giovedì 23 aprile 2015

OTTAVA GIORNATA - NOVELLA N.6

OTTAVA GIORNATA – NOVELLA N.6

Bruno e Buffalmacco rubano un porco a Calandrino, per ritrovarlo gli fanno fare l’esperimento con pillole di zenzero e con vernaccia, e a lui ne danno due, l’una dopo l’altra, di quelle di cane, impastate con aloe e pare che il porco l’abbia preso egli stesso : glielo fanno ricomperare ,se non  vuole che lo dicano alla moglie.

Filostrato non aveva ancora finito la sua novella che già la regina impose a Filomena di continuare.
E Filomena incominciò dicendo che ,come Filostrato aveva raccontato la sua novella spinto dal nome di Maso, così ella aveva scelto una novella, che sicuramente sarebbe piaciuta loro, spinta dal nome di Calandrino e dei suoi compagni.
Non aveva bisogno di spiegare chi fossero Calandrino ,Bruno e Buffalmacco perché l’avevano già udito.
Proseguendo, disse che Calandrino aveva un poderetto non lontano da Firenze, avuto in dote dalla moglie, dal quale ogni anno, insieme ad altre cose, ricavava un porco. Era sua usanza di andarsene colà sempre, nel mese di Dicembre, con la moglie in campagna, per ucciderlo e farlo salare. Una volta, essendo la moglie ammalata, Calandrino andò da solo ad uccidere il porco.
Bruno e Buffalmacco, sapendo che Calandrino era solo, senza la moglie, se ne andarono da un prete, carissimo amico loro, che abitava vicino a Calandrino, e si trattennero qualche giorno con lui.
La mattina in cui giunsero, Calandrino aveva appena ucciso il porco.
Egli accolse volentieri i due amici con il prete e , per vantarsi della sua bravura, li fece entrare in casa e mostrò loro il porco. Essi videro che il porco era bellissimo e gli consigliarono di venderlo e di godersi insieme con loro, i denari ricavati, invece di salarlo. Doveva ,poi, dire alla moglie che gli era stato rubato.
Calandrino non volle ascoltare i cattivi consigli, temendo che la moglie potesse cacciarlo di casa.
Poi li invitò a cena di malavoglia, tanto che essi rifiutarono e se ne andarono.
Poco dopo Bruno chiese a Buffalmacco se, quella notte, volevano rubare il porco e spiegò come fare. Buffalmacco e il prete furono d’accordo.
Allora Bruno spiegò il suo piano, dicendo che Buffalmacco sapeva bene come fosse avaro Calandrino e come bevesse volentieri quando pagavano gli altri, perciò dovevano portarlo alla taverna. Colà il prete doveva far finta di offrire tutto lui per onorarli e non doveva lasciar pagare nulla allo stupidone ,che si sarebbe sicuramente ubriacato. La qual cosa sarebbe stata utile, perché era solo in casa.
Così fecero. Calandrino, vedendo che il prete non lo faceva pagare, si mise a bere molto abbondantemente.
Era già notte inoltrata quando andò via dalla taverna, senza voler cenare altro, entrò in casa e, credendo di aver serrato l’uscio, lo lasciò aperto e se ne andò a letto.
Bruno e Buffalmacco se ne andarono a cenare col prete; dopo cena presero gli attrezzi per entrare in casa di Calandrino, come aveva disposto Bruno.
Andarono in silenzio, ma, giunti alla casa, trovato l’uscio aperto, rubarono il porco e lo portarono a casa del prete. Lo nascosero e se ne andarono a dormire.
Calandrino al mattino si svegliò completamente sobrio; scese giù, guardò, non vide il suo porco e vide l’uscio aperto. Domandò all’uno e all’altro se sapessero chi l’aveva preso e cominciò a gridare che il porco gli era stato rubato.
Quasi piangendo, diede la notizia a Bruno e a Buffalmacco, accorsi immediatamente.
Bruno, avvicinatosi, gli consigliò di gridare più forte in modo che tutti credessero che veramente il porco gli era stato rubato.
A niente valeva il fatto che Calandrino insistesse nell’affermare che gli porco gli era stato rubato sul serio.
Intervenne Buffalmacco affermando che ,se veramente il porco gli era stato rubato, egli sapeva come fare per riaverlo.Infatti il ladro non poteva essere venuto dall’India, ma doveva essere uno dei suoi vicini.Se li poteva radunare ,egli avrebbe fatto loro l’incantesimo del pane e del formaggio, così avrebbero visto subito chi l’aveva rubato.
Ma Bruno obiettò che i gentilotti che erano lì intorno, chè sicuramente era stato uno di loro, conoscendo l’incantesimo non sarebbero andati. Propose, invece, di ricorrere alle gallette di zenzero con vernaccia e di invitarli a bere. I contadini, non sospettando, sarebbero sicuramente andati e le gallette di zenzero si potevano benedire come il pane e il cacio.
Calandrino fu d’accordo affermando che se avesse saputo chi era stato, sarebbe stato mezzo consolato.
Bruno, allora, gli chiese dei denari per andare a Firenze e comprare tutto ciò che serviva.
Calandrino gli dette tutti i quaranta soldi che aveva.
Bruno, andato a Firenze, da un suo amico speziale comprò una libra di belle galle e ne fece confezionare due libre con zenzero di cane, mischiato con succo di aloe fresco, poi le fece ricoprire con lo zucchero, come le altre. Per non confonderle fece fare loro un segnetto, per poterle riconoscere.
Comprato un fiasco di buona vernaccia ,se ne tornò in campagna da Calandrino e gli disse di invitare per l’indomani mattina tutti i sospettati, sicuro che l’indomani ,essendo festa, tutti sarebbero andati volentieri.
Promise che, durante la notte, insieme a Buffalmacco, avrebbe fatto l’incantesimo sopra le galle e la mattina successiva gliele avrebbe portate. Per amore dell’amico, egli stesso avrebbe fatto e detto quello che si doveva fare e dire.
Calandrino così fece. Radunata una buona compagnia di giovani fiorentini, che erano in campagna ,e di contadini, la mattina seguente, davanti alla chiesa, intorno all’olmo, Bruno e Buffalmacco giunsero con la scatola delle pillole e con il fiasco di vino.
Sistemati tutti in cerchio, Bruno disse loro “Signori, mi conviene spiegarvi la ragione per cui siete qui, perché se succede qualcosa di spiacevole per voi, non vi dobbiate lagnare con me. A Calandrino ieri notte è stato rubato un bel porco e non riesce a trovare il ladro. Siccome deve averglielo rubato uno di voi, vi darà da mangiare queste galle, una per uno, e da bere. Sappiate che chi ha rubato il porco non potrà mandar giù la pillola, anzi gli sembrerà più amara del veleno e la sputerà. Perciò, prima che subisca questa vergogna in presenza di tanti, è meglio che il ladro in confessione lo dica al parroco ed io eviterò di fare ciò.”.
Tutti  i presenti dissero che ne avrebbero mangiato volentieri.
Bruno ,allora, li mise in ordine, inserendo tra loro anche Calandrino, e cominciò a dare a ciascuno la sua.
Come fu davanti a Calandrino, presa una pillola di zenzero di cane, gliela mise in mano.
Calandrino subito se la gettò in bocca e cominciò a masticare; la pillola era talmente amara che la sputò.
Ognuno guardava l’altro per vedere chi sputasse la sua.
Bruno, che ancora non aveva finito di darle a tutti, come si accorse che Calandrino aveva sputato la sua, per essere sicuro che non l’aveva sputata per altri motivi, gliene diede un’altra e gliela mise in bocca, continuando il suo giro. Al poveretto se la prima era sembrata amara, la seconda sembrò amarissima. Ma, vergognandosi di sputarla, se la tenne in bocca, masticandola un po’e ,tenendola in bocca, cominciò a versare lacrime grosse come nocciole. Infine, non potendone più, la sputò ,come aveva fatto con la prima.
Frattanto Buffalmacco e Bruno davano da bere alla brigata ; come videro ciò, tutti dissero che Calandrino il porco se l’era rubato egli stesso e vi furono alcuni che lo rimproverarono aspramente.
Andati via tutti, rimasero con Calandrino soltanto Bruno e Buffalmacco.
Buffalmacco cominciò a dire che aveva ben capito che aveva nascosto il porco lo stesso Calandrino, perché non voleva dar loro da bere con quei danari che ne aveva guadagnato.. Voleva sapere dal compagno se avesse guadagnato dalla vendita almeno sei fiorini.
 E, mentre Calandrino si disperava , Bruno disse “ Comprendi bene, Calandrino, un tale della brigata ,che con noi mangiò e bevve, mi disse che tu avevi quassù una giovinetta, a tua disposizione, e le davi quello che potevi. Sicuramente le hai mandato quel porco.  Ora ti stai prendendo gioco di noi. Già in passato ci hai condotto per il Mugnone a raccogliere pietre nere e, dopo averci messi nell’impicci ed essertene ritornato a casa, volevi farci credere che avevi trovato la pietra magica. Ora, ugualmente, con i tuoi giuramenti, ci vuoi far credere che il porco, che tu hai donato o venduto, ti sia stato rubato. Noi siamo abituati alle tue beffe e le conosciamo, tu non ce ne potresti fare di più. E, in verità, a noi è costato molta fatica fare l’incantesimo, perciò ti chiediamo che ci doni due paia di capponi, se non vuoi che diciamo a monna Tessa ogni cosa”.
Calandrino, vedendo che non era creduto, pensando che aveva già provato molto dolore, non volendo anche i rimproveri della moglie, diede loro due paia di capponi, che i due briganti si portarono a Firenze, dopo aver salato il porco.
E così lasciarono Calandrino con il danno e con le beffe.    







giovedì 16 aprile 2015

OTTAVA GIORNATA - NOVELLA N.5

OTTAVA GIORNATA – NOVELLA N.5

Tre giovani tolgono le brache a un giudice marchigiano a Firenze,  mentre egli, stando sul banco, esercitava la sua funzione.

Emilia aveva finito il suo racconto e tutti avevano apprezzato il comportamento della vedova.
Subito dopo la regina si rivolse a Filostrato e gli disse che era giunto il suo turno.Egli rispose che era pronto e cominciò dicendo che il giovane che poco prima Elissa aveva nominato, cioè Maso del Saggio, gli faceva tralasciare una novella che intendeva dire, per raccontarne una su di lui e i suoi compagni. Essa, sebbene non fosse sconveniente, usava dei vocaboli che le donne si vergognavano di usare. Era ,comunque, così divertente che l’avrebbe raccontata lo stesso.
Come tutte avevano potuto udire, in Firenze andavano spesso governatori marchigiani, che ,di solito, erano uomini miseri, avari e pidocchiosi. Per la loro innata miseria ed avarizia, dovevano piuttosto andare a zappare o a fare i calzolai, invece che amministrare le leggi.
Essendone venuto uno come podestà, portò con sé un tale che si faceva chiamare messer Niccola da San Lepidio, che pareva piuttosto un fabbro. Egli fu messo accanto agli altri giudici per udire i processi dei criminali.
Un giorno Maso del Saggio, che non aveva niente a che fare con il tribunale, vi andò per cercare un amico.
Per caso guardò dove sedeva messer Niccola e gli sembrò che fosse un babbeo.
Vide che portava sul capo un pellicciotto tutto sporco di fumo e un portapenne attaccato alla cintura e una gonnella più lunga della sopravveste e altre cose poco adatte ad un uomo importante. Fra queste ne vide una che gli parve più particolare rispetto alle altre e cioè un paio di brache che, come poteva vedere, perché i panni gli si aprivano davanti, poiché erano stretti, gli scendevano fino a mezza gamba.
Senza stare troppo a guardarle, trovò due suoi compagni, dei quali uno si chiamava Ribi e l’altro Matteuzzo, non meno burloni di lui, e li portò con sé per mostrare loro quel gran babbeo di un giudice.
Giunti al palazzo di giustizia, mostrò loro quel giudice e le sue brache.
I due giovani cominciarono a ridere già da lontano.
Avvicinatisi alle panche su cui sedeva il giudice, videro che si poteva andare sotto le panche molto facilmente,
e, inoltre, l’asse dove il giudice poggiava i piedi era rotta, tanto che con faciltà si potevano infilare la mano e il braccio.
Maso disse allora ai compagni che gli voleva togliere del tutto le brache, cosa che si poteva fare molto facilmente. Visto come si poteva fare, se ne andarono e ritornarono la mattina seguente.
Pur essendo il tribunale pieno di persone, Matteuzzo, senza che nessuno se ne accorgesse, entrò sotto il banco e andò sotto il posto dove il giudice poggiava i piedi.
Maso, accostatosi da uno dei lati al giudice, lo prese per il lembo della guarnacca (sopravveste).
Ribi, accostatosi dall’altro lato, fece la stessa cosa.
Maso, rivolto al giudice, cominciò a dire “Messere, vi prego, in nome di Dio, che, prima che questo ladruncolo vada altrove, mi facciate restituire un paio di stivaletti che mi ha rubato ed egli lo nega. Io lo vidi, non è ancora passato un mese, che li faceva risuolare”.
Ribi, dall’altra parte, gridava forte “Messere, non gli credete, costui è un imbroglioncello, perché sa che sono venuto ad accusarlo di avermi rubato una valigia, mentre parla di stivaletti che avevo in casa da molto tempo. E,
 se non mi credete, posso chiamare per testimoni la mia fruttivendola, la trippaia e uno che raccoglie la spazzatura di Santa Maria a Verzaia, che lo vide quando ritornava dalla campagna”.
Maso gridava da una parte e Ribi dall’altra. Mentre il giudice stava ritto in mezzo a loro, più vicino per comprenderli meglio, Matteuzzo, attraverso l’asse rotto, afferrò il fondo delle mutande e tirò giù forte. Le brache vennero subito giù, perché l’uomo era magro e rinsecchito.
Il giudice, avvertendo qualcosa e non sapendo cosa fosse, volendo coprirsi e mettersi a sedere, era trattenuto da Maso e Ribi che gridavano forte che volevano essere uditi e giudicati con atti scritti.
Tanto lo trattennero con i vestiti che tutti quanti in tribunale si accorsero che gli erano state tolte le brache.
Matteuzzo, dopo averle tenute per un po’, le lasciò e se ne andò.Ribi, dal canto suo, disse che avrebbe chiesto aiuto al sindacato. Maso, lasciatagli la guarnacca, disse che sarebbe ritornato quando l’avesse trovato più calmo. Tutti e tre, chi di qua e chi di là, come poterono ,se la squagliarono.
Messer il giudice, tiratesi su le brache alla presenza di tutti, come se si fosse appena svegliato, accortosi del fatto, domandò dove fossero andati i due che avevano fatto questione per gli stivaletti e la valigia.
Non avendoli trovati, cominciò a giurare, per le budella di Dio, che voleva conoscere e sapere se a Firenze si era soliti togliere le brache ai giudici che sedevano ad amministrare la giustizia.
Il podestà ,da parte sua, fece un gran chiasso , sentendolo. Poi, ritenne opportuno mettere tutto a tacere, poiché i suoi amici gli fecero notare che i fiorentini sapevano che egli portava a Firenze giudici imbecilli, per pagarli poco. E la cosa si fermò lì.








mercoledì 8 aprile 2015

OTTAVA GIORNATA - NOVELLA N.4

OTTAVA GIORNATA – NOVELLA N. 4

    
      Il curato di Fiesole ama una donna vedova :non è amato da lei e, credendo di giacere con lei, giace con una sua fantesca, e i fratelli della donna lo fanno trovare al suo vescovo.


suQuando Elissa terminò la novella, molto gradita a tutta la compagnia, la regina ,volgendosi verso Emilia, le          
         fece segno di raccontare la sua.
         Ed ella subito incominciò dicendo che ricordava di aver già mostrato quanto i preti, i frati ed ogni chierico sollecitavano nelle menti delle donne pensieri peccaminosi. Intendeva continuare su quella strada e raccontare di un curato che voleva che una gentil donna vedova gli volesse bene, a tutti i costi,volente o nolente.
         La donna ,che era molto saggia, lo trattò come si meritava.
         Ognuno di loro sapeva che Fiesole, la cui collina potevano vedere da dove si trovavano, fu un’antichissima e grande città, anche se a quel tempo era in rovina . Nonostante la decadenza del momento aveva sempre avuto un vescovo e lo aveva ancora.
        A Fiesole, vicino al Duomo, una gentildonna vedova, chiamata monna Piccarda, aveva un podere con una casa non troppo grande. Poiché non era molto ricca dimorava lì ,per la maggior parte dell’anno, con due suoi fratelli, giovani assai da bene e cortesi.
         Andando la donna spesso in chiesa ed essendo ancora assai giovane e bella, di lei si innamorò follemente il prevosto della chiesa, che non vedeva altro che lei. Divenne tanto ardito che le dichiarò il suo amore,  pregandola di ricambiarlo.
         Il prevosto era già vecchio di anni, ma baldanzoso e superbo, si sentiva un giovinetto, ed era assai presuntuoso, con i suoi modi pieni di smancerie e di spiacevolezza era tanto stucchevole che non c’era nessuno che gli volesse bene e men di tutti la donna.
         Ella non lo sopportava proprio e l’odiava più che il mal di testa. Perciò, con molto garbo, gli rispose che gradiva molto le dichiarazioni d’amore di lui, ma tra loro non poteva mai accadere niente di disonesto. Egli era il suo padre spirituale, si avvicinava alla vecchiaia, cose che dovevano renderlo onesto e casto. D’altra parte sapeva che ella non era una fanciulla, cui si addicevano gli innamoramenti, ma una vedova, alla quale si richiedeva grande onestà. Doveva, dunque, scusarla perché non poteva amarlo come egli avrebbe voluto.
         Il parroco non si arrese al primo colpo, ma, con grande sfacciataggine, continuò a corteggiarla insistentemente con lettere, con ambasciate e con dichiarazioni fatte di persona , quando la donna andava in chiesa.
         Il corteggiamento parve troppo fastidioso alla donna che pensò alla maniera di levarsi di dosso quel fastidio, come il prevosto meritava.
         Parlò, comunque, di ogni cosa ai suoi fratelli. Disse loro del modo di comportarsi del prete verso di lei e di ciò che intendeva fare ed ebbe la loro approvazione.
         Dopo pochi giorni andò in chiesa, come al solito. Come il prevosto la vide, le andò incontro e, come faceva di solito, le cominciò a parlare confidenzialmente.
         La donna ,vedendolo arrivare, gli sorrise. Dopo aver parlato a lungo, con un gran sospiro gli disse “ Messere, ho sentito tante volte che non c’è castello così forte che, dopo lungo assalto, non venga conquistato. Voi mi siete stato attorno, ora con dolci parole, ora con una gentilezza dietro l’altra, tanto che io ho cambiato parere e sono disposta, visto che vi piaccio tanto, ad essere vostra”.
         Il parroco, tutto contento, la ringraziò dicendo che si era molto meravigliato per la resistenza di lei, pensando che se le donne fossero state d’argento non sarebbero valse nemmeno pochi soldi, perché nessuna avrebbe resistito al martello.. Ma , tralasciando il resto, le chiese dove e quando avrebbero potuto stare insieme.
         La donna gli rispose che, poiché era senza marito, non doveva dar conto a nessuno delle sue notti, per cui era disponibile in ogni momento, ma non sapeva pensare dove.
         Il prevosto propose di incontrarsi a casa di lei.
Ma la donna rispose che aveva due fratelli giovani che di giorno andavano a casa sua con le loro brigate e che la sua casa non era era troppo grande e perciò non si ci poteva stare. Era possibile stare in camera di lei solo se si stava in silenzio, senza parlare e al buio ,come i ciechi. Ma la sua camera era a fianco alla camera dei fratelli, tanto che non si poteva dire neanche una parola sottovoce, che non si sentisse dall’altra parte.
Il prete propose, allora, di pazientare un paio di giorni, mentre trovava una soluzione migliore.
La donna gli raccomandò il massimo riserbo. Egli promise e le chiese se era possibile incontrarsi quella sera stessa. La donna rispose che era possibile e , dopo avergli dato disposizioni sul come e sul quando dovesse andare da lei, se ne tornò a casa.
Monna Piccarda aveva una fantesca, non troppo giovane,che aveva il viso più brutto e più truccato che si fosse mai visto. Aveva il naso schiacciato, la bocca storta, le labbra grosse, i denti grandi e storti; era quasi cieca, soffriva con gli occhi, che erano di un colore tra verde e giallo, che pareva che avesse trascorso l’estate non a Fiesole ma a Sinigallia. Oltre tutto era sciancata e un po’ zoppa sul lato destro.
Il suo nome era Ciuta e perché aveva il viso così cagnazzo da tutti gli uomini era chiamata Ciutazza.
Pur essendo bruttissima, pure era alquanto maliziosetta.
La padrona la chiamò presso di sé e le disse che le avrebbe donato una camicia nuova se nella notte le avesse fatto un servizio. La Ciutazza promise che si sarebbe gettata nel fuoco per lei.
La donna, allora, spiegò che voleva che giacesse nel suo letto con un uomo, facendogli molte moine, senza dire neanche una parola, per non farsi sentire dai fratelli di lei, che dormivano nella stanza accanto; poi le avrebbe dato la camicia.
La Ciutazza disse che avrebbe dormito con sei uomini, non con uno ,se fosse stato necessario.
Venuta la sera, il prevosto venne, come gli era stato ordinato.
I due fratelli, come aveva disposto la donna, erano nella stanza accanto e facevano molto rumore.
Il prete, in silenzio e al buio, entrò nella camera della donna e se ne andò a letto e così pure la Ciutazza, ben istruita dalla donna su ciò che dovesse fare.
Il prevosto,credendo di avere al lato la sua donna, prese in braccio la Ciutazza e la cominciò a baciare senza dire una parola, ricambiato. Egli ,provando gran piacere, prese possesso dei beni a lungo desiderati.
La donna, che aveva organizzato ogni cosa, ordinò ai fratelli di fare il resto.
Essi, usciti silenziosamente dalla camera, andarono verso la piazza e la fortuna fu più favorevole di quanto avessero sperato.
Infatti il vescovo, per il gran caldo, passeggiando aveva chiesto dei due giovani per andare a casa loro e bere un buon bicchiere di vino. Come li vide, andò loro incontro ed espresse il suo desiderio.
 Si misero subito in cammino e giunsero nel fresco cortile di casa, dove c’erano molti lumi accesi, e bevvero del buon vino fresco.
I due giovani ,dopo aver bevuto, invitarono il vescovo a visitare la loro piccola casetta . Infatti erano andati ad invitarlo proprio per questo. Il vescovo assentì volentieri.
Uno dei giovani, presa una torcia accesa, seguendolo il vescovo e gli altri, si diresse verso la camera in cui il prevosto giaceva con la Ciutazza. Egli aveva già cavalcato più di tre volte, essendo un po’ stanco si riposava, tenendo in braccio la Ciutazza, nonostante il caldo.
Entrato, dunque, il giovane nella camera con il lume in mano, il vescovo e tutti gli altri poterono vedere il curato con la Ciutazza in braccio.
Il curato, svegliatosi ,vista la luce e tutta quella gente, per la vergogna nascose il capo sotto le lenzuola.
Il vescovo gli fece tirar fuori il capo, rimproverandolo aspramente, e gli fece vedere con chi era giaciuto.
Il prevosto, compreso l’inganno della donna, soffrì moltissimo. Per ordine del vescovo, rivestitosi, fu mandato a casa, per fare penitenza.
Il vescovo, poi, volle sapere che cosa era successo e il motivo per cui il curato era giaciuto con la Ciutazza.
I giovani gli raccontarono ogni cosa. Il vescovo, udito il fatto ,lodò molto la donna e anche i giovani, che senza macchiarsi le mani del sangue del prete, l’avevano trattato come si meritava.
Il vescovo  fece piangere al curato quel peccato per quaranta giorni, ma l’amore e lo sdegno molto di più.
Senza contare che, quando andava per la strada, tutti i fanciulli lo indicavano col dito e dicevano “ Guarda colui che giacque con la Ciutazza”.
Quella cosa gli dava molto fastidio e lo faceva quasi impazzire.
In tal modo la donna si liberò di un prevosto invadente e la Ciutazza guadagnò la camicia.





giovedì 2 aprile 2015

OTTAVA GIORNATA - NOVELLA N.3

OTTAVA GIORNATA – NOVELLA N.3

 Calandrino, Bruno e Buffalmacco ,giù per il Mugnone, vanno in cerca dell’Elitropia, e Calandrino crede di averla trovata; torna a casa carico di pietre; la moglie lo rimprovera ed egli adirato la picchia, e ai suoi compagni racconta ciò che essi sanno meglio di lui.

Finita la novella di Panfilo, che aveva fatto tanto ridere le donne, la regina ordinò ad Elissa di continuare.
Ed ella, ridendo, disse che sperava di farle ridere con la sua novelletta, come aveva fatto Panfilo con la sua.
In Firenze, città sempre ricca di diversi costumi e di persone stravaganti, visse, non molto tempo prima, un pittore chiamato Calandrino, uomo semplice ed originale.
Egli trascorreva la maggior parte del tempo con altri due pittori, chiamati l’uno Bruno e l’altro Buffalmacco, uomini molto simpatici ed intelligenti, i quali spesso si divertivano con Calandrino per i suoi modi e la sua semplicità.
Vi era allora in Firenze anche un giovane di nome Maso del Saggio, molto piacevole in tutte le cose che faceva, astuto e capace, il quale, udendo che Calandrino era un sempliciotto, propose di prenderlo in giro facendogli una beffa o facendogli credere qualche fesseria.
Un giorno, per caso, lo trovò nella chiesa di San Giovanni e, vedendolo guardare con attenzione il dipinto e gli intagli del tabernacolo sopra l’altare della chiesa, pensò che era giunto il momento di attuare il suo progetto.
Informato un compagno della sua intenzione, insieme si accostarono dove Calandrino sedeva, tutto solo.
Fingendo di non averlo visto, cominciarono a discutere tra loro delle virtù delle diverse pietre, delle quali Maso parlava con tanta competenza, come se fosse stato un esperto conoscitore di pietre.
Calandrino pose attenzione a quei discorsi e, visto che non erano segreti, dopo un po’,alzatosi, si unì a loro, con grande piacere di Maso. Calandrino, ascoltando le parole di Maso, gli chiese dove si trovavano quelle pietre così portentose.
Maso rispose che, per la maggior parte, si trovavano in Berlinzone, terra dei baschi, nella contrada di Bengodi, dove si legavano le vigne con le salsicce e si poteva comprare un’oca per poco, con l’aggiunta di un papero .
Vi era, poi, una montagna di formaggio parmigiano grattugiato, sul quale stava della gente che faceva soltanto maccheroni e ravioli e li cuoceva in un brodo di capponi. Poi li gettava giù e chi più ne pigliava ,più ne aveva.
In quei pressi scorreva un fiumicello di Vernaccia, del migliore che mai si bevve, senza neppure una goccia d’acqua.
Calandrino, meravigliato, chiese che cosa si facesse dei capponi cotti , e Maso gli rispose che se li mangiavano i baschi.
Calandrino chiese a Maso se c’era mai stato in quel paese e a quante miglia di distanza fosse, e Maso rispose
“ Mi chiedi se ci sono mai stato? Si, ci son stato così una volta come mille. Dista più di millanta, che tutta la notte canta”. Lo scioccone rispose che doveva essere più lontano degli Abruzzi e Maso rispose di sì.
Calandrino, sempliciotto, vedendo Maso che diceva tutte quelle sciocchezze senza ridere e con viso serio, credette che fosse tutto vero e rispose che il posto era troppo lontano per lui, ma se fosse stato più vicino ci sarebbe sicuramente andato; fosse soltanto per vedere quei bei maccheroni cadere giù e farsene una bella mangiata..
Chiese ,poi, se per caso un po’ di quelle pietre straordinarie non si trovasse anche nelle loro contrade.
E Maso rispose che lì si trovavano due tipi di quelle pietre virtuose. Un tipo erano i macigni che si trovavano a Settignano e a Montisci, che venivano macinati e se ne faceva la farina. Era di ottima qualità ma non troppo apprezzata colà, come gli smeraldi, di cui c’era gran quantità in Monte Morello, dove rilucevano a mezzanotte.
Aggiunse che chi legava in anelli le macine ,prima che fossero forate, e le portava al sultano, avrebbe avuto da lui tutto ciò che volesse.   
L’altra cosa era l’Elitropia, una pietra di grandi virtù, qualunque persona che la portava con sé non era visto da nessuno, dove non era.
 Calandrino, colpito dalle virtù delle pietre, chiese dove si trovava quella pietra e di che colore fosse.
Maso rispose che di pietre di quel tipo se ne trovavano nel Mugnone ed erano di varia grandezza, grandi e piccole, ma erano di colore quasi come nero.
Calandrino, udite tutte quelle cose, fingendo di aver altro da fare, si allontanò da Maso e decise di andare a cercare quella pietra.
Volle, comunque, informare i suoi due cari amici Bruno e Buffalmacco. Consumò tutta la mattinata a cercarli.
Infine, essendo ormai le tre del pomeriggio, si ricordò che essi lavoravano nel monastero delle monache di Faenza. Sebbene facesse molto caldo, lasciata ogni altra faccenda, li andò a chiamare.
Disse loro che, se gli credevano, potevano diventare gli uomini più ricchi di Firenze.Aveva saputo da un uomo degno di fiducia che in Mugnone si trovava una pietra, che chi la indossava, non era visto da nessuna persona. Gli sembrava opportuno andarla a cercare, l’avrebbero sicuramente trovata. Una volta trovata, dovevano metterla nella borsa e andare alle tavole dei banchieri che erano sempre piene di monete e di fiorini e prendersene quanti ne volessero, senza che nessuno li vedesse. In questo modo rapidamente si sarebbero arricchiti, senza dover stare tutto il giorno a sporcare le mura, come le lumache.
Bruno e Buffalmacco, sentendolo, cominciarono a ridere tra loro;guardandosi, fecero finta di meravigliarsi, e approvarono la decisione dell’amico.
Buffalmacco gli chiese come si chiamava la pietra. Calandrino, smemorato, aveva già dimenticato il nome, per cui rispose che il nome non era importante, ma lo erano i suoi poteri. Riteneva, dunque, che dovessero andare a cercarla ,senza più indugiare.
Bruno, allora, chiese com’era fatta. Prontamente Calandrino rispose che la pietra era quasi nera, per cui riteneva che dovessero raccogliere tutte le pietre che sembravano nere e dovevano fare presto.
Bruno, rivolgendosi a Buffalmacco, disse che Calandrino aveva ragione ma non gli sembrava l’ora adatta perché nel Mugnone il sole era alto ed aveva asciugato tutte le pietre che, perciò, sembravano tutte bianche.
Inoltre ,essendo un giorno lavorativo, al Mugnone c’era a lavorare molta gente, che vedendoli lì, avrebbe potuto indovinare cosa stessero facendo; sarebbero potuti venire alle mani, perdendo una buona occasione.
Riteneva che quell’opera si dovesse fare di mattina, quando si distinguevano meglio le pietre nere dalle bianche,e in un giorno di festa, quando non c’era nessuno.
Buffalmacco lodò il consiglio di Bruno ed anche Calandrino fu d’accordo.
Decisero di andare, tutti e tre insieme, la domenica mattina seguente a cercare la pietra.
Calandrino raccomandò ai due amici di non farne parola con nessuno. Poi, raccontò loro ciò che aveva udito della contrada di Bengodi, giurando che era tutto vero.
Calandrino attese con ansia la domenica mattina; quando essa giunse, si alzò sul far del giorno.
Insieme con i compagni, usciti per la porta di San Gallo,giunti al Mugnone, cominciarono a cercare la pietra.
Calandrino era il più veloce di tutti nella ricerca, saltando rapidamente ora qua ora là, dovunque vedeva una pietra nera si gettava, la raccoglieva e se la metteva in seno.
I compagni lo seguivano e, di tanto in tanto, raccoglievano qualche pietra.
Calandrino non si allontanò dalla via finchè non ebbe riempito tutto il seno. Azatosi i lembi della veste, che non era corta, facendo con essi un ampio grembo, avendoli attaccati da ogni parte alla cintura, bel presto lo riempì.
Dopo un po’ di tempo riempì di pietre anche il suo mantello, legando i lembi.
Buffalmacco e Bruno videro che Calandrino era carico e si avvicinava l’ora di mangiare.
Come si erano accordati, Bruno chiese a Buffalmacco “Calandrino dov’è”. E Buffalmacco, che lo vedeva lì vicino, girandosi intorno e guardando qua e là, rispose “Io non so, pure poco fa era proprio qui, davanti a noi”.
I due birbanti fingevano di essere stati ingannati da Calandrino, che li aveva lasciati lì a cercare una pietra nera con grandi poteri, come due sciocchi, mentre se ne era andato tranquillamente a mangiare.
Calandrino, udendo quelle parole, credette che, per la virtù di quella pietra che aveva trovato, sebbene fosse loro vicino, non lo vedessero.Tutto felice, senza dir loro nulla, si avviò verso casa.
Anche i due compagni decisero di andarsene, lagnandosi della beffa fatta loro da Calandrino, giurando che se l’avessero visto gli avrebbero scagliato contro tanti sassi, che se ne ne sarebbe ricordato per un mese.
Detto ciò, Bruno prese una pietra e la scagliò contro Calandrino, colpendolo al calcagno.
Il poveretto sentì un gran dolore, ma si mise a correre, senza dir niente, e se ne andò.
Buffalmacco, dal canto suo,con in mano uno dei ciottoli che aveva raccolto, disse a Bruno “ Vedi che bel ciottolo, possa giungere subito nelle reni di Calandrino”, e lo scagliò contro le reni del malcapitato, provocandogli un gran dolore.
E così se ne andarono attraverso il Mugnone ,fino alla porta di San Gallo, lapidandolo.
Poi, lasciate le pietre che avevano raccolte, si fermarono un poco con le guardie del dazio, le quali, informate dai due, fecero passare Calandrino, fingendo di non vederlo, sbellicandosi dalle risa.
Lo stupidone, senza fermarsi, andò a casa sua che era vicina al Canto alla Macina.
La fortuna favorì la beffa, perché ,mentre Calandrino andava dal fiume fino alla città, nessuno gli rivolse la parola, anche se, in verità, incontrò poche persone, perché quasi tutti erano a pranzo.
Calandrino, dunque, arrivò ben carico a casa sua. In cima alla scala trovò sua moglie, monna Tessa, una donna bella e intelligente.
Ella, preoccupata perché il marito non si ritirava, vedendolo venire, gli chiese dove diavolo era andato e perché ritornava quando ormai tutti avevano già pranzato.
Calandrino, udendo ciò, comprese che la moglie lo aveva visto e, pieno di dolore, cominciò a gridare e a inveire contro la donna, accusandolo di averlo distrutto.
Poi, salito in una stanza e scaricate tutte le pietre che aveva, adirato corse verso la moglie, la afferrò per le trecce ,la gettò per terra e la colpì con violenza, per tutto il corpo, con le mani e i piedi, dandole pugni e calci, senza lasciarle nemmeno un capello o un osso che non fosse stato colpito.
Alla donna non valse a nulla il chiedere grazia con le mani giunte.
Buffalmacco e Bruno, dopo che avevano riso un po’ con le guardie, cominciarono a seguire Calandrino da lontano con passo lento.
Giunti alla porta di casa, sentirono che egli stava battendo la moglie e, fingendo di essere appena arrivati,
lo chiamarono.
Calandrino, tutto sudato,rosso e affannato, si affacciò e li pregò di salire.           
Essi salirono, fingendosi sorpresi, e videro la stanza piena di pietre e, in un angolo, la donna scapigliata, stracciata, piena di lividi e ferita al viso, che piangeva; dall’altro lato Calandrino sedeva sfinito.
         Dopo essersi guardati attorno, gli chiesero se voleva fare una costruzione, perché vedevano tante pietre.
Gli domandarono, poi ,che cosa avesse monna Tessa ;sembrava che l’avesse picchiata.
        Calandrino, affaticato dal peso delle pietre, dalla rabbia con cui aveva picchiato la donna, dal dolore perché gli sembrava di aver perduto una grossa fortuna, non riusciva a rispondere per l’affanno.
         Buffalmacco ricominciò dicendo che, se Calandrino era adirato per qualche altro motivo non li doveva tormentare come aveva fatto, li aveva spinti a cercare con lui la pietra preziosa e poi li aveva lasciati lì, nel Mugnone, come due idioti e se ne era tornato a casa.Essi avevano preso molto a male la cosa.
        Sicuramente quella era stata l’ultima beffa che aveva fatto loro.
        Calandrino rispose che non si dovevano preoccupare ,perché le cose stavano in un altro modo.Egli, sventurato,aveva trovato la pietra e , per provare che diceva la verità, ricordò che, quando si chiedevano l’un l’altro dove fosse finito, era a meno di dieci braccia da loro. Mentre loro camminavano senza vederlo, egli se ne andava poco innanzi. Raccontò, poi, tutto ciò che avevano fatto e detto, dall’inizio alla fine e mostrò loro la schiena e il calcagno come li avevano conciati i ciottoli.
         Inoltre aggiunse che mentre tornava a casa, passando dalla porta della città, non gli fu detto niente. Eppure essi sapevano bene com’erano noiosi i guardiani ,che volevano controllare ogni cosa. Nemmeno i compagni e gli amici incontrati, che ,di solito, lo chiamavano e lo invitavano a bere, gli avevano detto neppure mezza parola, proprio come se non l’avessero visto.
Alla fine, giunto a casa, quella femmina maledetta della moglie gli si era parata davanti e lo aveva visto. Poiché le donne facevano perdere la magia ad ogni cosa, egli ,che si poteva cosiderare il più fortunato uomo di Firenze, era rimasto il più sventurato. Per questo l’aveva battuta, finché aveva avuto forza, e non sapeva che cosa lo tratteneva dal tagliarle le vene. Malediceva l’ora in cui l’aveva vista per la prima volta e quella in cui era andata in quella casa. E, riaccesasi l’ira, stava per picchiarla di nuovo.
        Buffalmacco e Bruno, udendo quelle cose, a stento si trattenevano dallo scoppiare a ridere.
        Vedendolo alzarsi furioso per battere nuovamente la moglie, lo trattennero dicendo che la donna non aveva alcuna colpa. Egli che sapeva che le donne facevano perdere la virtù alle cose, avrebbe dovuto dire alla moglie di non apparirgli davanti in quel giorno. Dio gli aveva tolto quell’accortezza o perché quella fortuna non doveva essere sua o perché egli aveva intenzione di ingannare i suoi compagni, ai quali doveva mostrare la pietra, dopo averla trovata.
         Dopo molte parole se ne andarono, dopo aver riconciliato, con gran fatica, la donna sofferente con lui, lasciandolo malinconico ,con la casa piena di pietre.