venerdì 30 gennaio 2015

SETTIMA GIORNATA -NOVELLA N.5

SETTIMA GIORNATA – NOVELLA N.5

Un geloso sotto l’aspetto di un prete confessa la moglie ,che gli fa credere che ama un prete il quale va da lei ogni notte; allora il marito geloso di nascosto si pone a guardia dell’uscio, mentre la donna fa passare il suo amante dal tetto e con lui giace.

Lauretta aveva finito il suo racconto e tutte le donne avevano commentato che la donna aveva fatto bene, come era conveniente nei confronti di un uomo malvagio.
Il re, per non perdere tempo, si rivolse alla Fiammetta e ,con garbo, le ordinò di continuare.
Ed ella incominciò dicendo che la novella precedente la spingeva a parlare di un altro marito geloso, ritenendo che quello che aveva fatto la moglie di lui era ben fatto, soprattutto per la gelosia senza motivo.
Aggiunse che se i legislatori avessero ben guardato ogni cosa, avrebbero dato alle donne l’attenuante della legittima difesa, come facevano per gli uomini che assalivano per difendersi.
 Infatti i gelosi insidiavano la vita delle giovani donne e ricercavano la morte di esse con grande diligenza.
 Esse stavano tutta la settimana rinchiuse, occupandosi delle faccende familiari e domestiche, desiderando nel giorno di festa un po’ di riposo, un po’ di divertimento, così come facevano i contadini, i governanti e i magistrati, come fece Dio che il settimo giorno si riposò da tutte le sue fatiche.
Così volevano le leggi religiose e civili che, tenendo conto dell’onore di Dio e del bene comune, avevano distinto i giorni del lavoro da quelli del riposo.
Il che non consentivano i gelosi, anzi , nei giorni in cui tutte le altre donne erano liete, tenevano le proprie mogli ancora più rinchiuse e prigioniere, facendole soffrire di più. Solo chi l’aveva provata poteva comprendere la sofferenza delle poverine..
Concluse dicendo che ciò che una donna faceva a un marito a torto geloso  non doveva essere condannato, ma apprezzato.
Vi fu , dunque, a Rimini, un mercante assai ricco di possedimenti e di denari il quale, avendo per moglie una bellissima donna, ne divenne molto geloso. Non aveva altra ragione che il suo amore e il ritenerla molto bella.
Siccome conosceva tutto l’impegno che ella metteva nel piacergli, pensava che tutti gli uomini l’amassero e che ella si impegnasse a piacere agli altri, come faceva con lui (pensieri di uomo diffidente).
Così ingelosito la sorvegliava tanto strettamente che nemmeno i condannati alla pena capitale erano controllati così attentamente.
La donna non poteva andare ad un matrimonio o ad una festa o in chiesa o mettere il piede fuori di casa per nessuna ragione, ma non osava nemmeno avvicinarsi ad una finestra, né guardar fuori di casa per nessun motivo. Perciò la sua vita era pessima ; tanto più sopportava malvolentieri questa noia, quanto meno si sentiva colpevole.
Vedendosi ingiuriata a torto dal marito, decise di consolarsi facendogli, se avesse potuto trovare qualcuno, quel torto di cui era ingiustamente accusata.
Anche se non poteva avvicinarsi alla finestra, sapeva che nella casa confinante con la sua viveva un giovane bello e garbato. Pensò che, se avesse trovato nel muro, che divideva le due case, un buco, avrebbe potuto, attraverso quello, parlare con il giovane e donargli il suo amore, se egli l’avesse voluto.
Pensò anche  di trovare un modo per incontrarsi con lui qualche volta, così da passare quella triste vita, finché quella malattia non abbandonasse il marito.
Quando il marito non c’era, guardava continuamente il muro della casa.
Finalmente vide che ,in un punto molto nascosto, il muro era aperto da una fessura.
Guardando attraverso di essa, anche se non si poteva vedere bene, si accorse che la fessura si apriva in una camera; fu ben lieta di ciò, sperando che fosse la camera di Filippo. Con l’aiuto di una fantesca ,che si occupava di lei, seppe che quella era veramente la camera dove il giovane dormiva tutto solo. Dalla fessura cominciò a buttare pietrucce e fuscelli, tanto che il giovane ,incuriosito, si avvicinò per vedere che cosa fosse.
Ella lo chiamò e Filippo rispose, riconoscendo la sua voce.
Brevemente la donna gli aprì tutto il suo animo.
Il giovane fu molto contento e allargò un po’ di più il buco, senza che nessuno se ne accorgesse.
Attraverso di esso spesso parlavano e si toccavano ,ma di più non potevano per la stretta sorveglianza del marito geloso.
Avvicinandosi la festa di Natale, la donna disse al marito che, col suo permesso, voleva andare la mattina della festa a confessarsi e comunicarsi, come facevano tutti gli altri cristiani.
Il marito geloso le chiese che peccati avesse fatto ,che si dovesse confessare.
La donna rispose che aveva commesso dei peccati come tutte le altre persone, sebbene la tenesse chiusa, ma che non voleva dirli a lui ,che non era prete.
Il geloso a quelle parole si insospettì ,volle sapere che peccati avesse commesso la moglie e pensò al modo di poterli conoscere.
Dunque le ordinò di andare alla loro cappella, non in un’altra chiesa, a prima mattina, di confessarsi con il loro cappellano o con un altro prete da lui mandato e di tornare a casa immediatamente.
La donna assicurò che così avrebbe fatto.
Venuta la mattina della festa, ella si alzò all’alba e se ne andò alla chiesa impostale dal marito.
Il geloso andò alla stessa chiesa prima della moglie.
Avendo già avvisato il prete delle sue intenzioni, indossato il mantello del prete con un gran cappuccio che gli copriva le gote, come lo portavano i religiosi, dopo esserselo tirato un po’ più avanti, si mise a sedere nel coro.
La donna, giunta in chiesa, chiese il prete per la confessione.
Il prete giunse e, udita la richiesta, rispose che egli non poteva ,ma avrebbe mandato un suo compagno.
Andatosene, mandò il geloso. Egli, sebbene avesse messo il cappuccio davanti agli occhi, non riuscì ad ingannare la donna, che lo riconobbe immediatamente e pensò al modo di ingannarlo.
Fingendo di non conoscerlo, si inginocchiò ai piedi di lui.
Messer geloso si era messo in bocca alcune pietrucce , che gli impedissero alquanto di parlare, in modo che la moglie non lo riconoscesse, ed era convinto che la donna non lo avesse riconosciuto.
Venendo alla confessione, la donna gli disse, tra l’altro, che era sposata e che era innamorata di un prete che ogni notte andava a giacere con lei.
Quando il geloso udì ciò, gli parve come se avesse ricevuto un colpo al cuore e, se non fosse stato per la volontà di saperne di più, avrebbe abbandonata la confessione e se ne sarebbe andato.
Chiese, dunque, alla donna se il marito dormiva accanto a lei. Alla risposta affermativa domandò come era possibile che il prete giacesse con lei.
E la donna spiegò che il prete aveva la grande abilità di aprire, con un solo tocco, la porta di casa, anche se era ben chiusa. E, quando arrivava alla porta della sua camera, prima di aprirla, diceva alcune parole che facevano addormentare, immediatamente, il marito. Come sentiva che il marito si era addormentato, apriva la porta, entrava in camera e stava con lei. Ed in ciò non sbagliava mai.
Il geloso disse che quella cosa era malfatta e non si doveva più ripetere, altrimenti le avrebbe negato l’assoluzione.
La donna rispose che amava troppo il prete e temeva di non riuscire ad allontanarlo da lei.
Il geloso le assicurò che avrebbe rivolto a Dio, in nome di lei, alcune preghiere speciali, che forse le avrebbero giovato. Le avrebbe mandato, di tanto in tanto, un chierichetto per sapere se le erano giovate, per procedere.
La donna lo pregò di non mandare nessuno a casa sua perché il marito era molto geloso e non le avrebbe dato pace per tutto l’anno. Il falso prete le promise il segreto.
Terminata la confessione, presa la penitenza, la donna andò ad ascoltare la messa, mentre il geloso si spogliò dei panni del prete e se ne tornò a casa , pensando al modo di scoprire la moglie e il religioso insieme e far loro un brutto scherzo.
La donna si accorse dal viso del marito di avergli rovinato la festa.
Il geloso decise che la notte seguente avrebbe aspettato l’arrivo del prete davanti all’uscio di casa.
Disse alla moglie che quella sera sarebbe andato a cenare e a dormire fuori, perciò le ordinò di chiudere a chiave tutte le porte di casa e di andarsene a dormire.
Appena le fu possibile, la donna andò alla buca, fece il segnale a Filippo, che si avvicinò subito ,gli disse quello che aveva fatto la mattina e quello che il marito, dopo pranzo ,le aveva detto. Aggiunse che, sicuramente, il marito si sarebbe messo a guardia della porta, per cui il giovane poteva andare da lei la notte attraverso il tetto, per stare un po’ insieme. Il giovane, ben contento, assentì.
Venuta la notte il geloso si nascose nella camera a pianterreno.
La donna chiuse a chiave tutte le porte e soprattutto quella a metà scala, in modo che il marito non potesse più salire. Quando giunse il giovane, se ne andò con lui a letto, dandosi piacere l’un l’altro per molto tempo. Venuto il giorno l’amante se ne tornò a casa sua.
Il geloso, triste e digiuno, morto di freddo, stette quasi tutta la notte, con le armi al lato, vicino all’uscio ad aspettare che il prete venisse. Avvicinatosi il giorno, non potendo più resistere, si addormentò nella camera a pianterreno. Verso le nove si svegliò, la porta di casa era già aperta ed egli, fingendo di venire da fuori, salì in casa e mangiò.
Poco dopo mandò alla moglie un ragazzino, come se fosse stato il chierichetto del prete che l’aveva confessata, a chiedere se il prete amante fosse andato da lei quella notte.
La donna, che conosceva bene il ragazzo, rispose che quella notte il prete non era andato da lei, e che, continuando così, forse se ne sarebbe dimenticato, anche se lei se ne doleva.
Il geloso stette molte notti davanti all’uscio di casa in attesa di veder giungere il prete, mentre la donna si dava da fare con il suo amante.
Alla fine domandò alla moglie che cosa ella aveva detto al confessore la mattina che si era confessata.
La donna rifiutò di rispondergli.
Allora il geloso inveì contro di lei e la minacciò, rivelandole che egli sapeva ciò che aveva detto al confessore e cioè che era innamorata di un prete e tutte le notti si incontrava con lui.
La donna negò e , alle insistenze del marito, rispose che avrebbe potuto sapere ciò che ella aveva detto in confessione solo se fosse stato presente.
Dopo molte discussioni la donna  cominciò a sorridere e rivelò al marito, chiamandolo sciocco, montone con le corna, bestia, gelosone, che ella l’aveva subito riconosciuto, durante la confessione. Perciò, per punirlo di aver tentato di carpire con l’inganno i suoi segreti, aveva detto di amare un prete. Ed aveva detto il vero, perché non era forse egli ,in quel momento, un prete? Aveva detto che nessuna porta della sua casa gli si poteva tenere chiusa mentre giaceva con lei, ed era vero, perché le porte della casa erano tutte aperte a lui che era il padrone, quando voleva andare da lei; aveva detto che il prete giaceva ogni notte con lei e non era forse vero che il marito giaceva ogni notte con lei?. Solo uno stupido come lui, accecato dalla gelosia, non avrebbe capito tutto. E se era stato in casa la notte a far da guardia alla porta, facendo credere di essere fuori a cena e a dormire.
Era giunto, ormai, il momento di ravvedersi e di ritornare uomo, com’era prima, evitando che gli altri lo schernissero. Doveva smetterla di sorvegliarla come faceva perché, lo giurava su Dio, se avesse voluto mettergli le corna, ci sarebbe riuscita senza che se ne accorgesse, anche se avesse avuto cento occhi, non solo due.
Il geloso, che pensava di aver astutamente scoperto il segreto della moglie, rimase scornato.
Senza rispondere altro, la ritenne buona e saggia e si liberò della sua gelosia.
L’astuta donna, avendo quasi avuto il permesso di fare quello che voleva, non più per il tetto, ma per l’uscio, con discrezione, fece entrare spesso il suo amante, operando con lui ,e si diede a lieta vita.




 S

giovedì 22 gennaio 2015

SETTIMA GIORNATA - NOVELLA N.4

SETTIMA GIORNATA NOVELLA N.4

Tofano una notte chiude la moglie fuori di casa, ella non potendo rientrare malgrado le preghiere, finge di gettarsi in un pozzo, invece vi getta una gran pietra; Tofano esce di casa e corre là, ella se ne entra in casa e chiude lui fuori e, sgridandolo, lo insulta.

Il re, come sentì che la novella di Elissa era finita, senza indugio, si rivolse alla Lauretta invitandola a proseguire.
Ed ella incominciò col dire che grandi erano le forze di Amore, grandi i suoi accorgimenti, quali nessun filosofo e nessun artista avrebbe mai potuto pensare. La dottrina di chiunque altro era inferiore alla sua, come si poteva comprendere dalle cose fino ad allora mostrate. Ed ella voleva aggiungerne ancora una ,messa in atto da una donna umile, guidata da Amore.
Vi fu, dunque, in Arezzo un ricco uomo, chiamato Tofano. A costui fu data per moglie una bellissima donna ,il cui nome era Ghita. Egli divenne, senza motivo, follemente geloso di lei; della qual cosa ella si sdegnò moltissimo. Decise, perciò, di farlo morire del male del quale egli aveva paura , senza ragione, cioè di gelosia.
Essendosi accorta che un giovane, a suo giudizio, molto per bene, la desiderava, cominciò ad intendersi con lui, con discrezione.  Si erano già scambiati molte parole e le cose erano tanto avanti che bisognava soltanto passare dalle parole ai fatti; la donna pensò a come fare.
Sapendo che al  marito piaceva bere, astutamente lo sollecitò a farlo molto più spesso. Ogni volta che le piaceva lo spingeva a bere, fino ad ubriacarsi; quando lo vedeva ben ebbro, lo metteva a dormire e si incontrava con il suo amante.
Aveva tanta fiducia nell’ebbrezza del marito che, non solo aveva l’ardire di portarsi l’amante in casa, ma , addirittura, alcune volte se ne andava a dormire nella casa di lui, che non era molto lontana.
Le cose andarono avanti così per un certo tempo. Ad un certo punto il marito malvagio si accorse che ella, nello spingere lui a bere, non beveva mai. Sospettò, perciò, che la donna lo facesse ubriacare per poter fare il suo comodo, mentre era addormentato. E, volendo provare che ciò era vero, senza aver bevuto durante il giorno, la sera finse di essere l’uomo più ubriaco che fosse mai possibile, sia nel parlare che nei modi.
La donna, vedendo ciò, ritenendo che non fosse il caso di farlo bere di più, lo mise subito a dormire.
Fatto ciò, come era solita fare, uscita di casa, se ne andò alla casa del suo amante, dove rimase fino a mezzanotte.
Tofano, come non sentì più la donna, si alzò, andò alla porta , la chiuse dall’interno e si pose alla finestra, per attendere il ritorno di lei e palesarle che si era accorto delle sue macchinazioni.
Aspettò finché non ritornò la donna, la quale, trovandosi chiusa fuori, si rammaricò molto e tentò di aprire la porta con la forza.
Dopo aver sopportato per un po’ di tempo, Tofano disse “ Donna ,ti affatichi inutilmente, perché non potrai più tornare qui dentro. Torna dove sei stata fino ad ora. Sappi per certo che non tornerai qui finché non avrò informato di questa cosa i tuoi parenti e i vicini”.
La donna cominciò a pregarlo che le aprisse ,per amor di Dio, dicendo che non veniva da dove egli pensava, ma era andata a vegliare con una sua vicina, perché le notti erano lunghe ,non riusciva a dormire  e non voleva rimanere in casa da sola a vegliare.
Ma le preghiere non servivano a nulla perché quella bestia voleva che tutti gli aretini conoscessero la loro vergogna. La donna, vedendo che il pregare non le serviva, cominciò a minacciare che ,se non apriva, avrebbe fatto di lui l’uomo più malvagio tra i viventi.
Tofano le chiese che cosa gli voleva fare, ed ella, alla quale Amore aveva aguzzato l’ingegno, rispose che si sarebbe gettata in un pozzo, che era lì vicino. Chi l’avesse trovata là dentro morta, sicuramente avrebbe pensato che ce l’aveva gettata il marito, in stato di ubriachezza.. Così gli sarebbe toccato di fuggire, di perdere tutto ciò che aveva e di essere messo al bando ,oppure gli avrebbero  tagliata la testa come suo assassino, come meritava.
Non avendo smosso Tofano dalla sua sciocca idea, la moglie, chiedendo perdono a Dio per il dolore che l’uomo le provocava, si diresse verso il pozzo.
La notte era molto buia e nella via non si poteva distinguere un uomo dall’altro.
Presa una grandissima pietra ,che era vicino al pozzo, gridando “Iddio, perdonami”, la lasciò cadere nel pozzo.
La pietra, cadendo nell’acqua, fece un grandissimo rumore, udendo il quale, Tofano credette veramente che la moglie si fosse gettata nel pozzo.
Prese subito un secchio con una fune e, uscito di casa, corse al pozzo per aiutarla.
La donna che era nascosta presso l’uscio di casa, come lo vide correre al pozzo, entrò in casa e si chiuse dentro. Andata alla finestra, cominciò a dire che il vino si doveva annacquare quando uno lo beveva e non dopo.
Tofano, comprendendo che era stato giocato, tornò all’uscio e ,non potendo entrare, chiese alla moglie che gli aprisse. Ella, quasi gridando, cominciò a dire che non gli avrebbe aperto la porta quella notte, che non ne poteva più dei suoi modi da ubriacone. Voleva che ogni uomo vedesse chi era suo marito e a che ora ritornava a casa la notte.
Tofano, dal canto suo, cominciò a dire volgarità e a gridare, svegliando per il rumore tutti i vicini, che si alzarono e si affacciarono alle finestre per vedere che cosa fosse accaduto.
La donna, piangendo, spiegò che il marito la sera tornava sempre ubriaco a casa oppure si addormentava nelle taverne tornando a casa a notte fonda. Ella aveva a lungo sofferto di ciò, non aveva ottenuto alcun miglioramento e non poteva più sopportare tale situazione. Allora l’aveva chiuso fuori di casa per vedere se otteneva qualcosa.
Tofano bestia continuava, gridando, a dire come erano andati i fatti e a minacciarla.
La donna ,da parte sua, diceva con i vicini “Vedete che razza di uomo è. Che direste voi se io fossi nella strada ed egli in casa ,come me ora? Credereste che egli dica il vero? Egli dice che io ho fatto quello che credo che egli abbia fatto. Credette di spaventarmi gettando non so che cosa nel pozzo, ma volesse Iddio che ci si fosse gettato per davvero e affogato, sicché il vino ,che ha bevuto di soperchio, si fosse ben bene annacquato”.
I vicini, sia gli uomini che le donne, cominciarono a rimproverare Tofano e a dare la colpa a lui di ciò che diceva contro la donna.
La notizia, in breve, andò di bocca in bocca finché non giunse ai parenti della donna, i quali presero Tofano e gli dettero tante botte che lo ammaccarono tutto. Poi, andati nella casa di Tofano, presero le cose della donna e con lei ritornarono a casa loro, minacciando il malcapitato.
Tofano, vedendosi mal ridotto, considerando dove l’aveva portato la gelosia, siccome voleva molto bene alla sua donna, mise alcuni amici come mediatori.
Tanto fece che riebbe a casa sua la moglie, alla quale promise che non sarebbe stato geloso mai più.
Le diede, inoltre, il permesso di fare tutto ciò che volesse, ma con prudenza, in modo che egli non se ne accorgesse.
E così, come il villano matto, dopo il danno fece il patto.
E la narratrice concluse inneggiando all’amore e all’allegra brigata.







mercoledì 14 gennaio 2015

SETTIMA GIORNATA - NOVELLA N.3

SETTIMA GIORNATA – NOVELLA N.3

Frate Rinaldo giace con la comare; il marito lo trova in camera con lei e gli fanno credere che egli incantava i vermi del figlioccio.

Le donne, sentendo Filostrato parlare delle cavalle della Partia, risero, fingendo di ridere d’altro.
Appena la novella finì, il re ordinò ad Elissa di continuare ed ella fu ben contenta di obbedire.
Cominciò dicendo che l’incantesimo della Fantasima, narrato da Emilia, le aveva fatto ricordare una novella di un altro incantesimo che, se non era bella come quella, pure le avrebbe divertite.
Proseguì narrando che in Siena, qualche tempo prima, visse un giovane leggiadro e di onorevole famiglia, di nome Rinaldo, che amava sommamente una sua vicina, assai bella, sposata con un ricco uomo.
Sperando di poterle parlare senza sospetto, poiché la donna era gravida, decise di diventare suo compare, divenne , perciò ,amico del marito e si accordò con lui in tal senso. Dunque, divenuto Rinaldo compare di madonna Agnese, cercò in tutti i modi di parlarle per farle capire le sue intenzioni. La donna, udendolo, sorrise lusingata, senza nulla concedere.
In seguito, qualunque ne fosse il motivo, Rinaldo si fece frate, pur conservando l’amore che portava alla sua comare e certe sue vanità. Infatti si dilettava di essere ben messo, di vestire con buoni abiti, di essere in tutte le sue cose elegante e raffinato, di comporre canzoni, sonetti e ballate e di cantare, soddisfatto di tutte quelle cose e di altre simili.
Si parlava di frate Rinaldo ma, in effetti, tutti i religiosi facevano così, disonorando il mondo con la loro corruzione. Essi non si vergognavano di essere grassi, coloriti in viso, raffinati negli abiti e nelle abitudini e danzavano tronfi e pettoruti, con la cresta alzata, non come colombi ma come galli. E la cosa peggiore era che (tralasciando il fatto che le loro celle erano piene di vasetti colmi di unguenti, di scatole piene di dolciumi, di ampolle ed anforette con acque colorate e oli, di botti di malvasia e di greco e di altri vini preziosissimi, tanto che sembravano non celle di frati ma botteghe di speziali e di profumieri) non si vergognavano che tutti sapessero che erano gottosi.
Pensavano che gli altri non sapessero che, di solito, i digiuni, le vivande modeste e scarse e il vivere sobriamente rendevano gli uomini magri e sani; se pure erano malati non si ammalavano di gotta, che aveva come cura la castità e ogni altra cosa propria di un frate modesto.
E ancora non credevano che gli altri sapessero che, oltre alla vita povera, le veglie, la preghiera, la disciplina rendevano gli uomini pallidi e smunti.
E i Domenicani e i Francescani nemmeno sapevano che per cacciare il freddo non avevano bisogno di quattro cappe ciascuno, né di abiti colorati e di panni morbidi, ma di vestiti fatti di lana grossa e di colori naturali.
Avesse potuto Dio provvedere alle loro necessità ,come faceva con le anime dei sempliciotti che le nutrivano
con le loro offerte.
Dunque, ritornato frate Rinaldo nei pensieri di prima, cominciò a visitare spesso la sua comare e a farle proposte sempre più insistenti.
La buona donna, vedendosi sollecitare con insistenza, sembrandole il frate un bell’uomo, pensò di concedergli ciò che egli chiedeva e, per provocarlo, gli chiese se i frati facevano quelle cose.
Il frate prontamente rispose che se si fosse levato la tonaca di dosso, le sarebbe sembrato un uomo come tutti gli altri e non un frate.
La donna, ridendo, precisò che purtroppo egli era suo compare e che fare l’amore con il compare, considerato come un parente, era un peccato molto grave, non poteva , perciò, accontentarlo.
Frate Rinaldo , allora, le disse “ Siete una sciocca ,se vi tirate indietro per questo. Non nego che sia peccato, ma Iddio perdona anche i peccati più gravi a chi si pente. Del resto , chi è più parente di vostro figlio? Io che lo tenni a battesimo o vostro marito che lo generò?”
La donna, ovviamente, rispose che era più parente il marito. E l’astuto frate continuò chiedendole se ella giaceva con il marito. Alla risposta affermativa di lei, precisò che se ella giaceva con il marito ,poteva giacere anche con lui, che era meno parente del figlio.
La donna, che non era una filosofa, o perché gli credette o perché fece finta di credergli, convinta da quei discorsi, nonostante il comparatico, acconsentì ai piaceri del frate.
Iniziarono con cautela, poi, protetti dal comparatico, si ritrovarono sempre più spesso insieme.
Una volta ,essendo frate Rinaldo andato a casa di lei , la donna, vedendo che non c’era nessuno nei paraggi tranne la sua servetta, una ragazza molto graziosa e piacevole, la mandò nella colombaia insieme con il compagno del frate, a insegnarle il paternostro.
Poi, tenendo in braccio il figlioletto, con il frate se ne andò nella sua camera, la chiuse e, sedutisi su un divanetto, cominciarono a trastullarsi. Mentre stavano così, giunse il compare e , senza che nessuno lo sentisse, arrivò fino alla camera, bussò e chiamò la moglie.
 La donna, sentendo la voce del marito, quasi svenne dalla paura, temendo che egli potesse capire il motivo di tanta familiarità.
Frate Rinaldo era svestito, senza cappa e senza scapolare, in tonaca; temette che la donna potesse aprire e il marito potesse trovarlo così. Ma la donna, astutamente, aveva già in mente un piano. Lo fece rapidamente vestire, poi gli pose in braccio il figlioccio, raccomandandogli di assecondarla in ciò che avrebbe detto.
Si avviò, infine, ad aprire al marito che continuava a picchiare.
Aperta la porta, con viso sereno, gli disse “Marito mio, certamente oggi Iddio mandò qui frate Rinaldo. Certamente, se non fosse venuto, oggi avremmo perduto il nostro figlioletto”.
 Quando lo stupidone udì ciò quasi svenne e chiese il motivo. 
La donna gli spiegò che il bambino aveva avuto uno sfinimento, che ella aveva creduto che fosse morto e non sapeva che cosa fare, né che cosa dire. Per fortuna era arrivato frate Rinaldo ,loro compare, che lo aveva preso in braccio e aveva detto “ Comare, questi sono vermini che ha nel corpo, i quali si avvicinano al cuore e lo ucciderebbero certamente. Ma non abbiate paura, perché io farò un incantesimo e li farò morire tutti e, prima che me ne vada, rivedrete il fanciullo sano come non lo vedeste mai”.
La donna aveva mandato la serva a cercare il marito che doveva dire certe orazioni, ma non lo aveva trovato. Allora le aveva fatte dire al compagno del frate, nella colombaia, che era il luogo più alto della casa, mentre ella e il frate erano entrati nella camera. Poiché quel servizio lo poteva fare solo la madre del fanciullo, e,  per non essere disturbati, avevano chiuso la porta a chiave.
I frate teneva ancora il bambino in braccio perché aspettava che tornasse il suo compagno, dopo aver detto le orazioni e l’incantesimo fosse compiuto, come credeva, dato che il figlioletto si era ripreso del tutto.
Lo stupidone credette a tutto ciò che la moglie gli aveva detto, non sospettando alcun inganno, e, gettato un gran sospiro, voleva andare a vedere. Ma la donna lo trattenne dicendo che avrebbe potuto spezzare l’incantesimo. Sarebbe andata  di persona e l’avrebbe chiamato appena possibile.
Frattanto frate Rinaldo, che aveva udito ogni cosa, si era rivestito ed aveva il bambino in braccio.
 Come ebbe sistemato tutto , chiamò la comare dicendo che aveva sentito arrivare il compare. Il frate lo fece entrare e gli affidò il figliuolo ,sano e salvo per grazia di Dio.
Lo invitò, poi, a far porre una statua di cera della grandezza del bambino davanti alla statua di Sant’Ambrogio, in lode di Dio, per grazia ricevuta.
Il fanciullo, vedendo il padre gli corse incontro e gli fece festa, come fanno tutti i bambini.
Il padre, come se lo avesse tirato fuori dalla fossa, l’abbracciò e lo baciò e ringraziò il compare che l’aveva guarito.
Il compagno del frate, che alla servetta aveva insegnato ben più di quattro paternostri e le aveva donato una borsetta fatta da una monaca, sua devota, aveva capito che lo stupidone era nella camera della moglie.
Piano, piano si era reso conto di come erano andate le cose. Vedendo che tutto era andato a buon fine, entrato nella camera disse “ Frate Rinaldo, quelle quattro orazioni che mi diceste di dire , le ho dette tutte”.
Il frate rispose che aveva fatto bene perché, per l’arrivo del padre, dal canto suo, ne aveva potuto dire soltanto due. Ma Dominedio, tra la fatica dell’uno e quella dell’altro, aveva fatto la grazia e aveva fatto guarire il fanciullo.
Il sempliciotto fece portare buoni vini e dolciumi e fece onore al suo compare ed al compagno, offrendo loro tutto ciò di cui avevano desiderio. Poi li accompagnò fuori dalla casa e li affidò al Signore.
Senza alcun indugio fece fare la statua di cera e la fece collocare con le altre davanti all’immagine di Sant’Ambrogio, non quello di Milano.

















giovedì 8 gennaio 2015

SETTIMA GIORNATA - NOVELLA N.2


SETTIMA GIORNATA - NOVELLA N.2

Peronella, poiché il marito è tornato a casa, mette l’amante in una botte, che il marito ha venduta; ella dice che ha venduto la botte ad uno che è dentro di essa per controllare se è intera. Costui, saltatone fuori, la fa pulire dal marito e poi se la porta a casa sua.

La novella di Emilia fu ascoltata da tutti con grandi risate.
Quando fu terminata, il re comandò a Filostrato di continuare.
E il giovane incominciò col dire che erano tanti gli inganni che gli uomini e soprattutto i mariti facevano alle donne, che, quando capitava che una donna ingannava il marito, non solo dovevano essere contente di udirlo da qualcuno, ma esse stesse dovevano dirlo dappertutto, affinché gli uomini sapessero ciò che già sapevano e anche le donne sapevano. Indubbiamente gli uomini, sapendo che anche le donne potevano ingannarli, sarebbero potuti diventare più cauti.
Dunque, egli voleva raccontare cosa fece al marito una giovinetta di umile condizione, con grande rapidità, per salvarsi.
Viveva a Napoli un pover’uomo, che aveva sposato una bella e gentile giovinetta, chiamata Peronella.
Egli era muratore ed ella filava, guadagnando molto poco, vivevano come meglio potevano.
Un giorno un giovane perditempo vide Peronella e si innamorò di lei; tanto la corteggiò che ella cedette.
Per poter stare insieme si accordarono che, quando il marito al mattino presto fosse uscito per andare a lavorare o a cercar lavoro, il giovane, dopo averlo visto uscire, si recasse a casa della donna, in contrada Avorio, molto solitaria. E così fecero per molte volte.
Un giorno il buon uomo era uscito e Giannello Scrignario, così si chiamava il giovane, era entrato in casa e si intratteneva con Peronella.
Imprevedibilmente il marito, che di solito rimaneva fuori tutto il giorno, ritornò a casa e, trovata la porta chiusa, bussò ripetutamente. Dopo aver bussato, si rallegrò tra sé e sé, perché ,benché Dio l’avesse fatto povero, gli aveva dato una moglie tanto onesta che, quando egli usciva, si chiudeva in casa per impedire che potesse entrare qualcuno per darle noia.
Peronella, riconosciuto il marito che bussava, morta di paura, temendo che l’uomo avesse scoperto la tresca, chiese a Giannello di entrare in una botte che era lì.
Il giovane entrò nella botte, mentre la donna andò ad aprire.
Peronella, aperta la porta, accolse in malo modo il marito, rimproverandolo perché era ritornato troppo presto a casa e non aveva voglia di lavorare. Si chiedeva come avrebbero fatto a vivere se non lavorava, si sarebbe forse dovuta impegnare i vestiti e avrebbe dovuto filare tutta la notte. Così poteva avere almeno tanto olio per far ardere la lucerna, mentre il marito se ne tornava a casa con le mani penzolanti, invece di stare a lavorare.
Così detto ,cominciò a piangere e a ripetere che era proprio una sventurata. Infatti le altre donne si davano alla pazza gioia con gli amanti e non ce n’era nessuna che non ne avesse almeno due o anche tre.
Ella ,invece, misera, non era adatta a quelle cose, non si prendeva amanti, anche se aveva avuto molte proposte, con ricche offerte di denari e di gioielli. Non era figlia di una donna di tal genere, ma il marito non sapeva apprezzarla e se ne tornava a casa, quando doveva essere a lavorare.
Il marito le rispose che non si doveva preoccupare, perché era andato a lavorare, ma non sapeva che era il giorno di santo Galeone e non si lavorava, perciò era tornato a casa a quell’ora. Ma aveva trovato il modo di avere il pane per più di un mese. Infatti aveva venduto all’amico che era con lui la botte che ingombrava tutta  la casa, al prezzo di cinque monete.
Allora Peronella rispose che anche quel fatto l’addolorava perché, mentre il marito, dopo aver girato tutt’intorno, aveva venduto la botte per cinque monete, ella ,che non usciva mai dalla porta, vedendo l’impiccio che la botte dava in casa, l’aveva venduta, per sette monete ad un buon uomo.
Mentre il marito ritornava, l’uomo vi era entrato dentro per vedere se era tutta intera.
Quando il marito udì come erano andate le cose, ben lieto licenziò l’uomo che era  con lui, che se ne andò, augurandogli una buona sorte.
Peronella chiamò vicino a sé il marito e lo incaricò, visto che era lì, di concludere le trattative.
Giannello che stava con le orecchie tese per capire che cosa doveva fare, udite le parole della donna, rapidamente uscì dalla botte e, come se non si fosse accorto del ritorno del marito, la chiamò.
Si presentò, allora, il marito che lo invitò a trattare con lui l’acquisto.
Giannello disse che la botte gli pareva solida, ma sembrava che ci avessero tenuto dentro della vinaccia, che si era indurita.
Peronella prontamente rispose che l’affare non sarebbe andato a vuoto perché il marito l’avrebbe pulita tutta per bene. L’uomo fu d’accordo e, presi i suoi ferri, toltosi il camicione, acceso un lume e preso un raschietto, entrato nella botte, cominciò a raschiare.
Peronella per vedere ciò che faceva mise il capo nella bocca della botte, che non era molto grande e, poggiando la spalla sul braccio della botte, diceva al marito dove raschiare per pulirla al meglio.
Mentre stava così e guidava il marito, Giannello, che quella mattina non aveva soddisfatto i suoi desideri, per l’arrivo dell’uomo, si diede da fare come meglio poteva. Si avvicinò a lei che teneva la testa infilata nella bocca della botte e, come i cavalli sfrenati e caldi d’amore assalivano le cavalle della Partia, assalì la donna e soddisfece il suo desiderio giovanile. L’orgasmo raggiunse il culmine proprio quando la botte fu pulita completamente. Peronella tirò fuori la testa dalla botte e il marito ne uscì .
La donna, rivolta a Giannello, gli disse di controllare con il lume se la botte era pulita a suo gusto.
Il giovane, guardandovi dentro, disse che stava bene ed era contento; gli dette le sette monete e si fece portare a casa la botte.

giovedì 1 gennaio 2015

SETTIMA GIORNATA - NOVELLA N.1

SETTIMA GIORNATA – NOVELLA N. 1

Gianni Lotteringhi ode di notte bussare alla sua porta; sveglia la moglie, ed ella gli fa credere che è la “fantasima”, fanno incantesimi con frasi magiche e il picchiare si ferma.

Emilia ,rivolgendosi al re, disse che avrebbe preferito che un’altra persona avesse incominciato a raccontare per prima su una tematica così piacevole, ma volentieri avrebbe dato inizio al racconto per obbedirgli.
Ella voleva dire qualcosa che potesse essere utile alle sue compagne per l’avvenire.
Infatti ,ascoltando bene la sua novella, avrebbero potuto imparare una santa e buona preghiera che poteva loro servire per cacciar via , se fosse venuta, la fantasima ( la quale solo Dio sapeva che cosa fosse, perché né lei, né nessun’altra donna lo sapeva, ma tutte ne avevano ugualmente paura).
Visse in Firenze, nella contrada di San Pancrazio, uno  stamaiuolo, addetto alla lavorazione della lana, chiamato Gianni Lotteringhi, uomo molto più esperto nell’arte sua che saggio nelle altre cose, per le quali era un bonaccione.
Fu fatto capitano della confraternita di coloro che si riunivano per cantare le laudi sacre di Santa Maria Novella. Doveva controllare la confraternita e faceva altri servizietti, di cui molto si vantava, perciò avveniva che spesso, come uomo benestante, facesse doni ai frati. Essi , poiché ricevevano da lui o calze o qualche mantello o qualche scapolare, gli insegnavano delle preghiere: il Paternostro in volgare, la canzone di Santo Alessio, il lamento di San Bernardo, la lauda di donna Matelda e tante altre sciocchezze, che egli teneva molto care e conservava molto diligentemente per la salvezza della sua anima.
Gianni aveva per moglie una bellissima donna, di nome Tessa, figlia di Mannuccio dalla Cuculia, molto saggia e prudente, che, conoscendo la dabbenaggine del marito, era innamorata di Federigo di Neri Pegolotti, un giovane bello e forte.
La donna mandò la sua domestica dal giovane con un messaggio, invitandolo ad incontrarsi con lei in un luogo molto bello che il marito possedeva a Camerata, dove ella si tratteneva tutta l’estate.
Gianni qualche volta vi andava a cenare e a dormire e la mattina se ne tornava al suo lavoro e alla confraternita.
Federigo, che non desiderava altro, nel giorno prefissato, al vespro,si recò lassù e ,non essendo andato quella sera Gianni, cenò e dormì con la donna. Le insegnò ben sei delle laudi che cantava suo marito, mentre durante la notte la teneva in braccio. Non volendo entrambi che quella fosse la prima e l’ultima notte trascorsa insieme, escogitarono uno stratagemma ,per evitare che ogni volta la serva dovesse andare da lui.
Stabilirono che ogni giorno Federigo, andando in un luogo un po’ più in su, doveva guardare la vigna che era accanto alla casa di lei. Lì avrebbe trovato un teschio d’asino sopra un palo del vigneto; se il teschio avesse avuto il viso rivolto verso Firenze, sicuramente, la notte poteva andare da lei. Se avesse trovato l’uscio chiuso, doveva bussare tre volte ed ella avrebbe aperto. Concordarono, ancora, che se il muso del teschio fosse stato rivolto verso Fiesole, non doveva andare, perché Gianni era a casa.
In quel modo si incontrarono spesso.
Una volta, dovendo Federico cenare insieme a madonna Tessa, ella aveva fatto cucinare due grossi capponi. Purtroppo Gianni, che non doveva esserci, a tarda ora, arrivò a casa. La donna si addolorò molto e marito e moglie cenarono, mangiando un po’ di carne salata lessa.
Dalla domestica fece portare, in una tovaglia bianca, i due capponi e un fiasco di buon vino in un angolo del giardino, che si poteva raggiungere senza passare per la casa, dove era solita cenare ,qualche volta, con Federigo. Le disse di porre tutte quelle cose ai piedi di un pesco, che si trovava al lato di un praticello.
Era così rammaricata che si dimenticò di dire alla fantesca di aspettare Federigo e di avvisarlo che Gianni era in casa e che egli poteva prendere tutto ciò che era nell’orto.
Andarono a dormire la donna, Gianni e la fantesca.
Non molto dopo, Federigo, ignaro, giunse e bussò dolcemente alla porta vicina alla camera.
Gianni sentì bussare e anche la donna, che fece finta di dormire, perché il marito non potesse sospettare di lei.
Dopo un po’ di tempo, Federigo bussò per la seconda volta, al che Gianni chiese alla moglie “ Tessa, odi anche tu, che qualcuno bussa alla porta?”.
 La donna ,che aveva udito meglio di lui, finse di essersi appena svegliata e di non aver ben capito. Il marito le ripeté la domanda. Al che la donna rispose “Qualcuno bussa? Oimé, Gianni mio, tu non sai chi è? E’ la fantasima  della quale io durante queste notti ho avuto una terribile paura, tale che, quando l’ho sentita, ho messo il capo sotto il cuscino e non ho più avuto il coraggio di tirarlo fuori ,finché non si è fatto giorno”.
Gianni ,allora, disse di non aver paura perché egli, prima di andare a letto, aveva detto tante buone orazioni ed aveva segnato il letto con il segno della croce. Non doveva, quindi, temere perché la fantasima non poteva nuocere.
La donna, affinché Federigo non sospettasse alcun che e si guastasse con lei, decise di alzarsi e di fargli sapere che Gianni era lì. Disse, quindi, al marito che si sarebbe sentita salva e sicura solo se avessero fatto un incantesimo. Aggiunse che ella sapeva fare un incantesimo, di grande potere, che le aveva insegnato, alcuni giorni prima, quando si era recata a Fiesole per l’indulgenza, una eremita.
L’eremita le aveva detto che l’orazione insegnatale era santa e buona ,l’aveva provata più volte e le aveva sempre giovato.
La donna aggiunse che, per paura, non l’aveva mai provata, ma, ora che c’era il marito, potevano mettere in atto l’incantesimo.
A Gianni l’idea piacque molto, e alzatisi, entrambi andarono piano piano verso la porta, fuori dalla quale stava Federigo in attesa.
La donna disse a Gianni “Ora sputerai, quando te lo dirò io”, poi cominciò l’orazione e disse “Fantasima, fantasima che te ne vai in giro di notte, a coda dritta arrivasti e a coda dritta te ne andrai: va nell’orto dove, ai piedi dell’albero di pesco, troverai un buon bollito grasso e cento escrementi della mia gallina; beviti un fiasco di vino e vattene via; non far del male né a me ,né a Gianni mio”. Così detto ,ordinò al marito di sputare ed egli sputò.
Federigo ,che era fuori ed udiva tutto, superata la gelosia, provò una gran voglia di ridere e scoppiava dal ridere tra sé e sé.
La donna, ripetuta tre volte l’orazione per incantare la fantasima, se ne tornò a letto con il marito.
Federigo, che aspettava di cenare con lei, avendo ben comprese le parole, andò all’orto e trovò ai piedi del pesco i due capponi, il vino e le uova. Si portò tutto a casa dove cenò comodamente.
Poi, incontratosi altre volte con la donna, si sbellicò dalle risate , ricordando l’incantesimo.
Alcuni dissero che la donna aveva sistemato bene il teschio dell’asino verso Fiesole, ma un contadino, passando per il vigneto, l’aveva girato intorno ed era rimasto rivolto verso Firenze. Per questo Federigo era andato credendo di essere stato chiamato. La donna aveva detto “ Fantasima, Fantasima, va con Dio, perché la testa dell’asino non la girai io ma un altro, che sia dannato. Io sono qui con Gianni mio”. L’amante, andandosene, era rimasto senza cena e senza alloggio.
Emilia aggiunse che una sua vicina, donna molto vecchia, diceva che erano vere tutte e due le storie, che aveva sentito quando era fanciulla. Ma l’ultimo incantesimo non era accaduto a Gianni Lotteringhi , ma a uno che si chiamava Gianni di Lello, che abitava in Porta San Pietro, uno stupidone come Gianni Lotteringhi.
Emilia concluse che le donne presenti potevano scegliere l’orazione che piaceva loro di più, oppure entrambe. Potevano loro giovare, perciò era opportuno conservarsele