sabato 28 marzo 2020

EPIDEMIE: QUATTRO EPOCHE A CONFRONTO - DECAMERON (Introduzione) di Giovanni Boccaccio. Prima settimana

28.03.2020

Essere costretti a rimanere in casa a tempo indeterminato, nell'inattività fisica, può favorire lo sviluppo di impreviste attività mentali. Infatti, come tutti ben sappiamo, la mente non si ferma mai, non ha un attimo di riposo. Mi è sembrato opportuno riprendere la tecnica usata nel “Decameron a puntate” e sviluppare, con cadenza settimanale, il tema “EPIDEMIE: QUATTRO EPOCHE A CONFRONTO”.

Tratterò, dunque,delle gravi epidemie del 1348, del 1630, del 1900 e del 2020 che hanno colpito l’Italia, l’Europa, i Caraibi ed, infine, il mondo intero. Anche adesso mi avvarrò della collaborazione e dell’assistenza di mio figlio Francesco, esperto di informatica.

Nella prima settimana ci soffermeremo sulla peste che colpì Firenze nel 1348, di cui ci parla Boccaccio nel Decameron. Riportiamo, di seguito, l’introduzione dell’opera, rivisitata in chiave moderna e in italiano contemporaneo.

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DECAMERON (Introduzione) - Giovanni Boccaccio

Si era giunti all’anno 1348 dalla nascita di Cristo, quando nella città di Firenze, e nelle bellissime città d’Italia, giunse la terribile pestilenza, la quale, per opera degli astri celesti o per la giusta ira di Dio, a causa delle nostre opere inique, fu mandata come punizione ai mortali.

Incominciata alcuni anni prima in Oriente, provocando la morte di innumerevoli esseri viventi, senza fermarsi, si spostò, ampliandosi, verso Occidente. A nulla valsero la prudenza e i provvedimenti presi per motivi sanitari, in base ai quali fu pulita dalle immondizie tutta la città, ad opera di ufficiali all’uopo comandati, né il divieto per gli ammalati di entrare in città. A nulla valsero le preghiere rivolte a Dio da persone devote, né le processioni. All’inizio della primavera la pestilenza cominciò a dimostrare i suoi terribili effetti. Essa, mentre in Oriente si era manifestata con fuoriuscita di sangue dal naso che portava direttamente alla morte, in Occidente si manifestò diversamente.

Inizialmente comparivano dei rigonfiamenti all’inguine e sotto le ascelle. Questi venivano chiamati “gavoccioli” e si diffondevano in tutte le parti del corpo, erano indizio di morte sicura. Per queste infermità non valeva nessun consiglio di medico e nessuna medicina, sebbene il numero dei medici fosse grandissimo. Solo pochissimi guarivano, anzi, quasi tutti al terzo giorno dalla comparsa di questi segni, con o senza febbre, morivano. La peste passava dagli infermi ai sani, come fa il fuoco con le cose secche o unte, che gli sono vicine. Il contagio si diffondeva non solo se si parlava o si stava vicino agli infermi, ma anche se si toccavano i panni e qualsiasi cosa che era stata da loro usata. Così i vivi pensavano bene di schifare e fuggire gli infermi e le loro cose, sperando, in tal modo,di acquistare salute. Alcuni ritenevano che vivere con moderazione, senza cose superflue, li avrebbe protetti dalla peste e, costituita una brigata, vivevano isolati nelle case in cui non c’era alcun infermo, mangiando cibi delicatissimi, bevendo vini leggeri e profumati, evitando ogni lussuria, non parlando né di morti, né di infermi. Altri, di opinione contraria, preferivano bere molto e godere, mangiare smodatamente, beffandosi di ogni cura e medicina, andando in giro per taverne, facendo solo ciò che arrecasse loro piacere, e, ritenendo di non dover più vivere a lungo, abbandonavano le loro case. Per questo molte case erano state abbandonate e occupate da estranei, a volte anche ammalati.

Ormai ogni cittadino evitava l’altro, non avendo cura dei parenti, sia gli uomini che le donne. Un fratello abbandonava l’altro e, spesso, la donna abbandonava il marito, e i padri e le madri, cosa terribile, abbandonavano i figli, quasi che non fossero propri, e si rifiutavano di accudirli. Perciò quelli che si ammalavano non avevano alcun aiuto, se non la carità degli amici, in verità molto pochi, e l’avidità dei servitori. Essi non facevano altro che porgere agli ammalati alcune cose da loro richieste o guardare quando morivano e, anche così, spesso perdevano sé stessi insieme con il guadagno, perché morivano per il contagio.

Per l’abbandono dei parenti e degli amici si diffuse un uso mai udito prima, per cui se una donna, anche se bella e leggiadra, si ammalava, prendeva a suo servizio un uomo a cui si affidava per tutte le cure e le incombenze, anche le più intime, che la sua malattia richiedeva, il che, in quelle che sopravvissero, fu causa di una minore onestà. Era usanza che le donne, parenti o vicine del morto, si riunissero e piangessero, così pure i vicini e gli amici si radunassero davanti alla casa, e poi veniva il clero che portava il morto nella chiesa che egli aveva precedentemente indicato.

Man mano che la pestilenza divenne più feroce, queste usanze cambiarono. Molti morivano da soli, senza alcun conforto o pianto dei congiunti e non potevano essere trasportati nella chiesa che avevano scelto. Venivano, invece, prelevati da persone prezzolate, chiamate “beccamorti” o “becchini”, di umile origine che, messili nella bara, li portavano nella chiesa più vicina, dove c’erano pochi chierici che, rapidamente, senza lunghi e solenni offici, con l’aiuto dei becchini li seppellivano in qualche sepoltura ancora vuota.

La gente umile stava ancora peggio, perché non aveva potuto lasciare la propria casa abitata da molte persone, dove il contagio si diffondeva molto più rapidamente, e non aveva alcun aiuto e tutti morivano. I vicini, temendo per sé, gettavano i corpi dei morti e degli infermi nella strada. I vicini, da soli o con l’aiuto di alcuni portatori, tiravano fuori i morti, li portavano davanti agli usci e facevano venire le bare. Ben presto le bare furono insufficienti. Allora misero molti cadaveri in una sola bara. I preti, nel seppellirli, sotto una sola croce misero sei o otto morti, senza che essi fossero onorati da alcuna lacrima, lume o compagnia. I morti venivano trattati come capre.

Man mano che la moltitudine dei cadaveri aumentava, non fu possibile seppellirli in terra sacra, nelle chiese, secondo l’antica consuetudine. Si scavarono allora delle grandissime fosse comuni dove si misero, a centinaia, i morti, fino a quando ogni fossa non veniva riempita, poi si ricopriva con poca terra. Anche nella periferia della città le cose non andarono meglio, anche i poveri, con le loro famiglie, morivano come bestie, abbandonando i sani costumi antichi e i loro animali, buoi, asini, pecore, capre, porci, polli e cani, fedelissimi agli uomini. Gli animali andavano in giro per la campagna, nutrendosi a sazietà, senza controllo e, a sera, ritornavano a casa spontaneamente.

Dunque, ritornando alla città di Firenze, si può dire che, tra il marzo e il luglio del 1348, morirono più di centomila creature umane.
Ahimè, quanti palazzi e belle case, in precedenza pieni di nobili famiglie, rimasero vuoti. 

In poco tempo la città rimase quasi vuota.




QUANDO LA CULTURA CLASSICA SI SPOSA CON LA COMPETENZA INFORMATICA

27.03.2020
In questo periodo di riposo forzato per la pandemia che sta sconvolgendo le nostre abitudini e la nostra vita, sono riandata col pensiero ai momenti lieti del passato e agli studi che mi avevano maggiormente interessato.
Sono, dunque, ritornata a Giovanni Boccaccio, il mio grande amore e al suo Decameron. Ho ricordato che parlai a mio figlio Francesco della mia intenzione di elaborare una libera interpretazione del Decameron in italiano moderno, utilizzando la tecnica della pubblicazione a puntate di una novella a settimana. Francesco fu entusiasta dell’idea ed, esperto com’era di informatica, si è laureato “maxima cum laude” in Scienze della Comunicazione, mi disse che mi avrebbe aperto un blog su Internet, dove pubblicare il mio lavoro. Egli è stato da sempre convinto del valore insostituibile della cultura. Circa 10 anni fa, quando è iniziato il viaggio telematico del "Decameron a puntate", ha fondato con il cugino Angelo, suo coetaneo e compagno di merende giovanili, la "NEO EDIZIONI" Casa Editrice indipendente, che si sta facendo onore nel panorama culturale nazionale e internazionale. 

Attivo da circa 10 anni, questo blog, di assoluta attualità ora, ai tempi del Coronavirus, ha valicato le Alpi, le Montagne Rocciose, gli Urali raggiungendo i luoghi del mondo più appartati e lontani da noi. Ha portato veramente la cultura classica italiana nel mondo servendosi dei più moderni strumenti di comunicazione. È proprio in seguito ad un’epidemia di peste, che ha colpito Firenze nel 1348, che un gruppo di fiorentini, composto da 7 fanciulle e 3 giovani, si allontana dalla città e si sposta nelle campagne fiorentine per trascorrere in allegria, dimenticando i lutti, i morti e le malattie, un periodo di riposo, dedicandolo al racconto di 10 novelle al giorno, per un totale di 100 novelle, in un panorama variopinto di personaggi e di situazioni.