La donna, vistone il valore, se lo fece dare e lo ripose in una cassa.
Dopo che l’ebbe riposto, condusse il prete in una capanna, dove non andava mai nessuno.
Lì si dettero i più dolci baci del mondo e si sollazzarono per lungo tempo. Poi il prete, in gonnella, come se andasse a celebrare le nozze, se ne tornò in chiesa.
Lì giunto, pensando che con pochi spiccioli d’offerta che raccoglieva in un anno intero non avrebbe raggiunto che la metà di cinque lire, si pentì di aver lasciato il tabarro e cominciò a pensare a come doveva fare per riaverlo, senza pagare nulla.
Siccome era un po’ maliziosetto, mise a punto un piano.
Poiché il giorno seguente era festa, mandò il figlio di un suo vicino di casa da monna Belcolore a pregarla che gli prestasse il suo mortaio di pietra. Infatti l’indomani doveva preparare una salsa perchè aveva a pranzo Binguccio dal Poggio e Nuto Buglietti.
La Belcolore glielo mandò.
Giunta l’ora del desinare,il prete, che spiava, quando vide che Bentivegna e la moglie stavano mangiando, mandò il chierichetto a restituire a Belcolore il mortaio. Gli disse anche di chiedere indietro alla donna il mantello ,che le aveva lasciato in pegno.
Il chierico andò a casa della Belcolore, posò il mortaio e fece l’ambasciata del prete.
Bentivegna impedì alla moglie di rispondere e la rimproverò aspramente perché aveva chiesto un pegno al prete. Le ordinò di restituire subito il tabarro, perché erano tali i rapporti con il prete, che , se glielo avesse chiesto, gli avrebbe dato anche il suo asino.
La Belcolore, borbottando, si alzò, andò a prendere dalla cassa il tabarro, lo dette al chierico e disse “ Devi dire così da parte mia al tuo signore: la Belcolore dice che prega Dio che voi non dobbiate più pestare la salsa nel suo mortaio”.
A sua volta, il prete, ricevuta l’ambasciata, ridendo, disse “ Quando la vedrai, le dirai che se ella non ci presterà più il mortaio, io non le presterò il pestello; vada l’un per l’altro”.
Bentiveglia credeva che la moglie aveva risposto in quel modo perché l’aveva sgridata e non se ne curò.
Belcolore litigò col prete e non gli parlò più fino alla vendemmia.
Avendola, poi, il prete minacciata di farla finire in bocca a Lucifero, si spaventò e, con il mosto e le castagne calde, si rappacificò con lui e insieme più volte gozzovigliarono.
In cambio delle cinque lire il prete le fece aggiustare il cembalo e gli fece aggiungere un sonaglio, ed ella fu contenta.








mercoledì 18 marzo 2015

OTTAVA GIORNATA - NOVELLA N.1

OTTAVA GIORNATA – NOVELLA N.1

Gulfardo si fa prestare dei soldi da Guasparruolo, e essendosi accordato con la moglie di lui di giacere con lei, le dà quei soldi; poi in presenza di lei dice a Guasparruolo che li aveva dati a lei ed ella dice che è la verità.

Neifile volentieri incominciò a dire che le piaceva raccontare di una beffa fatta da un uomo ad una donna, non per biasimare ciò che l’uomo fece, ma per dimostrare che anche gli uomini sapevano beffare chi credeva in loro, come erano beffati da coloro in cui credevano.
Sicuramente ciò che stava per dire non si sarebbe dovuto ritenere una beffa, ma una cosa meritata.
Infatti riteneva che la donna avrebbe dovuto essere onestissima, ma, per la fragilità della sua natura, doveva essere degna del fuoco colei che faceva l’amore per denaro, mentre doveva meritare il perdono quella che compiva l’atto sessuale per amore. Tutti conoscevano le forze grandissime di esso, come, appunto, aveva mostrato pochi giorni prima Filostrato , raccontando di madonna Filippa in Prato.
Vi fu ,dunque, in Milano, un tempo, un soldato mercenario tedesco, di nome Gulfardo, persona degna di rispetto e assai leale con coloro di cui era al servizio, come di rado sono i tedeschi.
Egli lealmente restituiva i denari che gli erano stati prestati, per questo facilmente trovava molti mercanti che gli prestassero denari con un piccolo interesse.
Costui, dimorando a Milano, si innamorò di una donna assai bella, chiamata madonna Ambrogia, moglie di un ricco mercante ,di nome Guasparruolo Cagastraccio, che era suo buon conoscente ed amico.
Senza che il marito, né altri se ne accorgessero, un giorno le mandò a dire che era innamorato di lei, pregandola di corrispondere al suo amore; avrebbe fatto tutto ciò che ella gli comandasse.
La donna, dopo aver parlato a lungo, rispose che avrebbe fatto ciò che Gulfardo voleva se avesse ottenuto due cose : l’una che nessuno doveva sapere niente; l’altra che egli, che era un uomo ricco, doveva donarle duecento fiorini d’oro.
Gulfardo, udendo l’ingordigia della donna, sdegnato per la bassezza di lei, trasformò quasi in odio l’amore che provava e pensò di beffarla.
Le mandò a dire che, molto volentieri, avrebbe fatto quello ed ogni altra cosa da lei chiesta.
Le fece domandare quando voleva che andasse da lei, promettendo che avrebbe portato i soldi e non ne avrebbe parlato con nessuno, ad eccezione di un suo compagno, di cui si fidava molto e che lo accompagnava sempre.
La donna, anzi, la mala femmina, udendo ciò fu contenta e gli mandò a dire che Guasparruolo, il marito, dopo pochi giorni, doveva andare a Genova. Allora l’avrebbe fatto chiamare.
Gulfardo, al momento opportuno, andò da Guasparruolo e gli chiese, per un suo affare, in prestito, duecento fiorini d’oro, con l’interesse che chiedeva agli altri. Guasparruolo gli prestò i denari, poi partì per Genova, come aveva detto la donna.
Ella subito fece chiamare Gulfardo che, appena giunto, alla presenza del suo compagno, consegnò alla donna i duecento fiorini d’oro e le disse “Madonna tenete questi denari e li darete a vostro marito quando sarà tornato “.
La donna li prese, credette che Gulfardo dicesse così per non far capire al compagno che erano il prezzo da lui pagato per giacere con lei e rispose “Lo farò volentieri, ma voglio vedere quanti sono”. Li versò sulla tavola, li contò e tutta contenta li conservò.
Poi tornò dall’uomo e, condottolo nella sua camera, soddisfece ai suoi desideri non solo quella notte ma molte altre, finchè il marito non ritornò da Genova.
Al ritorno di Guasparruolo, Gulfardo andò da lui, che era insieme alla moglie ,e gli disse che i duecento fiorini d’oro, che pochi giorni prima gli aveva prestati, non gli erano più serviti per l’affare che doveva concludere. Li aveva dati a sua moglie, dunque gli chiedeva di cancellare il debito.
Guasparruolo si rivolse alla moglie e le chiese se aveva avuto i denari.
Ella, che vedeva lì il testimone, non seppe negare e disse che li aveva avuti ,ma si era dimenticata di dirglielo.
Guasparruolo rispose che era contento e che Gulfardo poteva andare con Dio, perché il debito era stato saldato.
Gulfardo partì e la donna, scornata, dovette dare al marito il prezzo della sua cattiveria : e così l’astuto amante godè dell’avara donna senza alcun costo.
                                                                                                          








OTTAVA GIORNATA

OTTAVA GIORNATA

La domenica mattina i raggi del sole nascente già apparivano sugli alti monti e ogni ombra si allontanava, tutte le cose si vedevano chiaramente.
Tutta la compagnia, guidata dalla regina, passeggiò un po’ sull’erba, poi, verso le sette e mezza visitò una chiesetta, nella quale ascoltò la Santa Messa.
I gitanti, tornati a casa, dopo che ebbero allegramente mangiato, cantarono e ballarono.
Poi furono licenziati dalla regina e chi voleva potè andare a riposarsi. Quasi al tramonto, come piacque alla regina, tutti si sedettero intorno alla bella fontana per riprendere a raccontare.
Per ordine della regina, Neifile incominciò.






giovedì 12 marzo 2015

COMUNICATO

                                                         COMUNICATO

Cari amici, sono qui, per comunicarvi che il blog www.decameronapuntate.blogspot.it, ha ricevuto, ad oggi, 12 marzo 2015, ben 15.550 visite.
Riporto, di seguito i dati più significativi:
Italia                          14.013;
Stati Uniti                      628;
Germania                      153;
Francia                          101;
Svizzera                           83;
Argentina                        70;
Polonia                            49;
Federazione Russa         30;
India                                23;
Ucraina                           23;
Svezia                              11;
Brasile                              5 ;
Indonesia                         3 ;
Bosnia Erzegovina          2 ;
Australia                          1 ;
Albania                            1 ;
Austria                             1 ;
Malesia                            1 ;

Mancano ancora 30 novelle alla conclusione del lavoro e mi sto gia arrovellando per poter proseguire in questa esperienza che mi sta dando tantissime soddisfazioni e per poter continuare a rapportarmi con voi ,miei carissimi lettori.
Mi auguro di potervi fare una gradita sorpresa
Luciana De Lisa Coscioni.



SETTIMA GIORNATA - CONCLUSIONE

SETTIMA GIORNATA – CONCLUSIONE

Si era alzato uno Zefiro perché si era ormai al tramonto, quando il re ,finita la sua novella, toltosi la corona dalla testa, la pose sul capo della Lauretta, incoronandola regina della brigata.
La Lauretta, divenuta regina, fece chiamare il siniscalco e gli ordinò di mettere al più presto le tavole nella piacevole valle, affinchè potessero, poi, tornare con calma al palazzo.
Gli spiegò, ancora, cosa dovesse fare durante il suo regno.
Quindi disse che Dioneo, il giorno precedente, aveva stabilito che in quella giornata si ragionasse delle beffe che le donne facevano ai mariti. Ella, se non avesse temuto di sembrare un cagnolino che si voleva vendicare, avrebbe proposto che il giorno dopo si ragionasse delle beffe che gli uomini facevano alle proprie mogli.
Ma, tralasciando la vendetta, stabiliva che ciascuno pensasse a dire delle beffe che, continuamente, o donna a uomo ,o uomo a donna, o un uomo ad un altro uomo si facevano.
Era sicura che il raccontare sarebbe stato molto piacevole.
Detto ciò, si alzò e licenziò tutta la brigata fino a cena.
Alzatisi tutti, alcuni, a piedi scalzi, andarono nell’acqua, altri passeggiavano sotto gli alberi.
Dioneo e Fiammetta, cantarono insieme di Arcita e Palemone e, così, tutti passarono il tempo piacevolmente fino all’ora di cena.
Giunta l’ora, postisi a tavola intorno al laghetto, cenarono con allegria al canto degli uccelli, rinfrescati da un dolce venticello che spirava tra quelle colline.
Tolte le tavole, dopo aver girato un po’ per la valle, essendoci ancora il sole, così come piacque alla regina, con passo lento ripresero il cammino verso la dimora. Chiacchierando e scherzando ,giunsero al bel palazzo che era quasi notte; lì cacciarono la fatica del breve cammino con freschissimi vini e con dolciumi.
Intorno alla bella fontana subito alcuni si misero a danzare al suono della cornamusa di Tindaro, altri a cantare, accompagnati da altri strumenti. Alla fine la regina comandò a Filomena di cantare una canzone.
E Filomena cominciò a cantare un canto che ricordava la sua triste partenza dal luogo dove si trovava il suo innamorato. Sperava di ritornare presto colà e di ritrovarvi il suo signore, che l’aveva infiammata, il cui ricordo non le dava pace né giorno, né notte.Quella speranza dava conforto al suo animo dolente e le faceva ritrovare il suo equilibrio, al momento smarrito. Chiedeva al suo caro bene di dirle quando sarebbe giunto da lei. Il suo ritorno doveva essere immediato ed egli si doveva trattenere a lungo con lei, ferita da Amore. Ella l’avrebbe trattenuto , non l’avrebbe più fatto partire e avrebbe soddisfatto con i baci il suo desiderio. Altro non voleva dire, lo pregava di andare presto ad abbracciarla. Il solo pensiero del ritorno dell’uomo amato l’induceva a cantare.
La canzone fece pensare a tutta la brigata che Filomena avesse un nuovo amore.
Tanta era la felicità che emanava al vederla, che provocò l’invidia di alcuni dei presenti.
Finita la canzone, la regina si ricordò che il giorno seguente era venerdì. Allora disse a tutti che l’indomani era il giorno consacrato alla passione di Cristo. Per questo , seguendo l’esempio dato da Neifile quando era regina, si dovevano  astenere dal piacevole novellare, per dedicarsi alla preghiera, sia il venerdì che il sabato seguente,
ritenendo ciò utile per la salute delle loro anime.
Il devoto discorso della regina piacque a tutti che ,congedati, essendo già notte inoltrata, se ne andarono a riposare. 



















Finisce la Settima Giornata del Decameron ; incomincia l’Ottava ,nella quale, mentre è regina Lauretta, si ragiona di quelle beffe che ogni giorno o donna a uomo, o uomo a donna o l’uno uomo all’ altro si fanno.  








giovedì 5 marzo 2015

SETTIMA GIORNATA - NOVELLA N.10

SETTIMA GIORNATA – NOVELLA N.10


Due senesi amano una donna comare di uno dei due: muore il compare e torna dal suo compagno, come gli aveva promesso ,e gli racconta come nell’aldilà si dimori.

Doveva raccontare solo il re, che vide le donne commosse, che si dolevano perché era stato tagliato il pero che
non aveva nessuna colpa.
Subito incominciò dicendo che era chiaro che ogni giusto re ,per primo, doveva obbedire alle leggi fatte da lui, se non lo faceva si doveva giudicare servo degno di punizione e non re.
Invero egli stava per cadere in quel peccato, avvalendosi del suo privilegio.
Infatti avrebbe dovuto, in quel giorno, rispettare il tema della narrazione, ma su di esso erano già state dette tante cose molto belle, che per quanto tentasse di ricordare, non ne riusciva a trovare nessun’altra che le pareggiasse. Perciò, dovendo disobbedire alla legge ,da lui stesso data, e avvalersi del suo privilegio, era pronto a pagare la punizione che gli sarebbe stata data.
Riteneva che la novella raccontata da Elissa del compare e della comare e della stupidità dei senesi aveva una tale forza che egli, lasciando stare le beffe fatte ai mariti dalle donne senesi, era spinto a raccontare una novella su di loro, molto piacevole da ascoltare.
Dunque, vi furono in Siena due giovani popolani, dei quali l’uno si chiamava Tingoccio Mini e l’altro Meuccio di Tura , e abitavano in Porta Salaria. Stavano sempre insieme perché si amavano molto.
Andando in chiesa, durante le prediche, avevano udito della gloria e della miseria che erano date alle anime dei morti, secondo i loro meriti.
Non trovando il modo di averne notizie certe, si giurarono che chi dei due morisse prima sarebbe ritornato da quello che era rimasto vivo, per dargli notizie su quello che desiderava.
Dopo che si erano fatti quella promessa, Tingoccio divenne compare di un certo Ambrogio Anselmini, che abitava a Camporeggio, il quale, dalla sua donna, di nome monna Mita, aveva avuto un figlio.
Tingoccio, andando spesso in visita, insieme con Meuccio, dalla sua comare, che era una bellissima e garbata donna, nonostante il comparatico, s’innamorò di lei.
Anche Meuccio, sentendola lodare da Tingoccio, se ne innamorò. L’uno nascose all’altro il suo amore, per motivi differenti.
Tingoccio non lo rivelava all’amico per la cattiveria di amare la comare, come a lui stesso sembrava, e si sarebbe vergognato se qualcuno l’avesse saputo.
Meuccio, invece, che si era accorto che la donna piaceva a Tingoccio, non diceva nulla perché temeva che l’amico provasse gelosia per lui e parlasse male di lui alla donna.
Tingoccio, che aveva maggiore possibilità di dichiarare alla donna i suoi desideri, tanto seppe fare, con gli atti e con le parole, che fece l’amore con lei.
Meuccio se ne accorse, ma, sperando di poter raggiungere anch’egli lo stesso scopo, fece finta di niente.
Così amando i due compagni , l’uno più felicemente dell’altro, Tingoccio tanto vangò e tanto lavorò nel terreno della comare che, dopo un certo tempo, per esaurimento, si aggravò e passò a miglior vita.
Il terzo giorno dopo la morte, chè prima non aveva potuto, se ne venne, come aveva promesso, di notte, nella camera di Meuccio e lo chiamò.
Gli disse che era venuto a portargli notizie dall’altro mondo, secondo la promessa fattagli.
Meuccio, rassicurato, dopo lo spavento, gli domandò se era perduto. Al che il morto rispose che erano perdute le cose che non si trovavano più : egli non poteva essere lì, se fosse perduto.
Meuccio precisò che voleva sapere se l’amico era tra le anime dannate nel fuoco dell’inferno. E Tintoccio rispose che no, ma ,per i peccati commessi, era in gravissime e angosciose pene.
Meuccio domandò, in particolare, quali erano le pene che nell’aldilà venivano date per i peccati che si commettevano sulla terra e l’amico gliele disse tutte. Poi domandò se poteva fare qualche cosa per lui e il morto rispose che poteva far dire delle messe, delle preghiere e fare delle elemosine, perché quelle cose giovavano molto ai morti. Meuccio promise di farlo volentieri.
Prima che Tingoccio se ne andasse, Meuccio si ricordò della comare e, alzato un po’ il capo, gli chiese “Tingoccio, ora che mi ricordo, quale pena ti è stata data di là per la comare, con la quale giacevi quando eri di qua?”.
E Tingoccio rispose “Fratello mio, com’io giunsi di là, trovai uno che conosceva a memoria tutti i miei peccati, che mi ordinò di andare in quel luogo nel quale piansi le mie colpe tra mille pene.Lì trovai molti compagni condannati alla mia stessa pena. Stando con loro, mi ricordai di ciò che avevo fatto con la comare e, temendo che mi fosse data una pena ancora maggiore, sebbene fossi già nel fuoco ardente, tremavo di paura.
Sentendo ciò, uno che mi stava a fianco mi chiese perché tremavo ,stando nel fuoco. Gli risposi che avevo gran paura del giudizio per un peccato molto grave che avevo commesso, cioè di essere giaciuto con una comare, tanto che ne morii scorticato. Egli, ridendo di ciò, mi disse che nell’Inferno non si teneva alcun conto delle comari. Perciò potevo stare tranquillo. Udendo ciò, mi rassicurai”.
Infine, avvicinandosi il giorno, salutò il compagno e se ne andò via.
Meuccio, udito che di là non si teneva conto delle comari, cominciò a ridere dei suoi timori, lasciata la sua ignoranza, divenne più saggio.
Se frate Rinaldo avesse saputo quelle cose, non avrebbe avuto bisogno di filosofeggiare tanto, quando convertì ai suoi piaceri la sua buona comare.