SETTIMA GIORNATA – NOVELLA N.10
Due senesi amano una donna comare
di uno dei due: muore il compare e torna dal suo compagno, come gli aveva
promesso ,e gli racconta come nell’aldilà si dimori.
Doveva raccontare solo il re, che
vide le donne commosse, che si dolevano perché era stato tagliato il pero che
non aveva nessuna colpa.
Subito incominciò dicendo che era
chiaro che ogni giusto re ,per primo, doveva obbedire alle leggi fatte da lui,
se non lo faceva si doveva giudicare servo degno di punizione e non re.
Invero egli stava per cadere in
quel peccato, avvalendosi del suo privilegio.
Infatti avrebbe dovuto, in quel
giorno, rispettare il tema della narrazione, ma su di esso erano già state
dette tante cose molto belle, che per quanto tentasse di ricordare, non ne
riusciva a trovare nessun’altra che le pareggiasse. Perciò, dovendo disobbedire
alla legge ,da lui stesso data, e avvalersi del suo privilegio, era pronto a
pagare la punizione che gli sarebbe stata data.
Riteneva che la novella raccontata
da Elissa del compare e della comare e della stupidità dei senesi aveva una
tale forza che egli, lasciando stare le beffe fatte ai mariti dalle donne
senesi, era spinto a raccontare una novella su di loro, molto piacevole da
ascoltare.
Dunque, vi furono in Siena due
giovani popolani, dei quali l’uno si chiamava Tingoccio Mini e l’altro Meuccio
di Tura , e abitavano in Porta Salaria. Stavano sempre insieme perché si
amavano molto.
Andando in chiesa, durante le
prediche, avevano udito della gloria e della miseria che erano date alle anime
dei morti, secondo i loro meriti.
Non trovando il modo di averne
notizie certe, si giurarono che chi dei due morisse prima sarebbe ritornato da
quello che era rimasto vivo, per dargli notizie su quello che desiderava.
Dopo che si erano fatti quella
promessa, Tingoccio divenne compare di un certo Ambrogio Anselmini, che abitava
a Camporeggio, il quale, dalla sua donna, di nome monna Mita, aveva avuto un
figlio.
Tingoccio, andando spesso in
visita, insieme con Meuccio, dalla sua comare, che era una bellissima e garbata
donna, nonostante il comparatico, s’innamorò di lei.
Anche Meuccio, sentendola lodare da
Tingoccio, se ne innamorò. L’uno nascose all’altro il suo amore, per motivi
differenti.
Tingoccio non lo rivelava all’amico
per la cattiveria di amare la comare, come a lui stesso sembrava, e si sarebbe
vergognato se qualcuno l’avesse saputo.
Meuccio, invece, che si era accorto
che la donna piaceva a Tingoccio, non diceva nulla perché temeva che l’amico
provasse gelosia per lui e parlasse male di lui alla donna.
Tingoccio, che aveva maggiore
possibilità di dichiarare alla donna i suoi desideri, tanto seppe fare, con gli
atti e con le parole, che fece l’amore con lei.
Meuccio se ne accorse, ma, sperando
di poter raggiungere anch’egli lo stesso scopo, fece finta di niente.
Così amando i due compagni , l’uno
più felicemente dell’altro, Tingoccio tanto vangò e tanto lavorò nel terreno
della comare che, dopo un certo tempo, per esaurimento, si aggravò e passò a
miglior vita.
Il terzo giorno dopo la morte, chè
prima non aveva potuto, se ne venne, come aveva promesso, di notte, nella
camera di Meuccio e lo chiamò.
Gli disse che era venuto a
portargli notizie dall’altro mondo, secondo la promessa fattagli.
Meuccio, rassicurato, dopo lo
spavento, gli domandò se era perduto. Al che il morto rispose che erano perdute
le cose che non si trovavano più : egli non poteva essere lì, se fosse perduto.
Meuccio precisò che voleva sapere
se l’amico era tra le anime dannate nel fuoco dell’inferno. E Tintoccio rispose
che no, ma ,per i peccati commessi, era in gravissime e angosciose pene.
Meuccio domandò, in particolare,
quali erano le pene che nell’aldilà venivano date per i peccati che si
commettevano sulla terra e l’amico gliele disse tutte. Poi domandò se poteva
fare qualche cosa per lui e il morto rispose che poteva far dire delle messe,
delle preghiere e fare delle elemosine, perché quelle cose giovavano molto ai
morti. Meuccio promise di farlo volentieri.
Prima che Tingoccio se ne andasse,
Meuccio si ricordò della comare e, alzato un po’ il capo, gli chiese
“Tingoccio, ora che mi ricordo, quale pena ti è stata data di là per la comare,
con la quale giacevi quando eri di qua?”.
E Tingoccio rispose “Fratello mio,
com’io giunsi di là, trovai uno che conosceva a memoria tutti i miei peccati,
che mi ordinò di andare in quel luogo nel quale piansi le mie colpe tra mille
pene.Lì trovai molti compagni condannati alla mia stessa pena. Stando con loro,
mi ricordai di ciò che avevo fatto con la comare e, temendo che mi fosse data
una pena ancora maggiore, sebbene fossi già nel fuoco ardente, tremavo di
paura.
Sentendo ciò, uno che mi stava a
fianco mi chiese perché tremavo ,stando nel fuoco. Gli risposi che avevo gran
paura del giudizio per un peccato molto grave che avevo commesso, cioè di
essere giaciuto con una comare, tanto che ne morii scorticato. Egli, ridendo di
ciò, mi disse che nell’Inferno non si teneva alcun conto delle comari. Perciò
potevo stare tranquillo. Udendo ciò, mi rassicurai”.
Infine, avvicinandosi il giorno,
salutò il compagno e se ne andò via.
Meuccio, udito che di là non si
teneva conto delle comari, cominciò a ridere dei suoi timori, lasciata la sua
ignoranza, divenne più saggio.
Se frate Rinaldo avesse saputo
quelle cose, non avrebbe avuto bisogno di filosofeggiare tanto, quando convertì
ai suoi piaceri la sua buona comare.
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