giovedì 25 settembre 2014

QUINTA GIORNATA – NOVELLA N.9


Federigo degli Alberighi ama e non è amato, e si rovina spendendo in cortesia, gli rimane solo un falcone, il quale, non avendo altro, dà a mangiare alla sua donna venutagli in casa; la quale, saputo ciò, mutata d’animo, lo prende per marito e lo fa ricco.

Filomena aveva già smesso di parlare, quando la regina, ricordando che Dioneo era l’unico che non aveva ancora narrato la sua novella, disse che toccava a lei narrare. 
Sorridendo, aggiunse che avrebbe raccontato una novella in parte simile a quella precedente.
Invitò, poi, le donne a non lasciarsi guidare sempre dalla fortuna ,che ,spesso, si muove senza discernimento, ma a donare personalmente ai loro innamorati.
Iniziò dicendo che in Firenze viveva forse ancora un tale Coppo di Borghese Domenichi, di grande autorità, per virtù e per costumi, più che per nobiltà di sangue.
Essendo ormai pieno di anni, spesse volte si dilettava a ragionare con i vicini delle cose passate, con un modo molto elegante di esporre.
Era solito raccontare, tra le tante belle cose, che un tempo visse in Firenze un giovane chiamato Federigo, figlio di Filippo Alberighi, conosciuto per l’abilità nelle armi e per la cortesia più di ogni altro giovane in Toscana.
Egli, come avviene per i gentiluomini, si innamorò di una gentildonna, chiamata monna Giovanna, ritenuta tra le più belle donne che ci fossero in quel tempo a Firenze.
Per poter conquistare l’amore di lei giostrava, gareggiava nelle armi, faceva feste e spendeva senza alcun ritegno.
Ma la donna, onesta quanto bella, non si curava per niente di quelle cose, né di colui che le faceva.
 Ben presto Alberigo, spendendo molto e niente acquistando, consumò tutte le sue ricchezze e divenne povero.
Gli rimase soltanto un piccolo poderetto, nel quale poveramente viveva e, altre a questo, un falcone, il migliore del mondo. Ritenendo di non poter più vivere a Firenze come desiderava, se ne andò a vivere a Campi, nel suo poderetto, dove sopportava pazientemente la sua povertà, andando a caccia da solo.
Frattanto avvenne che il marito di monna Giovanna si ammalò e, prima di morire, fece testamento.
Essendo ricchissimo, lasciò suo erede il figlio, già grandicello e, dopo di lui, se il figlio per caso morisse senza erede legittimo, nominò, in sostituzione, erede sua moglie, che aveva molto amato, e morì.
Rimasta, dunque, vedova, monna Giovanna ,com’era usanza delle donne fiorentine, d’estate, se ne andava col figlio in campagna, , in un suo possedimento, vicino al poderetto di Federigo.
Il fanciullo divenne amico di Federigo , avendo la stessa passione per gli uccelli e per i cani.
Avendolo visto molte volte volare, gli cominciò a piacere molto il falcone del gentiluomo.
Il ragazzo desiderava di averlo, ma non osava chiederlo, perché vedeva che era molto caro al suo padrone.
Stando così le cose ,il ragazzo si ammalò.
La madre, che lo amava straordinariamente, standogli vicino, per confortarlo, spesso gli domandava che cosa desiderava. Il giovinetto, infine, le rispose “ Madre mia, se voi farete in modo che io abbia il falcone di Federigo, io credo di poter presto guarire”.
La donna, udendo ciò, rimase pensierosa, ben sapendo quanto l’uomo fosse legato al falcone, che era il migliore del mondo. Ella sapeva anche quanto Federico l’avesse amata, come non l’avesse degnato nemmeno di uno sguardo, lasciando che, per amor suo, si riducesse in miseria, tenendo per sé soltanto quell’uccello, come sua unica gioia.
Infine, fu tanto forte l’amore per il figlio che gli disse che sarebbe andata da Federigo a chiedergli il falcone.
Lo stesso giorno il fanciullo ,lieto, mostrò un miglioramento.
La mattina seguente, in compagnia di un’altra donna, si recò nella modesta casa del giovane.
Lo trovò nell’orto a fare alcuni lavoretti. Egli la salutò, meravigliato.
Monna Giovanna, andandogli incontro, gli disse che, per farsi perdonare dei danni che gli aveva causato per amore, era venuta a pranzare con lui insieme alla compagna.
Federigo, riconfermandole il suo amore e la gioia per la sua presenza, la ricevette nella sua casa e la condusse nel giardino. L’affidò alla compagnia della moglie del fattore, non avendo altri. Si recò, poi, in casa per far mettere la tavola.
La sua povertà non gli era mai pesata, ma , quella mattina, non trovando niente per poter onorare la donna, si mortificò molto. Non aveva denari, né oggetti da impegnare, l’ora era tarda e grande il desiderio di accogliere degnamente la gentildonna. Non volendo chiedere nulla al suo lavorante, gli corse l’occhio al suo falcone che se ne stava appollaiato sul trespolo. Lo prese, lo trovò bello grasso e pensò che era degna vivanda per una tale donna. Senza più pensare, gli tirò il collo, lo fece pelare da una domestica e lo fece arrostire per bene allo spiedo.
Fatta apparecchiare la tavola con una tovaglia bianchissima ,che ancora aveva, ritornò in giardino dalla donna e le disse che il pranzo era pronto.
Le donne, alzatesi, andarono a tavola e, senza sapere che cosa mangiassero, insieme a Federigo, mangiarono il buon falcone.
Alzatisi da tavola, dopo aver conversato un po’ piacevolmente,, monna Lisa, ritenne che fosse venuto il tempo di fare la sua richiesta. Cominciò a parlare dolcemente, ricordando i tempi passati , l’amore che il giovane aveva provato per lei, la sua onestà, ritenuta da Federico durezza e crudeltà.
Infine, per amore del figlio, che se ne era invaghito a tal punto che se non l’avesse avuto ne sarebbe morto, gli chiese in dono il falcone.
Federigo, udendo ciò che la donna domandava e sapendo di non poterla accontentare perché le aveva dato da mangiare il falcone, cominciò a piangere, senza poter rispondere.
La donna credette che il pianto fosse dovuto al dolore del giovane per doversi separare dall’uccello, pure, trattenutasi, aspettò la risposta di Federigo.
Infine , egli rispose che la fortuna gli era stata avversa perché non gli aveva concesso l’amore di lei; pure, tutto era poco rispetto allo scherzo che gli aveva fatto quel giorno, scherzo per il quale non avrebbe potuto più rappacificarsi con la fortuna.
Purtroppo non poteva accontentarla e non poteva donarle il falcone perché , come molte persone usavano, aveva reputato il falcone degno cibo per lei , l’aveva fatto arrostire e glielo aveva servito nel tagliere.
Vedendo che ella lo desiderava in altro modo ,non se ne sarebbe mai dato pace.
Detto questo, a testimonianza di ciò, le fece gettare avanti le penne, i piedi e il becco.
La donna, vedendo e udendo come erano andati i fatti, prima lo biasimò perché ,per dare da mangiare ad una donna, aveva ucciso un così bel falcone, poi apprezzò la grandezza del suo animo, che la povertà non aveva piegato.
Persa la speranza di avere il falcone per la salvezza del figlio, tutta malinconica se ne andò, ritornando dal ragazzo. Il giovinetto, per il dolore di non aver potuto avere il falcone o per la malattia, dopo pochi giorni morì con gran dolore della madre.
Monna Giovanna ,addoloratissima per la morte del figlio, essendo rimasta ricchissima ed essendo ancora giovane, fu costretta dai fratelli a rimaritarsi.
Ella, ricordandosi di Federigo e della sua generosità, rispose ai fratelli che non avrebbe sposato nessun’altro se non Federigo degli Alberighi.
I fratelli si meravigliarono, ben conoscendo la povertà del giovane.
A loro  Giovanna rispose “ Fratelli miei, so bene che egli è povero, ma voglio piuttosto un uomo che abbia bisogno di ricchezza, che ricchezza che abbia bisogno di un uomo”.
I fratelli, udendo ciò, conoscendolo, sebbene fosse povero, gli donarono lei con tutte le sue ricchezze.
Federigo, che aveva avuto in moglie la donna tanto amata e ,oltre a ciò, era divenuto ricchissimo, visse il resto della sua vita come ottimo amministratore delle loro ricchezze.
   






giovedì 18 settembre 2014

QUINTA GIORNATA - NOVELLA N.8

QUINTA GIORNATA – NOVELLA  N.8

Nastagio degli Onesti, amando una donna dei Traversari, spende tutte le sue ricchezze senza essere amato; se ne va, su invito dei suoi, a Chiassi ;qui vede una giovane inseguita e uccisa da un cavaliere, divorata da due cani; invita i suoi parenti e la donna amata a pranzo da lui, la quale vede sbranare la stessa giovane,
e , temendo che ciò possa accadere anche a lei, prende come marito Nastagio.

Come la Lauretta tacque, al comando della regina, Filomena cominciò a raccontare precisando che la divina giustizia si vendicava della crudeltà, come avrebbe dimostrato con la sua novella.
In Ravenna, antichissima città della Romagna, viveva un gentiluomo ,chiamato Nastagio degli Onesti, che, dopo la morte del padre e dello zio, rimase con infinite ricchezze.
Egli, come avveniva per i giovani, non avendo moglie, si innamorò di una figlia di messer Paolo Traversaro, molto più nobile di lui, sperando con le sue opere di spingerla ad amarlo.
Per quante cose belle e degne di lode il giovane potesse fare non riuscì a trarne giovamento, tanto la giovinetta amata gli si mostrava crudele e ostile, forse per la sua bellezza o per la superbia dovuta alla sua nobiltà.
Né Nastagio ,né le cose che faceva le piacevano.
Il gentiluomo soffriva molto per questo e ,più volte,gli venne il desiderio di uccidersi.
Decise molte volte di lasciarla stare, cercò di odiarla come ella odiava lui, senza riuscirvi. Anzi, quanto più perdeva la speranza ,tanto più aumentava il suo amore.
Perseverando il giovane nell’amore e nello spendere smisuratamente, parenti e amici gli consigliarono di andarsene da Ravenna, perché, facendo in tal modo, sarebbero diminuiti l’amore e le spese.
A seguito delle insistenze Nastagio decise di partire.
Fece preparare molte cose per il viaggio, come se volesse andare in Francia o in Spagna o in un altro luogo lontano. In realtà, accompagnato da molti amici, partì da Ravenna e si fermò in un luogo a circa tre miglia da Ravenna , che si chiamava Chiassi. Posti  padiglioni e tende, si sistemò in quel posto, mentre quelli che lo avevano accompagnato se ne tornarono a Ravenna.
Anche lì il giovane cominciò a fare la bella vita, invitando or questi or quelli a pranzo e a cena, com’era sua abitudine.
In una bellissima giornata, agli inizi di Maggio, pensando alla sua crudele donna, ordinò a tutti i suoi servitori che lo lasciassero solo, per poter pensare. Camminando lentamente, quasi a mezzogiorno, si inoltrò nella pineta, dimenticandosi di mangiare e di ogni altra cosa.
All’improvviso gli parve di udire i pianti e gli altissimi lamenti di una donna, alzò il capo per vedere e si meravigliò di essere nella pineta.
Vide venire ,correndo attraverso un boschetto fitto di alberelli, una bellissima giovane nuda, scapigliata e tutta graffiata dagli sterpi, la quale piangeva e gridava. Ai suoi fianchi la inseguivano due grandi e feroci mastini, che spesso crudelmente la mordevano; dietro di lei veniva, su un cavallo nero, un cavaliere, col viso cupo, con una spada in mano, che la minacciava di morte con parole spaventose.
Nastagio, provando nello stesso tempo meraviglia e spavento, ma ,soprattutto, compassione per la sventurata donna, desiderò, se gli fosse possibile, di aiutarla.
Non avendo armi, prese un ramo, come se fosse un bastone, per andare contro i cani e contro il cavaliere.
Ma il cavaliere, come vide ciò, gli gridò da lontano “ Nastagio, non ti impicciare, lascia fare ai cani e a me quello che questa donna malvagia ha meritato”.
Frattanto i cani avevano fermato la donna e il cavaliere era smontato da cavallo.
Nastagio, sorpreso, gli chiese come mai lo conoscesse. Aggiunse che era una gran viltà da parte di un cavaliere uccidere una donna nuda, dopo averle messo alle costole i cani, come una belva selvatica, e che egli l’avrebbe difesa ,per quanto poteva.
Il cavaliere rispose che proveniva da Ravenna, dove era vissuto quando Nastagio era ancora bambino, e si
Chiamava messer Guido degli Anastagi, innamorato di una donna ,molto più di quanto lo era Nastagio della donna dei Traversari, che per la sua superbia e crudeltà causò la sua rovina. Egli ,disperato, con la spada che aveva in mano si uccise e fu condannato alle pene eterne.
Poco dopo la morte di lui, per la quale aveva molto gioito, la donna morì, senza essersi pentita della sua crudeltà e della gioia provata per le sofferenze causate allo sventurato Guido, non pensando di aver commesso alcun peccato. Anch’ella fu condannata alle pene dell’Inferno.
Come scese nell’Inferno fu data come pena a lei di fuggire davanti a lui e a lui, che tanto l’aveva amata, di
inseguirla come mortale nemica e non come donna amata.
Tutte le volte che la raggiungeva doveva aprirle la schiena con la spada e trarne fuori il cuore duro e freddo, nel quale non era mai entrato né amore né pietà, e, insieme alle altre interiora, gettarlo in pasto ai cani.
Dopo poco tempo ella, come voleva la giustizia e la potenza di Dio, come se non fosse stata uccisa, si sarebbe rialzata e avrebbe ripreso la dolorosa fuga, inseguita dai cani e dal cavaliere.
Tutto ciò avveniva ogni venerdì alla stessa ora in quel luogo, mentre negli altri giorni, la scena si ripeteva nei luoghi nei quali la donna aveva crudelmente operato contro il cavaliere.
Guido chiese, dunque, a Nastagio di lasciargli compiere la giustizia divina e di non volersi opporre.
Nastagio, con i capelli arruffati dalla paura, si fece da parte e rimase a guardare che cosa sarebbe accaduto.
Il cavaliere, dopo aver parlato, come un cane rabbioso, con la spada, corse addosso alla donna che, inginocchiata, tenuta ferma dai due mastini, chiedeva pietà, e ,con tutta forza, la colpì nel petto, trapassandola da parte a parte.
Il cavaliere, preso il coltello, le aprì la schiena ,ne trasse fuori il cuore e le interiora e le gettò ai cani, che, affamatissimi, immediatamente, li mangiarono.
Dopo poco la giovane, come se non fosse successo niente, si alzò in piedi e cominciò a fuggire verso il mare.
I cani corsero dietro di lei, mordendola, e il cavaliere, rimontato a cavallo e ripresa la spada, ricominciò ad inseguirla e, in poco tempo, scomparvero dalla vista del giovane.
Nastagio stette un po’ spaventato ed impietosito, poi gli venne in mente che quella scena, che accadeva ogni venerdì, poteva essergli utile.
Segnato il luogo, tornò dai suoi familiari e, chiamati parenti e amici, disse loro di invitare per il venerdì successivo messere Paolo Traversari ,la moglie, la figlia e tutte le donne loro parenti a pranzo da lui.
Aggiunse che avrebbero compreso durante il pranzo il perché di quell’invito.
Ai parenti sembrò una cosa semplice da farsi. Tornati a Ravenna, invitarono tutti quelli che Nastagio voleva.
La cosa più difficile fu condurre a pranzo la giovane da lui amata, pure vi riuscirono.
Nastagio fece imbandire uno splendido banchetto sotto i pini, dove era avvenuto lo scempio della donna crudele. Fece sedere la giovane amata dirimpetto al luogo dove doveva avvenire il fatto.
Quando i commensali erano giunti all’ultima portata, cominciarono ad udire le urla disperate della giovane inseguita. Tutti, chiedendosi che cosa stava succedendo, si alzarono in piedi e videro la giovane dolente, il cavaliere e i cani, che subito furono tra loro.
Molti si fecero avanti per aiutare la donna. Ad essi il cavaliere parlò come aveva parlato a Nastagio  e  non solo
 li fece indietreggiare ma li riempì di spavento e meraviglia. E, facendo quello che aveva fatto l’altra volta, turbò tutte le donne che erano lì e che erano state parenti della sventurata donna e del cavaliere. Esse ,infatti, ben si ricordavano dell’amore e della morte di lui.
Tutte piangevano come se fosse stato fatto a loro stesse quello che era stato fatto alla giovane.
Più di tutte si spaventò la crudele giovane amata da Nastagio , ricordandosi della crudeltà da lei sempre usata  contro il gentiluomo. Le sembrava già di fuggire inseguita da lui e dai mastini.
E tanta fu la paura che provò che, per evitare che ciò avvenisse, la stessa sera, avendo trasformato l’odio in amore, mandò segretamente a Nastagio una cameriera per dirgli che era pronta a fare tutto ciò che egli volesse.
Il giovane rispose che voleva prenderla in moglie, con onore di lei.
La donna, che sapeva che le sventure di Nastagio erano dipese soltanto da lei, che non aveva voluto essere sua moglie, gli fece rispondere che le piaceva.
Poi, di persona, disse al padre  e alla madre che voleva essere la sposa di Nastagio, anch’essi furono molto contenti.
La domenica seguente furono celebrate le nozze, e il gentiluomo visse con la sua sposa a lungo lietamente.
Quella paura fece sì che tutte le donne di Ravenna, paurose, divenissero ,da allora, più arrendevoli ai piaceri degli uomini ,di quanto non lo fossero state prima.



giovedì 11 settembre 2014

QUINTA GIORNATA - NOVELLA N.7

QUINTA GIORNATA – NOVELLA  N.7

Teodoro ,innamorato della Violante, figliuola di messer Amerigo,  suo signore, la ingravida ed è condannato alle forche; alle quali è condotto, mentre è frustato , viene riconosciuto dal padre e, liberato, sposa la Violante.

Le donne si rallegrarono che i due amanti non erano stati arsi e lodarono Iddio.
La regina diede incarico alla Lauretta di proseguire.
Ella iniziò a parlare dicendo che, al tempo  in cui Guglielmo il Buono era re di Sicilia, vi era nell’isola un gentiluomo ,chiamato messer Amerigo Abate da Trapani, il quale aveva molti figli, oltre che molte ricchezze.
Costui, avendo bisogno di servitori, comperò dai corsari genovesi, che venivano dall’Armenia, dei fanciulli, credendo che fossero turchi. Tra questi ve ne era uno ,di nome Teodoro, che si distingueva da tutti gli altri per il suo aspetto gentile. Egli crebbe insieme con i figli di messere Amerigo nella sua casa e piacque tanto al suo padrone che lo affrancò. Credendo che fosse turco, lo fece battezzare col nome di Pietro e gli affidò l’amministrazione dei suoi affari, fidandosi molto di lui.
Messere Amerigo, tra i tanti suoi figli, aveva anche una figlia, chiamata Violante, bella e delicata, che il padre tardava a maritare, la quale si innamorò di Pietro. Anche Pietro, dal canto suo, guardandola di nascosto, se ne era innamorato e si sentiva bene solo quando la vedeva, anche se, per prudenza, cercava di nascondere il suo amore. Violante se ne accorse e fu contentissima.
In questa situazione passò diverso tempo, perché entrambi avevano paura di svelarsi il loro amore, anche se ardevano, parimenti accesi.
Ma la fortuna trovò il modo di allontanare il timore.
Messer Amerigo aveva, a circa un miglio da Trapani, una proprietà molto bella, dove la moglie , con la figlia ed altre donne, si recava di solito per svagarsi. Mentre si trovavano lì, per il gran caldo, avendo portato Pietro con sé, all’improvviso, come spesso accade, il cielo si riempì di oscuri nuvoloni.
Tutta la compagnia si affrettò ,il più rapidamente possibile, lungo la strada, volendo tornare a Trapani, per evitare il maltempo.
Pietro ed anche Violante, spinti dalla gioventù , dall’amore e dalla paura del temporale, precedevano di molto la madre e le altre donne.
Dopo molti tuoni, cadde giù una grandinata fortissima, per cui la donna con la sua compagnia, si rifugiò nella casa di un contadino.
Pietro e la giovane, a loro volta, si rifugiarono in una chiesetta antica diroccata, dove non c’era nessuno. In essa si ripararono sotto un po’ di tetto che era rimasto, stringendosi l’uno all’altro, toccandosi per necessità.
Il toccamento fu causa del rivelarsi dei desideri amorosi.
Pietro, per primo, si augurò che quella grandine non finisse mai ed anche la giovane espresse lo stesso desiderio. Subito dopo cominciarono a baciarsi e ad abbracciarsi ,mentre continuava a grandinare.
E il tempo non si calmò finché essi non conobbero i più intimi piaceri dell’amore e non ebbero preso accordi per potersi incontrare in segreto.
Cessato il temporale, aspettata la madre, ritornarono a casa insieme a lei.
A Trapani, di nascosto, si incontrarono altre volte con grande conforto di entrambi, finché la giovane non rimase incinta. Violante tentò n tutti i modi di abortire senza riuscirvi. Pietro, temendo per la sua vita, voleva fuggire ma Violante glielo impedì minacciando di uccidersi. Ella gli promise che mai avrebbe rivelato il suo nome.
Non potendo più nascondere la gravidanza, per il crescere del suo corpo, piangendo la giovane confessò il suo stato alla madre, nascondendo la verità per evitare che Pietro fosse punito.
La donna, dopo molti rimproveri, per celare la condizione della figlia, se ne andò in un suo possedimento.
Colà, giunto il momento di partorire, Violante, come fanno tutte le donne, gridava per il dolore.
La madre non si accorse che messere Amerigo, che non andava mai in quella proprietà, trovandosi a passare di là, al ritorno dalla caccia, aveva sentito la figlia gridare; per questo entrò e domandò che cosa fosse.
La moglie gli raccontò tutto quello che era accaduto alla figlia. Il padre, meno credulone della donna, non credette al fatto che la ragazza non sapesse chi l’aveva ingravidata. Disse che voleva sapere chi era il padre e forse l’avrebbe perdonata, altrimenti l’avrebbe fatta morire. La madre non ottenne dalla figlia alcuna risposta. Messere Amerigo, infuriato, corse allora dalla figlia con la spada sguainata.
Mentre il padre gridava, Violante aveva partorito un figlio maschio, temendo di essere uccisa, rotta la promessa fatta a Pietro, raccontò tutto al padre.
Il cavaliere, sdegnato, rimontato a cavallo, corse a Trapani e a messer Corrado, capitano del re di Sicilia, raccontò l’ingiuria ricevuta da Pietro.
Il giovane fu catturato e, sotto tortura, confessò ogni cosa . Fu condannato alla frusta e all’impiccagione.
Poi, poiché alla stessa ora morissero i due amanti e il loro figlioletto, messere Amerigo, che non era soddisfatto di aver fatto condannare Pietro, mandò da un servo a Violante una bottiglia di vino ,in cui aveva versato del veleno, e un pugnale. Disse al servo di riferirle che doveva scegliere di morire o col veleno o col ferro, altrimenti l’avrebbe fatta ardere in piazza, davanti a tutti i cittadini.
Ordinò, ancora, al servo di uccidere il bambino appena nato ,sbattendolo con la testa contro il muro, e di gettarlo in pasto ai cani; poi andò via.
Frattanto Pietro, mentre veniva condotto dai servi alla forca, frustato, passò davanti ad un albergo dove alloggiavano tre nobili rumeni, che erano stati mandati dal re dell’Armenia a Roma per trattare col papa di affari di grande importanza. Si erano fermati a Trapani per riposarsi ed erano stati accolti con grandi onori dai nobili del luogo, tra cui messere Amerigo.
Costoro, sentendo passare quelli che conducevano Pietro, si affacciarono alla finestra per vedere.
Pietro era nudo, con le mani legate indietro. Uno dei tre ambasciatori, chiamato Fineo, guardandolo, gli vide sul petto una gran macchia vermiglia, non tinta, ma naturale, di quelle che le donne del luogo chiamavano “rose”. Appena vide la macchia pensò a suo figlio, che , quindici anni prima , era stato catturato dai corsari presso la marina di Laiazzo e non ne aveva potuto più avere notizie. Vista l’età dello sventurato, pensò che ,se era vivo, suo figlio doveva avere la stessa età del giovane. Si avvicinò e lo chiamò “ Teodoro”. Pietro ,udendo quel nome, subito sollevò il capo e , interrogato in lingua rumena su chi fosse, rispose che era nato in Armenia, era figlio di un certo Fineo ed era stato rapito da piccolo.
Fineo, udendo ciò, riconobbe in lui il figlio perduto, e, piangendo, scese giù per abbracciarlo e gli gettò addosso il ricchissimo mantello che aveva sulle spalle. Dopo aver saputo il motivo della condanna,  pregò colui che doveva eseguire la sentenza di morte di attendere fino a nuovo ordine.
Poi, rapidamente, andò da messere Corrado, capitano del re, e gli rivelò che Pietro era un uomo libero, non un servo, era suo figlio ed era disposto a prendere in moglie colei che aveva privato della verginità. Chiedeva di sospendere l’esecuzione per sapere se la donna voleva Pietro per marito.
Messer Corrado, udendo che il giovane era figlio di Fineo, lo liberò e lo mandò da messere Amerigo per raccontargli come erano andate le cose.
Messer Amerigo , udito il racconto, temendo che la figlia e il bambino fossero già morti, si addolorò molto; ciononostante, mandò ,immediatamente, a disdire l’ordine, se non era stato ancora eseguito.
Il messaggero trovò il servitore che aveva posto davanti a Violante il veleno e il coltello e attendeva che la donna si decidesse. Avuto il contrordine, ritornò dal padrone e gli riferì tutto.
Amerigo, ben lieto, si recò da Fineo, si scusò per come erano andati i fatti, e disse che era ben contento di dare la figlia in moglie a Teodoro , se la voleva. In pieno accordo
Fineo e Amerigo si recarono da Teodoro  ancora spaventato per il pericolo corso e lieto di aver ritrovato il padre.Gli chiesero, senza indugi, se voleva prendere in moglie Violante.
Teodoro, sentendo che se voleva, Violante sarebbe diventata sua moglie, felice pensò di essere saltato dall’Inferno in Paradiso e disse subito di si.
I due genitori mandarono a chiedere il parere di Violante. Ella, udendo ciò che era avvenuto a Teodoro, si rallegrò e rispose che era lietissima di diventare la moglie del giovane , ma che avrebbe fatto quello che suo padre comandava.
Dunque, con l’accordo di tutti, si celebrò il matrimonio con gran festa.
La giovane, riprese le forze e affidato il bambino alla nutrice ,ritornò più bella che mai e trattò con il rispetto dovuto a un padre Fineo, ritornato da Roma.
Egli , contento di una nuora così bella, la ricevette e la tenne come una figlia.
Dopo alcuni giorni ,imbarcatosi su una nave ,portò con sé a Laiazzo il figlio, la nuora e il nipotino, dove vissero
per tutta la durata della loro vita.


giovedì 4 settembre 2014

QUINTA GIORNATA - NOVELLA N.6

QUINTA GIORNATA – NOVELLA N.6

Gian di Procida, trovato con una giovane da lui amata e stata data al re Federico, per dover essere arso con lei è legato a un palo; riconosciuto da Ruggiero di Loria, campa e diviene marito di lei.

Finita la novella di Neifile, che molto era piaciuta alle donne, la regina comandò a Pampinea di raccontarne un’altra.
Ed ella velocemente incominciò, precisando che le forze dell’amore erano infinite e sottoponevano gli amanti ad infinite fatiche e a grandissimi pericoli. Tutto ciò si poteva comprendere dalle cose raccontate fino ad allora e dalle imprese ardimentose di un giovane innamorato
Proseguì dicendo che in Ischia, isola molto vicina a Napoli, visse, tra le tante, una giovinetta bella e allegra, di nome Restituta, figlia di un gentiluomo dell’isola, chiamato Marino Bulgaro.
Un giovinetto, di nome Gianni, della vicina isoletta di Procida, amava più della sua vita la fanciulla ed era da lei ricambiato.
Il giovane, poiché non poteva andare di giorno ad Ischia da Procida, per vederla, spesso di notte, non avendo trovato una barca, andava ad Ischia a nuoto, per vedere, se non lei, almeno le mura della sua casa.
Così stando le cose, un giorno la giovane, mentre raccoglieva sugli scogli ,tutta sola, conchiglie, staccandole con un coltellino dalle pietre, giunse in un angolo appartato, nascosto dagli scogli, dove si trovavano alcuni giovani siciliani. Essi si erano sistemati lì perché vi erano abbondante ombra e una fontana di acqua freschissima.
I giovani vedendo che la bellissima fanciulla era sola, decisero di catturarla e di portarsela via. Sebbene ella gridasse molto la catturarono, la caricarono su una barca e partirono.
Giunti in Calabria, cominciarono a litigare su chi dovesse avere la ragazza.
Temendo di guastare i loro rapporti, decisero di donarla a Federico II, re di Sicilia, che era allora giovane e gradiva queste cose; il re, vedendola bella, l’ebbe cara.
Poiché era un po’ cagionevole di salute, finché non avesse ripreso le forze, la fece sistemare in un castello con uno splendido giardino, chiamato “La Cuba”.
La notizia del rapimento della giovane si diffuse in tutta Ischia, ma non si riuscì a sapere chi l’avesse rapita.
Gianni senza che ad Ischia giungessero notizie, poiché sapeva in quale direzione era andata la fregata dei siciliani, fatta armare una nave, esplorando tutta la costa tirrenica fino a Scalea in Calabria, chiese informazioni.
A Scalea gli fu detto che la ragazza era stata portata a Palermo dai marinai siciliani.
Recatosi subito a Palermo, Gianni, dopo molte ricerche, seppe che ella era stata data al re ed era tenuta nel castello della Cuba. Fortemente turbato, perse quasi del tutto la speranza non solo di poterla riavere ma anche di poterla rivedere. Pure, trattenuto dall’amore, mandata via la nave, rimase a Palermo.
Passando molto spesso sotto la Cuba, per caso la vide un giorno alla finestra e Restituta vide lui ,con grande gioia di entrambi. Gianni, vedendo che il luogo era solitario, si avvicinò più che poté e le parlò.
Esaminata la disposizione del luogo, a notte inoltrata, tornò e ,aggrappatosi alle mura  ,dove si sarebbero potuti aggrappare i picchi, entrò nel giardino.Aiutandosi con una pertica, salì verso la finestra della giovane.
Ella, pensando che ormai aveva perduto il suo onore, volendo donarsi a lui per farsi portare via, aveva lasciata la finestra aperta, perché potesse passare.
Gianni, silenziosamente entrò e si coricò al fianco della giovane, che non dormiva.  Ella si fece promettere che l’avrebbe portata con sé. Dopo di ché , abbracciatisi, fecero l’amore più volte, con grande piacere.
Alla fine, senza accorgersene, si addormentarono l’uno nelle braccia dell’altro.
Frattanto il re, avendo ripreso le forze, ricordandosi di Restituta, decise di andare a stare un po’ con lei.
Accompagnato da un servitore, si recò alla Cuba ; entrato nel castello, fatta aprire silenziosamente la camera nella quale era alloggiata la giovane, illuminata da una grossa candela, vide dormire nel letto ,nudi e abbracciati, lei e Gianni.
Adirato per poco non li uccise entrambi col coltello che aveva al lato. Poi, ritenendo che fosse molto vile, soprattutto per un re, uccidere i due nudi mentre dormivano, pensò di farli morire al rogo, pubblicamente. Rivolto al solo uomo che aveva portato con sé, rammentando che aveva posto in quella donna spregevole la sua speranza, gli chiese se conosceva quel giovane che aveva avuto il coraggio di venirgli in casa e di oltraggiarlo in quel modo. Il compagno rispose di non averlo mai visto.
Il re ordinò che i due amanti, nudi com’erano, appena giorno, fossero condotti a Palermo e nella piazza, spalla a spalla, fossero legati a un palo, fino all’ora terza, perché potessero essere visti da tutti; infine fossero arsi come avevano meritato. Così detto se ne ritornò infuriato a Palermo.
Partito il re, le guardie svegliarono i due amanti e, senza nessuna pietà, li catturarono e li legarono.
I due sventurati si addolorarono e temettero per la loro vita.
Essi, come il re aveva comandato, furono condotti a Palermo e legati ad un palo della piazza, mentre veniva preparata, davanti ai loro occhi, la pira su cui dovevano ardere all’ora stabilita dal re.
Immediatamente tutti i palermitani corsero a vedere la giovane, lodandola per la sua bellezza, le donne per guardare il giovane che era ugualmente ben fatto.
Gli sventurati amanti, vergognandosi enormemente, stavano con le teste basse, piangendo per la loro sventura, aspettando la morte del fuoco.
Mentre tutti erano lì, attendendo l’ora stabilita, la notizia giunse a Ruggiero di Loria, uomo valoroso e, allora, ammiraglio del re, che andò subito verso la piazza per vederli.
Lì giunto, guardò prima la ragazza e ne ammirò la bellezza, poi guardò il giovane. Immediatamente lo riconobbe e , avvicinatosi, gli chiese se era Gianni di Procida. Gianni confermò che era proprio lui, ma ancora per poco, perché stava per essere arso, per colpa di Amore e dell’ira del re.
Poi raccontò a Ruggiero tutta la vicenda e gli chiese un’ultima grazia. Rassegnato a morire, chiedeva di essere legato alla donna, che aveva amato più della vita, con i visi rivolti l’uno verso l’altro, non con le schiene, in modo che potesse vedere il viso di lei, traendone conforto, morendo.
Sorridendo Ruggiero rispose che avrebbe fatto in modo che  Gianni avesse potuto vedere ancora per molto il viso tanto amato. Ordinò alle guardie di sospendere l’esecuzione fino a nuovo ordine e ,senza indugio, si recò dal re, al quale chiese quale offesa avesse ricevuto dai due giovani.
Gli chiese, inoltre, se conosceva chi fossero i due che aveva condannato al rogo.
Gli spiegò che il giovane era figlio di Landolfo di Procida, fratello di messer Giann di Procida, grazie al quale Federico era signore di Procida. La ragazza era figlia di Marino Bulgaro, grazie al quale Ischia era ancora sotto la sua signoria. Precisò che i due, spinti dall’amore, non per mancanza di rispetto verso il re, avevano commesso quel peccato. Infine chiese al re di salvarli e di onorarli.
Il re, udendo quanto gli diceva Ruggiero, non solo sospese l’esecuzione, ma si rammaricò di ciò che aveva ordinato. Avendo conosciuta tutta la loro storia, li liberò e diede loro ricchi doni per compensare l’ingiuria fatta.
Poi, sentendo che entrambi lo volevano, fece sposare la giovinetta con Gianni.
Infine, li rimandò a casa loro, dove furono accolti con grandi feste e vissero a lungo felicemente insieme.