giovedì 30 ottobre 2014

SESTA GIORNATA - NOVELLA N.4

SESTA GIORNATA – NOVELLA N. 4

Cichibio, cuoco di Corrado Gianfigliazzi, con un’arguta risposta in sua discolpa, trasforma in riso l’ira di Corrado e scampa sé stesso dalle minacce di Corrado.

Finito il racconto di Lauretta, piacevolmente commentato, la regina diede ordine di continuare a Neifile.
La giovane cominciò dicendo che, sebbene l’ingegno pronto offriva parole belle e utili a chi parlava, la fortuna, alcune volte aiutava i paurosi, offrendo loro sulla lingua parole che chi parlava non avrebbe mai potuto trovare in situazioni tranquille, come voleva, appunto, dimostrare con la sua novella.     
Corrado Gianfigliazzi, come tutte loro avevano udito e veduto, era stato in Firenze un cittadino importante che si era dilettato di fare vita cavalleresca, andando continuamente a caccia con i suoi cani.
Egli con un suo falcone aveva ammazzato una gru , presso Peretola. Vedendo che era bella grassa e giovane, la mandò al suo cuoco veneziano, chiamato Chichibio, dicendogli che la arrostisse ben bene per la cena.
Chichibio, che sembrava un sempliciotto, preparò la gru, la mise sul fuoco e, prontamente, la cominciò a cuocere. Quando la gru era quasi cotta e mandava un ottimo profumo, una donnetta della zona, di nome Brunetta, di cui Chichibio era molto innamorato, entrò in cucina e, sentendo l’odore della gru e vedendola, pregò insistentemente Chichibio di dargliene una coscia.
Chichibio rispose ,in veneziano, che non l’avrebbe mai avuta da lui.
Brunetta ,offesa, ribatte che se non gliel’avesse data, non avrebbe avuto più niente che gli piacesse da lei.
Alla fine il giovane, per non rattristare la sua donna, staccata una delle cosce della gru, gliela diede.
Servì, poi, a cena a Corrado e ad un suo ospite la gru senza una coscia.
Corrado, meravigliatosi di ciò, gli domandò dove fosse finita l’altra coscia della gru.
Il veneziano bugiardo ,prontamente, rispose che le gru avevano una sola coscia e una sola gamba.
Corrado, turbato, rispose che non era possibile e che non era la prima volta che vedeva una gru.
Chichibio insistette e aggiunse che ,se il gentiluomo avesse voluto, glielo avrebbe fatto vedere dal vivo.
Corrado, per amore dei suoi ospiti, non volle continuare a discutere. Disse, comunque, che quella mattina stessa voleva andare a verificare se quello che il cuoco diceva  e che egli non aveva mai visto né sentito era vero. Giurava , sul corpo di Cristo, che se Chichibio aveva detto una menzogna lo avrebbe fatto conciare in tal maniera che ,finché fosse rimasto in vita, non avrebbe più dimenticato il nome di Corrado.
La mattina dopo, sul far del giorno, Corrado, la cui ira non era ancora svanita per il sonno, si alzò e comandò che fossero portati i cavalli.
Fatto montare Chichibio su un ronzino, lo condusse verso il fiume, sulla cui riva ogni giorno all’alba si vedevano le gru. Precisò che avrebbero presto visto chi aveva mentito la sera precedente se Chichibio o egli stesso.
Chichibio, vedendo che l’ira di Corrado ancora durava e che doveva dar prova di aver detto la verità, non sapendo come fare, cavalcava dietro al padrone, pieno di paura. Se avesse potuto, sarebbe fuggito, ma non potendo, guardava ora avanti, ora indietro, sicuro di vedere tutte le gru poggiate su due piedi.
Ma, giunti vicino al fiume, vide sulla riva ben dodici gru, le quali erano tutte ritte su un solo piede, come erano solite fare quando dormivano. Immediatamente le mostrò a Corrado dicendogli “ Messere, potete ben vedere come ieri sera io dissi la verità, che le gru hanno una sola coscia e un sol piede, come vedete guardando quelle che stanno là”.
Corrado gli disse di aspettare, perché gli avrebbe dimostrato che di gambe ,le gru, ne avevano due. E, fattosi più vicino a loro, gridò “Ho, ho”.
A quel grido le gru, mandato giù l’altro piede, cominciarono a fuggire..
Allora Corrado rivolto a Chichibio gli disse che era un imbroglione e doveva ammettere che le gru di gambe ne avevano due.
Chchibio, sbalordito, non sapendo egli stesso da dove gli venisse la risposta, replicò “Messere, è vero, ma voi ieri sera non gridaste “Ho, ho” ; che se aveste gridato come adesso, la gru ,sicuramente, avrebbe mandato fuori l’altra coscia e l’altro piede, come hanno fatto queste”.
 A Corrado quella risposta piacque tanto che trasformò in allegria e in riso tutta la rabbia e rispose, che Cichibio aveva proprio ragione, così avrebbe dovuto gridare la sera prima.
Così, dunque, la pronta e divertente risposta evitò a Chichibio la cattiva sorte e lo rappacificò con il suo padrone.







giovedì 23 ottobre 2014

SESTA GIORNATA - NOVELLA N.3

SESTA GIORNATA – NOVELLA N.3

Madonna Nonna dei Pulci con una risposta adatta impone silenzio al motto scortese del vescovo di Firenze.

Quando Pampinea finì di raccontare la novella, tutti apprezzarono la risposta di Cisti.
La regina invitò Lauretta a continuare ed ella iniziò dicendo che avevano detto il vero Pampinea e Filomena, quando parlavano della bellezza dei motti. La loro natura doveva essere tale da mordere l’uditore come mordeva una pecora, non come mordeva un cane: perché se il motto avesse morso come un cane non sarebbe stato un motto, ma una villania. Così fecero le parole di madonna Oretta e la risposta di Cisti.
In verità, se chi rispondeva mordeva come un cane, voleva dire che prima era stato morso come da un cane. Perciò bisognava guardare come, quando, con chi e dove si motteggiava.
A tale proposito voleva raccontare come, prestando a queste cose poca attenzione, un loro prelato aveva ricevuto un morso non inferiore a quello che aveva dato.
Mentre era vescovo di Firenze Antonio d’Orso, valoroso e saggio prelato, venne a Firenze un gentiluomo catalano, chiamato messer Diego della Ratta, ufficiale di re Roberto d’Aragona, bellissimo di corpo e gran conquistatore di donne. Tra le donne fiorentine gliene piacque una, che era assai bella ed era la nipote del fratello del vescovo. Avendo sentito che il marito di lei era avarissimo e cattivo, sebbene fosse di buona famiglia, concordò con lui che gli avrebbe dato 500 fiorini d’oro, se l’avesse lasciato giacere una notte con la moglie.
Poi, fatte dorare delle monete di poco valore gliele diede, dopo aver giaciuto con la donna, sebbene contro la volontà di lei.
Saputasi la cosa, al marito malvagio rimasero il danno e le beffe.
Il vescovo, saggiamente, finse di non aver sentito niente.
Essendo divenuti molto amici, il vescovo e l’ufficiale, il giorno di San Giovanni, mentre cavalcavano uno accanto all’altro, videro, nella strada dove si correva il palio, delle donne. Tra esse vi era una giovane, che la pestilenza successivamente ,ormai anziana, aveva ucciso, che si chiamava madonna Nonna dei Pulci, fresca, bella e di grande spirito. Il vescovo che, poco tempo prima, aveva celebrato le sue nozze in Porta San Pietro, la mostrò all’ufficiale. Poi le si avvicinò e le chiese “Nonna, che ti sembra di costui? Crederesti che egli ti possa vincere?”.
 A madonna Nonna sembrò che quelle parole offendessero la sua onestà alla presenza di tante persone che l’avevano udito. Perciò, volendo ricambiare colpo su colpo, rispose prontamente “ Messere, forse egli non vincerebbe me, ma vorrei essere pagata con una moneta vera, non falsa”.
Udite queste parole, il capitano e il vescovo, ugualmente colpiti, l’uno perché aveva ingannato la nipote del vescovo, l’altro perché aveva finto di ignorare l’offesa fatta alla nipote del proprio fratello, senza guardarsi, vergognosi e in silenzio, se ne andarono, senza dirle più niente.
Così, dunque, la giovane, essendo stata morsa, non evitò di mordere gli altri, rispondendo con un motto.





giovedì 16 ottobre 2014

SESTA GIORNATA - NOVELLA N.2

Cisti fornaio con una sola parola fa ravvedere messer Geri Spina di una sua frase azzardata.

La frase pronunciata da madonna Oretta fu molto lodata sia dalle donne che dagli uomini.
Subito dopo la regina ordinò a Pampinea di proseguire; ed ella incominciò dicendo che non sapeva bene se sbagliava più la natura, mettendo un’anima nobile in un corpo vile, o la fortuna, dando un lavoro umile ad un uomo dotato di anima nobile.
Come era, appunto ,accaduto con Cisti, cittadino di Firenze, e con molti altri uomini ancora.
La fortuna fece fornaio Cisti, fornito di altissimo ingegno.
Pampinea aggiunse che certamente avrebbe maledetto sia la natura che la fortuna, se non avesse saputo che la natura era attentissima e la fortuna aveva mille occhi, anche se gli sciocchi la raffiguravano cieca.
Entrambe facevano come spesso facevano i mortali che, incerti del futuro, nascondevano le loro cose più care nei luoghi più sporchi e abbandonati delle loro case. Di lì ,poi, le traevano quando ne avevano bisogno, avendole conservate, in quei luoghi abbandonati ,meglio che in una bella camera. Così la natura e la fortuna, che reggevano il mondo, spesso nascondevano le loro cose più care all’ombra dei mestieri ritenuti più umili, in modo che, portate alla luce in caso di necessità, apparisse più chiaro il loro splendore. Come avvenne con Cisti fornaio che con una piccola frase fece rifletter messer Geri Spina.
A dimostrazione di ciò avrebbe raccontato una novella molto breve, che le era ritornata alla mente, parlando di madonna Oretta, che era la moglie di Geri Spina.
Durante il pontificato di papa Bonifacio VIII, dal quale Geri Spina era molto stimato, il papa mandò a Firenze alcuni suoi nobili ambasciatori per concludere degli affari.
Durate la loro permanenza in casa di messer Geri, quasi ogni mattina, trattando i loro affari, tutti insieme passavano davanti alla chiesa di Santa Maria Ughi, dove Cisti fornaio aveva il suo forno ed esercitava personalmente la sua arte. Egli la esercitava così bene che, sebbene la fortuna gli avesse dato un’arte così umile, pure era diventato ricchissimo e, non volendola abbandonare per nessun’altra, viveva splendidamente, avendo anche i migliori vini che si potevano trovare in Firenze e nel contado.
Cisti, vedendo passare ogni mattina davanti alla sua porta messer Geri e gli ambasciatori del papa, poiché faceva molto caldo, pensò che sarebbe stata cosa molto cortese dar loro da bere un buon bicchiere del suo vino bianco.
Considerata la sua condizione e quella di messere Geri, non osò invitarlo ma pensò di fare in modo che il  gentiluomo si invitasse da sé stesso.
Egli, avendo sempre indosso un gilè bianchissimo e un grembiule sempre fresco di bucato, che lo facevano sembrare più un mugnaio che un fornaio, ogni mattina, più o meno all’ora in cui erano soliti passare messer Geri e gli ambasciatori, si poneva davanti alla sua porta.
Si faceva portare lì una secchia nuova, piena di acqua fresca e una piccola brocca, fatta a Bologna, piena di buon vino bianco, con due bicchieri che parevano d’argento, tanto erano lucidi. Postosi a sedere, quando essi passavano, dopo aver sputato un paio di volte, cominciava a bere il suo vino, con tanto gusto che ne avrebbe fatta venir voglia anche ai morti.
Messer Geri, vista questa scena per due mattine, alla terza chiese al fornaio che cos’era ciò che stava bevendo e se era buono. Cisti ,alzatosi immediatamente, offrì al signore il vino, perché lo assaggiasse.
Messer Geri, che aveva una gran sete , per la calura e per il desiderio di saggiare il vino che Cisti beveva con tanto gusto, rivolgendosi agli ambasciatori, propose loro di saggiare insieme con lui il vino affertogli e si diresse verso Cisti.
Il fornaio, fatta portare una bella panca, li pregò di sedere. Poi, ai loro servitori, che già si facevano avanti per lavare i bicchieri, disse di allontanarsi ,perché avrebbe servito personalmente il vino, e di non permettersi di assaggiarne nemmeno una goccia.
Così detto, egli stesso, lavati quattro bicchieri, si fece portare una piccola brocca di buon vino e lo versò da bere a messer Geri e ai compagni.
A tutta la compagnia il vino sembrò il migliore di quello che avevano bevuto da lungo tempo e, finché gli ambasciatori si trattennero ,ogni mattina messer Geri, insieme a loro, andò a berlo.
Dovendo costoro partire, dopo aver concluso i loro affari, Messer Geri fece un magnifico banchetto, invitò tutti i cittadini più onorevoli di Firenze e anche Cisti, che assolutamente non volle andarvi.
 Messer Geri ordinò, allora, ad un suo servo di andare da Cisti con un fiasco, per farsi dare un po’ di vino , per darne, prima del pranzo, mezzo bicchiere ad ogni uomo. I servitore, forse sdegnato perché nei giorni precedenti
non aveva potuto saggiare il vino, prese un fiasco molto grande.
Appena Cisti lo vide, subito disse che non era messer Geri che lo mandava, perché quel fiasco doveva andarlo a riempire in Arno.
Quando il servitore riferì la risposta al suo padrone, egli volle vedere il fiasco che quello stupido servo aveva portato da riempire al fornaio.
Comprese che Cisti aveva ragione e, rimproverato il servo, gli fece portare un fiasco più piccolo.
Cisti, vedendolo, questa volta, credendo che veramente l’aveva mandato messer Geri, lietamente glielo riempì.
Poi, nello stesso giorno, fece riempire una piccola botte del suo vino, lo fece portare a casa del nobiluomo, accompagnando egli stesso il servitore.
Trovato Messer Geri,gli disse che non era stato spaventato dal gran fiasco che aveva mandato quella mattina. Ma, come aveva dimostrato ogni mattina, servendo il vino in piccole brocche, aveva temuto che messer Geri  avesse dimenticato che quello non era vino per la servitù e glielo aveva voluto ricordare.
La botte ,che aveva fatto portare ,era un dono tutto per lui e ne poteva fare quel che voleva.
Messer Geri gradì moltissimo il dono e lo tenne in gran conto. Ringraziò Cisti e, da quel momento ,lo stimò suo amico.




giovedì 9 ottobre 2014

SESTA GIORNATA - NOVELLA N.1

SESTA GIORNATA – NOVELLA N. 1

Un cavaliere dice a madonna Oretta di portarla a cavallo raccontandole una novella: e, dicendola disordinatamente, è da lei pregato di farla andare a piedi.

Filomena cominciò a raccontare dicendo che come le stelle erano l’ornamento del cielo sereno e in primavera i fiori ornavano i prati verdi e gli alberelli i colli, così i motti erano ornamenti dei bei ragionamenti. Essi, siccome erano brevi, erano più adatti alle donne che agli uomini, perché alle donne più che agli uomini non si addiceva parlare molto.
A quel tempo , in verità, non sapeva bene la ragione, o per malvagità dell’ingegno femminile o per volontà del cielo, erano rimaste ben poche donne che, al momento opportuno, sapessero dirne alcuno o comprenderlo, se era detto da un altro, il che era una vergogna per tutte le donne.
Ma ella, per far comprendere la bellezza dei motti, detti a tempo debito, avrebbe raccontato come una gentildonna con una frase garbata aveva fatto tacere un cavaliere.
Come tutte sapevano, viveva in quel tempo a Firenze una donna gentile, garbata e che sapeva parlar bene.
Si chiamava madonna Oretta ed era la moglie di Geri Spina.
Ella, per caso, se ne andava a spasso per la campagna, come stavano facendo loro, insieme con donne e cavalieri, che il giorno aveva avuto come ospiti a pranzo. Essendo ancora lungo il percorso per raggiungere il luogo dove avevano deciso di andare, uno dei cavalieri della brigata disse “ Madonna Oretta, quando lo vogliate, vi porterò, per gran parte della strada, a cavallo, raccontandovi una delle più belle fiabe del mondo”.
La donna accettò ben volentieri.
Il cavaliere, che non era per niente un buon cavaliere, padrone della lingua, cominciò una novella, la quale, di per sé, era bellissima. Ma egli, ripetendo tre, quattro, cinque volte la stessa parola, ritornando indietro, spesso sbagliando i nomi, mettendone uno al posto dell’altro, guastava enormemente il racconto, senza tener conto delle persone cui raccontava.
Madonna Oretta, udendolo, fu presa da un sudore e da uno sfinimento, come se stesse per morire.
Non potendo più resistere, accortasi che il cavaliere era entrato in confusione e non sapeva più uscirne, allegramente disse “ Signore, questo vostro cavallo ha un trotto troppo duro, perciò vi prego di farmi andare a piedi”.
Il cavaliere che, per fortuna, era miglior intenditore che narratore, compreso il motto e scherzando, cominciò a raccontare altre novelle, senza finire quella che aveva iniziato e mal narrato.





CONCLUSIONE QUINTA GIORNATA -INTRODUZIONE SESTA GIORNATA

QUINTA GIORNATA – CONCLUSIONE


Finita la novella di Dioneo, le donne risero poco ,per vergogna, anche se la storia era piaciuta.
La regina, visto che il racconto era finito, si tolse la corona d’alloro e la pose sul capo di Elissa, alla quale toccava di comandare.
Elissa, ricevuto l’incarico, fece come coloro che l’avevano preceduta.
Diede ordine al siniscalco di predisporre ciò che serviva per il periodo della sua signoria, con soddisfazione della brigata.
Comunicò ,poi, che il giorno seguente si sarebbe trattato di chi, provocato da una battuta, si era difeso con una pronta risposta, evitando un danno o un pericolo o uno scorno.
Dopo vari commenti dei presenti, la regina, alzatasi, licenziò tutti fino all’ora di cena.
Dopo che le cicale smisero di cantare, richiamati, andarono tutti a cena.
Per volere della regina, Emilia già aveva cominciato a danzare, mentre  Dioneo ebbe l’ordine di cantare una canzone. Egli comincio “Monna Aldruda ,levate la coda, ché buone novelle vi reco”.
Tutte le donne cominciarono a ridere, soprattutto la regina che ordinò di lasciare quella e di dirne un’altra.
 E Dioneo ne propose molte altre che non furono gradite alle donne, finché la regina gli intimò di smettere di scherzare e di dirne una bella, altrimenti si sarebbe adirata.
Il giovane, allora ,lasciate stare le sciocchezze, cominciò a cantare che egli era schiavo d’amore e degli occhi belli della sua donna. La fiamma d’amore, passando dagli occhi di lei ai suoi, lo aveva reso seguace e servo d’Amore. Ormai egli si consumava d’amore e si disfaceva a poco a poco. Perciò chiedeva ad Amore di intercedere con lei in suo favore.
Dioneo, finita la canzone, tacque.
Dopo diversi commenti, essendo ormai notte inoltrata, la regina, sentendo che il caldo del giorno era vinto dalla freschezza della notte, comandò a tutti di andare a riposare fino al giorno seguente.























































Finisce qui la Quinta Giornata del Decameron: incomincia la Sesta, nella quale, mentre è regina Elissa, si ragiona di chi, provocato da un leggiadro motto, si sia difeso e con una pronta risposta o considerazione abbia evitato un danno o un pericolo o uno scorno.


























SESTA GIORNATA . INTRODUZIONE

Era quasi giorno, la luna aveva perduto la sua luce, mentre il cielo si schiariva da ogni parte, quando la regina, alzatasi, fece chiamare tutta la compagnia.
Poi, tutti insieme, camminando lentamente sull’erba bagnata dalla rugiada, si allontanarono un po’ dal palazzo, discutendo della bellezza delle novelle raccontate.
Frattanto il sole si era alzato e l’aria si cominciava a riscaldare, perciò a tutti parve opportuno ritornare verso casa, dove erano già state apparecchiate le tavole per ordine della regina ,e tutti si misero a mangiare.
Dopo aver pranzato ed aver cantato delle belle canzonette, alcuni se ne andarono a dormire, altri a giocare a scacchi o a tavole. Dioneo insieme a Lauretta cominciò a cantare.
Giunta l’ora di riunirsi, al richiamo della regina, tutti, come erano soliti fare, si sedettero intorno alla fonte.
Mentre la regina stava per ordinare l’inizio della prima novella, avvenne una cosa che non era mai avvenuta prima. Si udì un gran rumore, provocato dai servitori e dai familiari in cucina.
Il siniscalco, interrogato, rispose che il rumore era provocato da Licisca e da Tindaro, ma non ne conosceva il motivo.La regina, fatti chiamare i due, cominciò ad interrogarli.
Mentre Tindaro si accingeva a rispondere, la Licisca, che era anzianotta e piuttosto superba e riscaldata, voltandosi verso di lui, con viso adirato, intimò a quella bestia di uomo di non permettersi di parlare prima di lei e di lasciarle la parola.
Disse, rivolta alla regina, che Tindaro voleva farle conoscere la moglie di Sicofante, come se ella non la conoscesse bene. Aggiunse che Tindaro le voleva far credere che la prima notte in cui Sicofante era giaciuto con la moglie messer Mazza fosse entrato in Monte Nero con la forza e con spargimento di sangue.
Lisisca sosteneva che non era vero, anzi il Mazza entrò pacificamente e con gran piacere di quelli che erano dentro. Era ben stupido Tindaro se credeva che le giovani fossero così sciocche e stessero a perder tempo aspettando che il padre o i fratelli le maritassero. Invece esse si davano da fare molto prima. Sarebbero state fresche se avessero aspettato che il padre o i fratelli le maritassero. Sulla fede di Cristo, poteva giurare che non conosceva fanciulla che non avesse beffato il promesso sposo e anche le maritate ne avevano fatte di tutti i colori ai mariti. E quel pecorone di Tindaro le voleva insegnare come erano fatte le femmine, come se fosse appena nata.
Mentre Lisisca parlava ,le donne si facevano grandi risate, senza riuscire a fermarsi.
La regina, faticosamente, riuscì ad imporre il silenzio ,e ,rivolta a Dioneo, ridendo, gli chiese di dare il suo parere.Dioneo subito rispose che Lisisca aveva ragione e Tindaro era una bestia.
Udendo ciò, Lisisca cominciò a ridere e, rivolgendosi a Tindaro, gli disse che andasse con Dio, stupido che non era altro, egli che, essendo ancora un ragazzino, pensava di saperne più di lei, che, perbacco, non era vissuta invano. E avrebbe continuato ancora a gridare se la regina non le avesse imposto il silenzio, minacciando di frustarla.
Mandati via i due, la regina ordinò a Filomena di dare inizio alle novelle.





giovedì 2 ottobre 2014

comunicato

Cari amici,
siamo giunti a metà del nostro percorso e desidero ringraziarvi per l'interesse e l'attenzione da voi dimostrate verso questo lavoro. La libera interpetrazione del Decameron del Boccaccio è presente integramente su Wikipedia (sez. Cyclopedia) alla voce Decameron.
Il blog "www.decameronapuntate.blogspot.it" ha ricevuto, ad oggi, 2 ottobre 2014, ben 6741 visite da tutto il mondo.
Riporto di seguito i dati più significativi:
Italia                5838 visite
USA                   438
Germania           111
Francia                46
Svizzera               35
India                    23
Argentina            22
Feder.Russa        22
Romania             21
Ucraina               21.
Il blog comincia ad essere usato anche nelle SCUOLE ed è un valido ausilio agli studenti per la comprensione del testo originario.
Grazie ancora e buona lettura.
Luciana De Lisa Coscioni
QUINTA GIORNATA – NOVELLA N.10

Pietro da Vinciolo va a cenare fuori; la sua donna fa venire in casa un giovane, torna Pietro, ella nasconde il giovane sotto una cesta di polli; Pietro racconta che è stato trovato nella casa di Ercolano, dove egli cenava, un giovane, nascosto dalla moglie; La donna biasima la moglie di Ercolano; un asino, per sciagura, mette un piede sulle dita di quello che era sotto la cesta, egli grida, Pietro accorre, lo vede e conosce l’inganno della moglie, con la quale, alla fine rimane in concordia per la sua ribalderia.

Il racconto della regina era finito e tutti avevano lodato Iddio che aveva degnamente compensato Federigo.
Subito  Dioneo, che non aspettava mai l’ordine, incominciò col dire che non sapeva se era per vizio o per crudeltà dei costumi umani o per peccato della natura  il ridere delle cattive cose piuttosto che delle buone opere, soprattutto quando queste non riguardavano direttamente ciascuno.
Egli, con il suo racconto, voleva soltanto allontanare la malinconia e portare riso e allegria, sebbene la materia della novella non era del tutto onesta.
Le donne della brigata, udendola, dovevano raccogliere le rose e lasciar stare le spine, , dovevano lasciar perdere l’uomo ,con la sua disonestà, ridere degli amorosi inganni della sua donna, avendo compassione delle sciagure degli altri.
Viveva in Perugia, non molto tempo prima, un ricco uomo, chiamato Pietro da Vinciolo, il quale ,più per ingannare gli altri e diminuire l’opinione negativa che tutti i perugini avevano di lui, che perché lo desiderasse, prese moglie.
La fortuna gli fece sposare una donna robusta e soda, con i capelli rossi e una carnagione colorita, che di mariti ne avrebbe voluti due, piuttosto che uno; invece il marito aveva rivolto l’attenzione ad un altro uomo, piuttosto che a lei.
Ella si accorse di ciò col passare del tempo, e, vedendosi bella e giovane e sentendosi piena di forze,  ne fu molto turbata  e litigò con il marito, rimproverandogli continuamente la sua vita dissoluta.
In seguito si rese conto che si consumava, ma non correggeva le cattive inclinazioni del marito.
Visto che il marito la abbandonava continuamente per continuare la sua vita disonesta, contro natura, decise di seguire la sua natura di donna. Considerò che lo aveva sposato, portandogli una ricca dote, sapendo che era un uomo e credendolo desideroso di quello che devono desiderare gli uomini, altrimenti non l’avrebbe mai sposato.
Si chiedeva perché , sapendo che era femmina, egli l’aveva presa in moglie se le femmine non gli stavano a cuore. Questo non lo poteva sopportare.
Si ripeteva, ancora, che ,se non voleva vivere nel mondo, si sarebbe fatta monaca, invece voleva vivere nel mondo e non voleva invecchiare aspettando di ricevere piacere dal marito. Non voleva doversi dolere, una volta divenuta vecchia, di aver perduto la sua giovinezza. Inoltre, voleva provare piacere secondo natura, mentre il marito con la sua dissolutezza offendeva le leggi e la natura.
Avendo a lungo meditato, per realizzare le sue intenzioni, la buona donna si confidò con una vecchia, che pareva santa Verdiana che dava da mangiare alle serpi; costei, sempre con un rosario in mano, dava le indulgenze ,non parlava d’altro che della vita dei Santi Padri e delle piaghe di San Francesco ed era ritenuta una santa da tutti.
La vecchia le rispose che Dio ,che conosce tutto,  sapeva che ella faceva molto bene. Non doveva perdere il tempo della sua giovinezza e rammaricarsene poi, dopo averlo perduto, in vecchiaia, quando le donne possono solo guardare le cenere intorno al focolare. La vecchia poteva testimoniare personalmente che provava gran rimorso per aver lasciato andare via il tempo; eppure non era una sciocca e si era data da fare come aveva potuto.E continuò dicendo che mentre gli uomini nascono buoni a fare mille cose, le donne nascono solo per fare l’amore e per fare figli  e per questo sono apprezzate. Si poteva ben vedere, infatti, come una donna poteva stancare molti uomini, mentre molti uomini non potevano stancare una donna.
La giovane faceva, dunque, bene a rendere al marito pan per focaccia, in modo da non doversi rimproverare nulla in vecchiaia. Le donne, a questo mondo, dovevano utilizzare bene il tempo, più che gli uomini, perché quando invecchiavano né il marito, né gli altri le volevano più vedere e le mandavano in cucina a raccontar favole con la gatta e a contare pentole e scodelle., dicendo “ Alle giovani i buoni bocconi e alle vecchie gli stranguglioni”.
Promise ,poi, di aiutarla ad ammorbidire e a recare da lei il giovane che avesse scelto.
Le chiese, infine, di essere partecipe delle sue preghiere e delle indulgenze in modo da farle valere in suffragio.
Le chiese, infine, di essere partecipe delle sue preghiere e delle indulgenze in modo da farle valere in suffragio dei morti di lei ,come lume o candela.
La giovane rimase d’accordo con la vecchia che, se avesse visto un giovinetto che passava spesso da quella strada, lo avrebbe condotto da lei.
Le regalò un pezzo di carne salata e la mandò con Dio.
La vecchia, dopo pochi giorni, di nascosto, le condusse in camera il giovinetto che ella aveva indicato e , dopo poco tempo, un altro, a seconda di come le piacevano, sempre con il massimo riserbo, temendo il marito.
Avvenne che il marito una sera doveva andare a cena da un suo amico, di nome Ercolano.
La giovane, approfittando di ciò, chiese alla vecchia di far andare da lei uno dei giovincelli più belli e gradevoli di Perugia. La vecchia così fece.
Mentre la donna e il giovane si erano messi a tavola per cenare, Pietro chiamò per farsi aprire la porta.
La moglie, sentendo la voce del marito, si ritenne morta.
Immediatamente fece nascondere il giovane sotto una cesta di polli ,che era su un terrazzino vicino alla camera,dove stavano cenando. Gettò sopra la cesta un grosso sacco, che quel giorno stesso aveva fatto vuotare. Ciò fatto, fece aprire al marito e gli chiese spiegazioni riguardo alla mancata cena presso l’amico.
Pietro allora le raccontò che la cena era saltata perché, dopo che si erano messi a tavola ,Ercolano, la moglie ed egli stesso, avevano sentito starnutire una prima ed una seconda volta; ma non vi avevano dato importanza.
Il terzo, il quarto e il quinto starnuto fecero meravigliare tutti, al punto che Ercolano, già sospettoso perché la moglie li aveva fatti aspettare a lungo davanti alla porta senza aprire, le chiese chi era che starnutiva.
Poi, alzatosi da tavola, andò verso una scala che era lì vicino, sotto la quale vi era un ripostiglio chiuso da tavole, dove si poteva riporre qualcosa, come facevano ogni giorno coloro che volevano riordinare la casa.
Sembrandogli che di lì venisse il suono di uno starnuto, aprì la porticina che era davanti.
Come l’ebbe aperta, subito ne uscì il più gran puzzo di zolfo del mondo, puzzo che già avevano sentito prima.
La donna aveva spiegato che, poco prima, aveva pulito i suoi veli con lo zolfo. Poi aveva messo  la teglia sulla quale l’aveva sparso sotto la scala, da cui proveniva l’odore.
Ercolano, dopo che aveva aperto la scala ed era uscito un po’ di puzzo, guardando dentro vide colui che aveva starnutito ed ancora starnutiva, costretto dallo zolfo che aveva respirato e continuava a starnutire ,come nessun altro avrebbe potuto. Ercolano lo vide e gridò contro la moglie che l’aveva ingannato, comprendendo perché ella li aveva tenuti tanto a lungo fuori dalla porta, e minacciò di fargliela pagare.
La donna, udendo le minacce, vedendo che il suo peccato era palese, alzatasi da tavola, fuggì non si sa dove.
Frattanto Ercolano, senza accorgersi che la moglie era fuggita, ordinò più volte a colui che starnutiva di uscire, ma il malcapitato non si poteva muovere.
Ercolano, allora, lo prese per i piedi, lo tirò fuori e corse a cercare un coltello per ucciderlo.
Ma Pietro, temendo le guardie, intervenne impedendo all’amico di ucciderlo e di fargli del male.
Nel mentre sopraggiunsero i vicini che condussero via il giovane.
La cena, turbata da tutti quegli eventi, non era stata, dunque, nemmeno assaggiata
La donna, udendo quelle cose, comprese che vi erano altre donne sagge come ella era e avrebbe volentieri preso le difese della donna di Ercolano con le parole. Invece, per sua tutela, ritenne opportuno inveire contro di lei violentemente, dicendo che sembrava una santarellina, molto spirituale e invece, ormai vecchia, dava un buon esempio alle giovani. Doveva essere una donna perfidissima, vergogna di tutte le donne della terra, che, gettata via la sua onestà e la fede promessa al marito, si era data ad un altro uomo. Proseguì dicendo che non si doveva aver pietà di tali donne, ma si dovevano mandare al rogo da vive e ridurle in cenere.
Poi, ricordatasi del suo amico che era lì vicino nascosto sotto la cesta, pregò Pietro di andare a letto, ché era ormai tempo.
Pietro ,che aveva più voglia di mangiare che di dormire, chiese se c’era qualcosa per cena.
La moglie rispose che c’era da cenare, ma era preferibile per quella sera che egli andasse a dormire.
Nel frattempo erano giunti dalla campagna alcuni lavoratori di Pietro ed avevano messo gli asini, senza dar loro da bere, in una piccola stalla, vicino al terrazzino.
Uno degli asini, per la grandissima sete, era uscito dalla stalla e andava fiutando ogni cosa per cercare l’acqua.
Così andando, si trovò proprio davanti alla cesta sotto la quale era il giovinetto.
Il giovane, poiché stava carponi da molto tempo, stese un po’ le dita d’una mano fuori dalla cesta e, per sua sventura, l’asino vi mise sopra un piede. Egli, sentendo un fortissimo dolore, lanciò un grande urlo.
Pietro, udendo l’urlo, che proveniva da casa sua ,e sentendo ancora urlare perché l’asino non aveva levato il piede dalle dita del giovane ma premeva forte, corse alla cesta. Scopertala, vide il giovinetto, che tremava tutto sia per il dolore delle dita, schiacciate dal piede dell’asino , sia per la paura che l’uomo gli facesse del male.
Pietro riconobbe immediatamente il giovinetto, come il giovane che egli aveva molto corteggiato per il suo vizio. Gli chiese che cosa facesse lì. Il ragazzo non rispose nulla, lo pregò soltanto di non fargli alcun male, per amor di Dio.
L’uomo lo rassicurò e si fece svelare ogni cosa, poi, presolo per mano, lo condusse nella camera ,dove l’aspettava la moglie molto spaventata.
Sedutosi davanti a lei, la rimproverò perché ,poco prima, aveva maledetto la moglie di Ercolano, dicendo che era la vergogna di tutte le donne e che avrebbero dovuto arderla, mentre ella si era macchiata della stessa colpa.
Considerava che le donne erano tutte così fatte che cercavano di coprire i propri errori con le colpe degli altri.
Si augurava, per conto suo, che le donne potessero essere arse, ché erano una pessima razza.
La donna vide che il marito dapprincipio non le aveva fatto altro male che con le parole e le sembrò che egli tutto si gongolava perché teneva per mano un così bel giovanotto. Allora, prese coraggio e disse “ Io sono ben certa che tu vorresti che venisse fuoco dal cielo e ci ardesse tutte, come colui che odia le donne, ma la croce di Dio questo non lo farà mai.. Ma vorrei un po’ ragionare con te per sapere di che cosa ti rammarichi. Starei sicuramente bene se tu mi volessi uguagliare alla moglie di Ercolano, che è una vecchia bacchettona ipocrita che il marito tiene ben cara , come si deve tenere una moglie. Io sono da te ben vestita e ben calzata, ma tu sai bene, come lo so io, da quanto tempo non giacesti con me. Vorrei piuttosto andare in giro vestita di stracci e scalza ma essere ben trattata da te a letto. E intendi bene, Pietro, io sono una donna come le altre e ho voglia di quello che vogliono le altre. Perciò , visto che tu non mi dai ciò che desidero, non puoi giudicarmi male se me lo procaccio altrove; almeno ,io ti faccio onore perché non mi metto né con servi, né con tignosi”.
Pietro comprese che quei discorsi potevano durare tutta la notte, perciò, poco curandosi di lei, le chiese se c’era qualcosa per cena ,perché nessuno aveva ancora cenato quella sera.
La donna rispose che era pronta la cena e che stavano per mettersi a tavola quando era arrivato.
Poi, alzatasi, su richiesta del marito, diede ordine di portare in tavola la cena già preparata e, insieme al marito vizioso e al giovane, lietamente cenò .
Dopo cena il narratore non ricordava che cosa avesse deciso Pietro per accontentare tutti e tre.
Sapeva soltanto che al mattino seguente il giovane giunse in piazza accompagnato dalla moglie e dal marito, non sapendo se la notte era stato più con la moglie o col marito.
Dioneo, infine, consigliò alle donne lì presenti di ricambiare ogni mala azione ricevuta e, se non potevano ricambiarla subito, di attendere il momento opportuno, così che l’asino ricevesse in cambio ogni colpo che dava contro la parete.