giovedì 26 giugno 2014

QUARTA GIORNATA - NOVELLA N.8

QUARTA GIORNATA – NOVELLA N. 8


Girolamo ama la Salvestra. Va a Parigi, costretto dalle preghiere della madre; torna e la trova maritata; entra nella casa di lei di nascosto e le muore a fianco; viene portato in chiesa e la Salvestra muore accanto a lui.

Emilia aveva finito il suo racconto, quando Neifile, per ordine del re, incominciò a dire che vi erano uomini molto presuntuosi che provocavano grandi mali, pensando di opporsi ai consigli degli uomini, ma facendo le cose contro natura.
Soprattutto Amore non poteva essere contrastato ed essere portato in direzione diversa da quella dove lo portava la natura. Aggiunse che voleva raccontare la storia di una donna che cercava di essere più saggia di quanto poteva e, credendo di togliere dal cuore del figlio l’amore che le stelle vi avevano messo, ne cacciò nella stessa ora l’anima e l’amore.
Come raccontavano i vecchi, in Firenze viveva un ricchissimo mercante, di nome Leonardo Sighieri, il quale ebbe da una donna un figlio che chiamò Girolamo. Poco dopo la sua nascita, sistemati i suoi affari, passò a miglior vita. La madre e i tutori curarono gli interessi del fanciullo.
Egli, crescendo, si affezionò molto alla figlia di un sarto, che abitava nella sua strada.
Crescendo, l’affetto si trasformò in amore tanto appassionato che Girolamo non si sentiva bene se non la vedeva e anch’ella non l’amava meno.
La madre del ragazzo, accortasi della cosa, molte volte lo rimproverò e lo castigò.
La donna, non riuscendo ad allontanare il figlio dalla fanciulla, credette che ,solo perché il figlio era tanto ricco, ella poteva cambiare un prugno in un melarancio .Disse, dunque, ai tutori che il figlio si era innamorato della figlia di un sarto che si chiamava Salvestra e che se non gliela toglievano d’innanzi avrebbe finito per sposarla.
Bisognava, perciò, mandare il ragazzo a fare dei lavori nell’azienda. In questo modo, non vedendola più, se la sarebbe tolta dalla testa ed avrebbe sposato una giovane di origine nobile.
I tutori, ritenendo giusto quello che diceva la donna, chiamarono il fanciullo in azienda e gli dissero che era ormai diventato grandicello ed era ormai ora che si interessasse dei suoi affari. Per questo era opportuno che si recasse a Parigi, dov’era gran parte della sua ricchezza. Colà, inoltre, avrebbe appreso i costumi dei nobili, vedendo i signori e i baroni parigini, che erano dei veri gentiluomini. Poi poteva tornarsene a casa.
Il ragazzo rifiutò di partire, ma la madre tanto disse e tanto fece che egli acconsentì a partire e a rimanere lontano solo per un anno.
Andato a Parigi, sempre innamoratissimo, per un motivo o per un altro rimase lì per due anni.
 Ritornato più innamorato che mai, trovò Salvestra maritata ad un bravo giovane che faceva le tende e ne soffrì moltissimo.  Pure, saputo dove abitava, cominciò a passare davanti a lei, secondo l’usanza degli innamorati, credendo che anche la donna non l’avesse dimenticato.
Invece le cose stavano in un altro modo.
Ella dava segno di averlo completamente dimenticato, anzi di non averlo mai conosciuto.
Di ciò si accorse il giovane che, molto addolorato, decise di parlarle egli stesso, anche a costo di morire.
Una notte, informatosi da un vicino della disposizione della casa, mentre Salvestra col marito era andata ad una veglia, di nascosto, entrò nella camera e si nascose dietro un mucchio di stoffe e di tende che erano lì.
Quando si accorse che il marito si era addormentato, si avvicinò al letto della donna e le mise la mano sul petto, chiedendole se era sveglia.
Salvestra non dormiva e, alla preghiere del giovane di non gridare, lo invitò ad andarsene.
Infatti era passato il tempo della gioventù, quando erano innamorati. Ormai era sposata e doveva accudire al marito. Lo pregava, per amor di Dio, di andarsene, di non svegliare il marito e di lasciarla vivere in santa pace.
I giovane, udendo quelle parole, provò un gran dolore. Le confermò che il suo amore non era mai diminuito per la lontananza, ma, nonostante le preghiere e le promesse, non ottenne nulla.
Alla fine, desideroso di morire, le chiese di potersi coricare al suo fianco, per potersi riscaldare un po’, perché era gelato, poi se ne sarebbe andato. La Salvestra, impietosita, acconsentì.
Il giovane si coricò al suo fianco ,senza toccarla, e cominciò a pensare al loro amore durato a lungo e alla presente resistenza di lei, e, perduta la speranza, decise di non voler più vivere. Trattenendo il fiato, senza dire una parola, al fianco di lei, morì.
Dopo un po’, la giovane, sorpresa dal suo contegno, temendo che il marito si svegliasse, lo chiamò e lo invitò ad andarsene. Non avendo ricevuto risposta, pensò che dormisse. Cominciò a scuoterlo e, toccandolo, si accorse che era freddo come il ghiaccio. Soltanto dopo averlo scosso molte volte si accorse che era morto.
La donna stette molto tempo senza sapere cosa fare. Poi raccontò, per filo e per segno, che cosa era successo al marito e gli chiese consiglio.
Il buon uomo, senza rancore verso la moglie, ritenne opportuno riportare, di nascosto, in silenzio, il morto a casa sua e di lasciarlo lì. La giovane fu dello stesso parere. Senza più parlare, rivestito il meschino , senza perder tempo, se lo caricò sulle spalle e lo portò davanti alla porta della sua casa.
Venuto il giorno, fu trovato il corpo di Girolamo. La madre molto gridò e pianse. I medici, chiamati per visitarlo, dichiararono che sul corpo non vi erano né ferite, né piaghe. Tutti furono d’accordo nel ritenere che era morto per amore.
Il corpo fu portato in una chiesa dove vennero a piangere la madre dolorosa e le vicine.
Mentre si faceva un grandissimo lamento, il buon uomo disse alla Salvestra di mettersi un mantello sul capo ,di andare alla chiesa dove era stato portato Girolamo e di mescolarsi alle altre donne per sentire se si diceva qualcosa contro di loro.
La giovane provò, in ritardo, per il giovane ormai morto, l’amore che non aveva provato per lui vivo (era incredibile immaginare quanto fossero complicate le forze dell’amore).
Alla vista di Girolamo, come vide il viso del morto, resuscitarono in lei le antiche fiamme dell’amore giovanile. Mandato un altissimo grido, si gettò sul corpo del giovane e, prima di toccarlo, il dolore, che aveva tolto la vita a Girolamo, la tolse anche a lei.
Le donne che erano intorno, vedendo che non si alzava, cercarono di aiutarla, solo dopo molto tempo capirono che era morta. Vinte dalla pietà sia per Girolamo che per Salvestra, ricominciarono a piangere molto di più.
La notizia giunse agli uomini che erano fuori dalla chiesa ed al marito di lei, che pianse a lungo, poi raccontò come erano andate le cose la notte precedente..
Tutti, allora, compresero la ragione della morte dei due e se ne addolorarono.
Ornata ,poi, la giovane morta, come si ornano i morti, la posero accanto a Girolamo.
 Infine li seppellirono nella stessa tomba. E la morte unì, in una inseparabile compagnia, loro che l’amore non aveva potuto unire in vita.
 



giovedì 19 giugno 2014

QUARTA GIORNATA - NOVELLA N.7

QUARTA GIORNATA – NOVELLA N.7

La Simona ama Pasquino; mentre sono insieme in un orto, Pasquino si sfrega i denti con una foglia di salvia e muore; viene catturata Simona che, volendo mostrare al giudice come era morto Pasquino, si sfrega i denti con quelle foglie e muore anche lei.

Panfilo aveva concluso il suo racconto quando il re fece segno ad Emilia di continuare. Ed ella , senza indugio, cominciò dicendo che la sua novella era simile a quella di Andreuola solo nel fatto che la protagonista perse l’amante nel giardino e fu catturata come Andreuola. Si liberò dell’accusa non con la forza né con la virtù, ma con la morte.
Come già era stato detto, Amore prediligeva le case dei nobili, ma non disdegnava quelle dei poveri, nelle quali ugualmente dimostrava la sua forza, come sarebbe apparso dalla sua novella, ambientata in Firenze.
In Firenze, la loro città, dalla quale si erano allontanate spostandosi in varie parti del mondo, viveva una bella e leggiadra giovane, figlia di un padre povero, di nome Simona.
Sebbene dovesse lavorare e filare la lana per mangiare, pure accettò l’amore di un giovinetto di umili condizioni come lei, chiamato Pasquino, che portava la lana a filare per conto di un maestro lanaiolo.
Simona filava e avvolgeva il fuso con mille sospiri, pensando a colui che le aveva dato la lana da filare.
Dal canto suo, Pasquino andava continuamente a controllare che si filasse bene la lana del suo maestro e controllava soprattutto e soltanto la lana che filava Simona e la sollecitava più spesso che le altre filatrici.
Sollecitando l’uno e compiacendosi di essere sollecitata l’altra, i due, superata ogni vergogna, si unirono per il piacere comune. Continuando così nel procurarsi comune piacere, si innamorarono ogni giorno di più.
Una volta Pasquino  invitò Simona a recarsi in un giardino appartato, dove potevano stare insieme più tranquilli e la ragazza acconsentì.
Una domenica, dopo pranzo, Simona disse al padre che andava a prendere l’indulgenza a San Gallo, con la sua compagna, chiamata la Lagina. Con lei si recò al giardino indicato da Pasquino.
Il giovane, dal canto suo, vi andò con un compagno, di nome Puccino, detto lo Stramba. Incontratisi con le donne sorse un nuovo amorazzo tra lo Stramba e la Lagina. .Per soddisfare i loro desideri Simona e Pasquino si sistemarono in un angolo del giardino, lo Stramba e la Lagina in un altro.
Nell’angolo dove erano andati Pasquino e Simona c’era un grandissimo e bel cespuglio di salvia.
Volendo fare merenda, Pasquino, dicendo che la salvia puliva bene i denti di ogni cosa ch’era rimasta attaccata dopo aver mangiato, raccoltane una foglia se la stropicciò sui denti e sulle gengive.
Poi, dopo averli sfregati per un po’, ritornò a parlare della merenda. Mentre parlava, impallidì, perse la vista e la parola e in breve morì.
Simona, vedendo ciò, cominciò a piangere , a gridare e a chiamare lo Stramba e la sua compagna.
Come lo Stramba vide Pasquino morto, il quale ,nel frattempo, si era gonfiato e riempito di macchie scure, cominciò a gridare accusando Simona di averlo avvelenato.
Accorsero i vicini ,richiamati dal grande rumore, udirono le accuse . Vedendo Simona quasi uscita di senno e che non si sapeva spiegare che cosa fosse successo, credettero che fosse come avevano detto lo Stramba, l’Atticciato e il Malagevole. Per questo ,presa Simona, la portarono al palazzo del podestà.
Il giudice che esaminò la cosa ,per comprendere l’accaduto, volle vedere il morto. Poi si fece portare Simona dove il corpo di Pasquino giaceva ancora gonfiato come una botte e le chiese come era successo.
La donna ,per spiegarsi meglio, fece come aveva fatto Pasquino, sfregandosi i denti con una di quelle foglie di salvia. Di fronte allo Stramba e ai suoi compagni, che chiedevano per lei la punizione del rogo, la poveretta, che era confusa per il dolore del perduto amore e per la paura della pena richiesta, cadde a terra, come prima era caduto Pasquino, con grande meraviglia dei presenti.
O anime fortunate che terminarono insieme la vita mortale e ancora più felici se nell’altra vita continuarono a stare insieme nello stesso posto.
Fortunata, sicuramente, l’anima di Simona che, a giudizio dei vivi, era risultata innocente, e, liberatasi dalle accuse dello Stramba, dell’Atticciato e del Malagevole, aveva potuto seguire l’anima tanto amata del suo Pasquino.
Il giudice ,meravigliato dell’incidente, rimase pensieroso a lungo, poi, ritrovato il senno, aggiunse “ Sembra che questa salvia sia velenosa, il che è insolito. Ma , per evitare che possa danneggiare in questo modo qualche altro, si tagli fino alla radice e si faccia bruciare”.
Il guardiano del giardino si apprestò a tagliare il cespuglio in presenza del giudice , ed ecco che apparve la causa della morte dei due amanti.
Sotto il cespuglio di salvia c’era un rospo enorme, dal cui fiato velenoso era diventata velenosa anche la salvia.
Non avendo nessuno il coraggio di avvicinarsi al rospo, fu ammucchiata intorno al cespuglio una grandissima catasta di legna.
Qui arsero il rospo con la salvia e finì il processo del giudice per la morte del misero Pasquino.
Il giovane e la sua Simona, gonfi com’erano, furono seppelliti dallo Stramba, dall’Atticciato, da Guccio Imbrotta e dal Malagevole ,nella chiesa di San Paolo, di cui erano parrocchiani.




giovedì 12 giugno 2014

QUARTA GIORNATA - NOVELLA N.6

QUARTA GIORNATA – NOVELLA n.6

L’Andriuola ama Gabriotto: gli racconta di aver fatto un sogno ed egli racconta a lei di averne fatto un altro; muore all’improvviso nelle sue braccia; mentre  con la sua fantesca lo porta alla casa di lui, sono prese dalle guardie, ed ella racconta come sono andate le cose: il podestà la vuole possedere, ma ella non lo sopporta: sentendolo il padre di lei, poiché è innocente la fa liberare, ed ella si fa monaca di clausura, rifiutando del tutto di stare nel mondo.  

La novella raccontata da Filomena fu graditissima alle donne che avevano sentito cantare molte volte quella canzone, ma, per quanto avessero chiesto, non avevano mai potuto sapere perché era stata fatta.
Il re diede  ordine a Panfilo di continuare.
Il giovane disse che la novella precedente gli dava lo spunto per raccontarne una nella quale si parlava di due sogni che preannunziarono eventi futuri.
Le sue compagne dovevano, comunque, sapere che era impressione di tutti i viventi che le cose che apparivano nei sogni fossero verissime, e, una volta svegliatisi, le considassero alcune vere, altre verosimili, altre lontane dalla realtà; talvolta esse avvenivano per davvero.
Perciò molti prestavano ai sogni grande fiducia , come se fossero reali e per quelli si rattristavano o si rallegravano e temevano o speravano; altri , al contrario, non ci credevano per nulla, se non che si trovavano nei pericoli preannunziati dai sogni.
Panfilo riteneva che i sogni non erano sempre veri e non erano sempre falsi, come dimostravano sia  la novella precedente che quella che stava per raccontare.
Nella città di Brescia viveva un gentiluomo chiamato messer Negro da Ponte Carraro, che, tra i molti figli, aveva una figlia che si chiamava Andreuola, giovane, bella e senza marito. Ella si innamorò, ricambiata, di Gabriotto, uomo di bassa condizione ma bello e garbato.
Con l’aiuto della fantesca , i due, nel bel giardino del padre ,si incontrarono spesse volte.
Divennero , segretamente, marito e moglie, promettendosi che solo la morte li avrebbe separati.
Una notte, mentre continuavano gli incontri furtivi, la giovane sognò di essere nel suo giardino con Gabriotto.
Mentre egli la teneva fra le braccia, dal corpo di lui uscì una cosa oscura ed orribile, a lei sconosciuta, che le strappò il giovane dalle braccia e se lo portò sotto terra ,senza che i due innamorati potessero più rivedersi.
Si svegliò agitata e, sebbene si fosse resa subito conto che si trattava di un sogno, pure ebbe paura.
La notte seguente evitò di incontrarsi con l’innamorato per timore.
Poi, la notte successiva lo ricevette nel suo giardino per evitare sospetti.
Accolto con grandi feste, Gabriotto le chiese perché la notte precedente non aveva voluto incontrarlo.
La giovane gli raccontò il sogno e il presentimento che l’aveva presa.
Il giovane ,udendo ciò, rise e disse che era una sciocchezza credere nei sogni che si facevano o per aver mangiato troppo o troppo poco.
Aggiunse che se avesse voluto credere ai sogni non si sarebbe incontrato con lei.
Infatti anch’egli ,la notte prima, ne aveva fatto uno. Aveva sognato di essere in un bel bosco e di aver catturato una capriola bella come non ce n’erano altre, bianca come la neve. In breve tempo egli l’aveva addomesticata e, per evitare che si allontanasse, le aveva messo intorno al collo un collare d’oro, con una catena d’oro.
Una volta, mentre la capriola stava appoggiata con il capo sul suo grembo, uscì all’improvviso una cagna da caccia, nera come il carbone, spaventosa a vedersi, e andò verso di lui. La cagna lo aggredì e gli strappò il cuore dal petto per portarselo via.
Egli provò un dolore tanto grande che si svegliò di soprassalto e si mise la mano sul cuore per vedere se tutto era a posto, non trovando alcun danno rise di sé stesso. Aggiunse che di sogni così e anche più spaventosi ne aveva già fatti, ma  non si erano mai avverate le cose che aveva sognato; perciò non ci dovevano più pensare e dovevano stare allegri.
La giovane ,udendo il sogno di Gabriotto, si spaventò ancora di più, ma ,per non rattristarlo, nascose la sua paura e lo baciò e abbracciò teneramente. Non sapendo il perché, si guardava intorno per vedere se qualche cosa nera apparisse.
Mentre stavano così, all’improvviso Gabriotto ,emettendo un sospiro, le chiese aiuto e, cadendo sull’erba del prato, morì. La giovane pianse disperatamente e più volte invocò il nome di lui invano. Poi , accortasi che era del tutto morto, non sapendo che fare, chiamò la sua domestica, che sapeva tutto, e le rivelò la causa del suo dolore. 

Andreuola disse alla fantesca che non voleva più vivere senza il suo amore, ma prima di uccidersi, pur conservando il segreto, voleva seppellire onorevolmente il corpo dell’uomo.
La donna la scongiurò di non uccidersi perché sarebbe andata all’inferno, dove sicuramente non era andata l’anima di Gabriotto, che era stato un bravo giovane; meglio era pregare per l’anima di lui. Bisognava ,invece, pensare a seppellirlo, di nascosto, portarlo fuori dal giardino, sulla strada, dove qualcuno, l’indomani, l’avrebbe trovato e portato ai suoi parenti per la sepoltura.
La giovane non volle lasciare abbandonato nella strada, come un cane, il corpo del marito, tanto amato.
Voleva che avesse, oltre le sue lacrime, anche quelle dei suoi parenti. Decise, perciò, cosa fare.
Ordinò alla serva di prendere dal forziere un drappo di seta molto prezioso.
Lo misero per terra e vi posero sopra il corpo del morto, con la testa appoggiata su un cuscino ,con gli occhi e la bocca chiusa, con una ghirlanda di rose e con tutte rose intorno.
Avvicinandosi il giorno, sollecitata dalla cameriera, si tolse dal dito l’anello con cui Gabriotto l’aveva sposata e lo mise al dito di lui, come ultimo dono di colei che, in vita, aveva tanto amato. Poi ,per il gran dolore, svenne sul corpo del giovane.
Riprese le forze, insieme alla fantesca, preso il drappo, su cui giaceva il corpo, uscì dal giardino e si diresse verso la casa di lui.
Mentre andavano furono catturate dalle guardie della Signoria.
Andreuola, desiderosa più di morire che di vivere, raccontò alle guardie ciò che era successo e chiese di essere portata davanti al signore. Nessuno, però, doveva toccare il corpo del morto, che ella portò con sé al palazzo della Signoria.
Il Podestà, udita la cosa, ricevette la donna nella sua stanza e si fece raccontare l’accaduto
I medici, chiamati dal Signore, verificarono che l’uomo non era stato ucciso con il  veleno o in altro modo. Affermarono che era morto perché era stato affogato dal sangue di un ascesso che si era rotto vicino al cuore.
Il Podestà, udendo che la giovane era innocente, promise di liberarla se avesse acconsentito ai suoi piaceri.
Non riuscendo a convincerla, tentò di violentarla.
Andreuola, adirata, si difese con grande energia ,cacciandolo via.
Venuto il giorno, queste cose furono riferite a messer Negro, che andò dal podestà per riavere sua figlia.
Il podestà, per evitare di essere accusato dalla donna ,le fece molte lodi per l’amore e la costanza dimostrate, e, preso da grande amore, nonostante che ella già aveva sposato un uomo di bassa condizione, la chiese in moglie al padre.
Frattanto Anreuola giunse al cospetto del padre e gli disse “ Padre mio, è inutile che vi racconti tutta la mia sciagura, che voi, sicuramente, già conoscete. Vi chiedo perdono di aver preso per marito, senza il vostro consenso, chi più mi piacque. Questo perdono ve lo chiedo non per aver salva la vita, ma per morire come vostra figlia, non come vostra nemica”.
Messer Negro ,che era molto vecchio e di natura buono e amorevole, piangendo sollevò in piedi la figlia e disse “Figlia mia, mi fa soffrire la poca fiducia che hai avuto in me, nascondendomi il tuo matrimonio ,e ancor di più il fatto che tu abbia perduto tuo marito prima che io l’avessi saputo. Ma l’onore di accoglierlo ,volentieri, come mio genero, per farti contenta, che non ho potuto concedergli in vita, glielo concederò per la sua morte”.
Fece ,quindi, preparare a Gabriotto un esequie grande e onorevole.
La voce si diffuse rapidamente e giunsero da ogni parte della città i pareti del morto e tutti gli uomini e le donne. Non come un plebeo ma come un signore fu portato fuori dal cortile del palazzo pubblico a spalla dai più nobili cittadini, con grandissimo onore, per la sepoltura.
Dopo alcuni giorni messer Negro chiese alla figlia se voleva sposare il Podestà che l’aveva chiesta in moglie.
Andreuola non ne volle sapere, ma preferì farsi monaca , insieme con la sua fantesca, in un monastero molto    
famoso per la santità, e lì vissero onestamente per molto tempo.







giovedì 5 giugno 2014

QUARTA GIORNATA - NOVELLA N.5

QUARTA GIORNATA – NOVELLA N.5

I fratelli di Elisabetta uccidono l’amante di lei; egli le appare in sogno e le mostra dove è sotterrato; ella, di nascosto, dissotterra la testa e la mette in un vaso di basilico, e, su quello, piangendo ,ogni giorno resta per molto tempo. I fratelli glielo tolgono ed ella muore di dolore poco dopo.

Finita la novella di Elissa, venne il turno di Filomena, che, ancora turbata per la fine di Gerbino e della sua donna, cominciò dicendo che avrebbe narrato di genti più umili, la cui sorte sarebbe stata ugualmente triste.
La sua storia era ambientata a Messina, dove vivevano tre giovani fratelli, mercanti, rimasti molto ricchi dopo la morte del padre, originario di San Gimignano.
Costoro avevano una sorella ,chiamata Elisabetta, molto bella e onesta, che non avevano ancora maritata.
Avevano, inoltre, in un loro magazzino, un giovane pisano ,di nome Lorenzo, che curava i loro affari.
Costui era molto bello e garbato; avendolo notato, Elisabetta se ne innamorò.
Anche Lorenzo cominciò a rivolgerle le sue attenzioni e non passò molto tempo che i due, sentendosi sicuri, cominciarono a fare ciò che entrambi desideravano.
Purtroppo non seppero incontrarsi così segretamente che il maggiore dei fratelli non si accorgesse che Elisabetta si recava là dove Lorenzo dormiva. Il malvagio, senza parlare, aspettò che venisse il giorno.
La mattina seguente raccontò ai fratelli ciò che aveva visto di Elisabetta e Lorenzo nella notte passata.
Decisero, per evitare di recare alcuna infamia alla sorella, di fingere di non sapere niente, finchè non fosse giunto il tempo di togliersi dal viso quella vergogna.
Continuarono, quindi, a ridere e a scherzare  con Lorenzo come facevano di solito, fino a quando, fingendo di andare fuori città per svago, non lo condussero con loro.
Giunti in un luogo molto solitario ,lo uccisero e lo sotterrarono, senza che nessuno se ne accorgesse.
Tornati a Messina, diffusero la voce che lo avevano mandato a fare delle commissioni in un altro paese, come talvolta accadeva.
Elisabetta, non tornando Lorenzo, sempre più in ansia, chiese ai fratelli con insistenza dove l’avevano mandato, ma ne ricevette una risposta minacciosa.
Una notte, dopo aver molto pianto per l’amato che non tornava, si addormentò spossata.
Lorenzo le apparve in sogno, pallido e spettinato, con i panni laceri e le disse che non sarebbe più tornato perché i fratelli di lei l’avevano ucciso. Le indicò il luogo dove l’avevano sotterrato e disparve.
La giovane, svegliatasi, pianse amaramente.
Decise, dunque, di andare a vedere, di nascosto dai fratelli, nel luogo indicato, se era vero ciò che le era apparso in sogno. Giunta sul luogo, scostò le foglie secche e scavò nel punto in cui la terra le sembrò meno dura.
Non dovette scavare troppo che trovò il corpo dell’infelice amante ,ancora integro, a conferma del suo sogno.
Avrebbe voluto portare con sé tutto il corpo per seppellirlo onorevolmente, ma non era possibile. Allora, con un coltello, gli staccò la testa dal busto, l’avvolse in un asciugamano e la diede ad una sua domestica.
Poi, non vista da nessuno, se ne ritornò a casa.
Quivi giunta, si chiuse in camera e tanto pianse che lavò con le lacrime la testa, coprendola di baci.
Poi, prese un grande e bel vaso, di quelli dove si pianta il basilico e ce la mise dentro, avvolta in un bel fazzoletto di seta. Copertala di terra, vi piantò parecchi piedi di basilico salernitano e innaffiava ogni giorno quel vaso con acqua di rose e di aranci e con le sue lacrime.
Aveva preso l’abitudine di sedersi sempre vicina a quel vaso e piangeva tanto, bagnandolo, che anche il basilico piangeva.
Il basilico ,sia per la cura continua sia per la decomposizione della testa che c’era dentro il vaso, divenne bellissimo e molto profumato.
Ben presto la sua tristezza e la cura che ella aveva per il vaso insospettirono i vicini, che ne parlarono con i fratelli. Costoro, di nascosto, fecero portare via il vaso di basilico.
Elisabetta, non trovandolo, più volte, con insistenza, lo chiese, ma non le fu restituito.
Dopo poco si ammalò e nella sua malattia non chiedeva altro che il vaso.
I giovani, meravigliati dell ‘insistente richiesta, vollero vedere che cosa c’era dentro. Versata la terra, videro il
drappo in cui era avvolta la testa non ancora così consumata, che impedisse il riconoscimento della testa di Lorenzo. Temendo che l’omicidio si venisse a sapere, con prudenza, fuggirono da Messina, e, trasferiti tutti i loro averi, se ne andarono a Napoli.
Elisabetta, continuando a chiedere il suo vaso, piangendo se ne morì. E così finì il suo sventurato amore.
Dopo un certo tempo la sua storia fu conosciuta e un cantastorie compose una canzone , che si cantava ancora al loro tempo e cioè
“ Quale fu l’uomo malvagio
  che mi rubò il vaso da fiori ecc.ecc”.