domenica 20 dicembre 2015

DECIMA GIORNATA - NOVELLA N.9

DECIMA GIORNATA – NOVELLA N.9

Il Saladino, che finge di essere un mercante, è ospitato onorevolmente da messer Torello; si fa la Crociata; messer Torello dà alla moglie un termine per rimaritarsi, se egli muore.
Viene catturato, per vivere ammaestra uccelli. Il Sultano , lo viene a sapere, riconosciutolo e fattosi  riconoscere, lo accoglie presso di sé con molti onori; messer Torello si ammala e con arti magiche una notte viene portato a Pavia. Alla cerimonia di nozze della moglie viene da lei riconosciuto e con lei se ne torna a casa sua.

Filomena aveva appena finito di parlare e tutti avevano lodata la magnificenza di Tito, quando il re, riservando l’ultimo posto a Dioneo, cominciò a parlare.
Disse che Filomena aveva raccontato cose vere sull’amicizia e giustamente si era rammaricata che l’amicizia era poco gradita agli uomini ai tempi loro.Se fossero stati lì per correggere e riprendere i difetti umani avrebbe fatto un lungo discorso; ma , poiché il loro fine era un altro, egli voleva raccontare una storia molto lunga, ma assai piacevole, una delle magnificenze del Saladino. Se, dunque, per i vizi del proprio tempo, non potevano acquistare l’amicizia di qualcuno, almeno si sarebbero potuti dilettare, sentendo ciò che il Sultano aveva fatto.
Come alcuni affermavano, al tempo dell’imperatore Federico I(Barbarossa) i cristiani fecero la prima Crociata per riconquistare la Terra Santa.
Il Saladino, allora sultano di Babilonia, sentendone parlare, decise di voler vedere , di persona, i preparativi dei signori cristiani per quella crociata, per meglio attrezzarsi.
Sistemate le cose in Egitto, fingendo di andare in pellegrinaggio, con due uomini molto saggi e solo con tre servitori, sotto le sembianze di un mercante, si mise in cammino.
Dopo aver visitato molte province cristiane, attraversando la Lombardia, per superare i monti ed andare in Francia, tra Milano e Pavia, essendo già il vespro, incontrarono un gentiluomo, il cui nome era messer Torello di Stra di Pavia.
Costui con i cani e i falconi se ne andava a dimorare in un suo bel possedimento, presso il Ticino.
Messer Torello come vide i viaggiatori pensò che fossero gentiluomini e stranieri e desiderò onorarli.
Il Saladino fece domandare da un servitore quanto distassero da Pavia e se potevano ancora entrare nella città, data l’ora. Messer Torello rispose personalmente che ormai non potevano giungere nella città ad un’ora che consentisse loro di entrare.
Il Saladino gli chiese ,allora, di indicargli un albergo dove fermarsi per la notte, dato che erano stranieri.
Messer Torello rispose che l’avrebbe fatto accompagnare da un suo servitore.
Si avvicino al più fidato dei suoi uomini, gli dette tutte le istruzioni e lo mandò con loro.
Poi andò nel suo possedimento dove, subito ,come meglio potè, fece preparare una bella cena e mettere le tavole nel giardino. Poi si pose sulla porta ad attendere gli ospiti.
Il servitore, conversando, deviò il gruppo dei viaggiatori dalla strada che portava a Pavia e li condusse alla casa del suo padrone. Lì furono accolti con grande garbo.
Il Saladino, che era molto attento, si accorse dell’espediente usato dal cavaliere, che aveva temuto che potessero non accettare il suo invito. Rispose al saluto del padrone di casa e lo ringraziò per la grande cortesia ,usata nei suoi confronti.
Il cavaliere rispose che la sua cortesia era ben poca cosa rispetto a quella che avrebbero meritato, ma non c’era fuori di Pavia nessun luogo adatto ad ospitarli convenientemente.
Mentre messer Torello parlava, i suoi servitori, venuti intorno ai viaggiatori, li fecero smontare e sistemarono i cavalli. Poi condussero i tre gentiluomini nelle camere preparate per ospitarli, tolsero loro gli stivali e li rinfrescarono con ottimi vini, finché non giunse l’ora di cena.
Saladino e i compagni conoscevano il latino, per cui comprendevano bene ed erano ben compresi. Sembrava loro che il cavaliere fosse il più raffinato uomo e il più intelligente che avessero mai conosciuto.
A messer Torello, d’altra parte, sembrava che fossero uomini più importanti di come li aveva considerati prima e si rammaricava di non poterli onorare con un banchetto più ricco.
Pensò di poter rimediare la mattina seguente e, informato un servo di ciò che doveva fare, lo mandò a Pavia , dove tutte le porte erano aperte, da sua moglie, donna molto saggia e generosa.
Condotti i gentili uomini in giardino, chiese loro chi fossero.
Il Saladino rispose che erano mercanti cipriani e da Cipro andavano a Parigi, per fare degli acquisti.
Continuarono a ragionare per un certo tempo, finché non giunse l’ora di cena.
Su invito del padrone di casa si accomodarono a tavola e la cena fu servita. Al termine di essa furono tolte le tavole e gli ospiti furono accompagnati a riposare su bellissimi letti.
Giunta la notte si addormentarono tutti.
Frattanto il servitore si recò a Pavia e riferì alla donna l’ambasciata. Ella ,con garbo e signorilità, fece chiamare gli amici e i servitori affinché disponessero ogni cosa adatta ad un magnifico banchetto ,alla luce delle torce,
fece invitare al convito molti nobili cittadini, mettendo tutto in ordine , come il marito le aveva mandato a dire.
Il mattino seguente ,dopo che i gentiluomini si furono svegliati, messer Torello li condusse ad uno stagno vicino e mostrò loro come volavano i suoi falconi.
Il Saladino, subito dopo, chiese che qualcuno lo conducesse con i suoi compagni a Pavia in un buon albergo. Messer Torello si offrì di accompagnarli personalmente, dato che doveva recarsi anch’egli in città.
Tutti contenti si misero in cammino. Verso le nove giunsero in città, pensando di essere arrivati in un buon albergo, arrivarono alle casa di messer Torello, dove trovarono ben cinquanta gentiluomini pronti a riceverli.
Il Saladino e i compagni si resero conto di trovarsi in casa di messer Torello e lo ringraziarono per averli ospitati sia la sera prima che in quel giorno, anche se non glielo avevano chiesto.
M.Torello rispose che doveva ringraziare la fortuna che gli aveva dato la possibilità di accoglierli nelle sue case, ma se essi non gradivano di desinare con lui e con i suoi nobili ospiti, potevano liberamente andar via.
Il Saladino e i compagni ben volentieri si arresero e, smontati da cavallo, furono accompagnati nelle camere splendidamente apparecchiate. Si tolsero gli stivali, si rinfrescarono, poi si recarono nella sala da pranzo, dove furono loro servite, con ordine, tante deliziose vivande, che se fosse arrivato l’imperatore in persona ,non avrebbe potuto avere un’accoglienza migliore.
Il Saladino e i compagni, sebbene fossero gran signori e abituati al lusso,pure si meravigliarono dello sfarzo, sapendo che il cavaliere era un borghese, non un nobile.
Dopo pranzo, poiché faceva molto caldo, l gentiluomini di Pavia andarono a riposare.
Messer Torello rimase solo con i suoi tre ospiti. Perché vedessero tutte le cose che gli erano care fece chiamare la moglie, la quale venne avanti a loro bellissima e riccamente vestita, in mezzo ai suoi due figlioletti, che parevano angeli ,e garbatamente li salutò.
I tre, vedendola, si alzarono in piedi, la riverirono ,la fecero sedere tra loro con i figlioletti e fecero gran festa.
Allontanatosi il marito, domandò chi fossero e dove andassero ed essi risposero che l’avevano già spiegato al padrone di casa.
La donna, allora, sorridendo, li invitò ad accettare un suo piccolo dono, che avrebbe fatto portare per loro.
Fece portare per ciascuno due abiti, uno foderato di seta, l’altro di pelliccia, non abiti da mercanti ma da signori, e tre giubbe di seta e mutande. Li esortò a prenderli dicendo che così vestiva anche il marito.
Aggiunse che essi erano lontani dalle loro mogli, dovevano compiere un lungo viaggio ed avevano bisogno di indumenti freschi e puliti, anche se di poco valore.
I gentiluomini apprezzarono la cortesia della donna e la raffinatezza dei vestiti, non adatti a semplici mercanti, la ringraziarono e accettarono di buon grado.
Ritornato messer Torello, la moglie, affidandoli a Dio, si allontanò, dopo aver ordinato ai servi di rifornirli di tutto ciò di cui avevano bisogno. Dietro insistenza del padrone di casa ,si trattennero tutto il giorno.
Dopo aver riposato, cavalcarono un po’ per la città e, venuta l’ora di cena, con molti altri invitati cenarono lautamente.
Il mattino dopo, all’alba, si alzarono e trovarono, in luogo dei loro ronzini stanchi, tre grossi e forti cavalli, e, ugualmente, cavalli forti e freschi per i loro servitori.
Vedendo ciò ,il Saladino ,rivolgendosi ai compagni, disse di non aver mai visto un uomo così cortese e attento.
Aggiunse che al Sultano di Babilonia sarebbe bastato un solo cavallo per partire, non quanti gliene venivano offerti. Ma sapendo che non era possibile rinunziarvi, ringraziarono e montarono a cavallo.
Messer Torello, con molti compagni, li accompagnò per un lungo tratto fuori città, finché l Saladino, cui spiaceva di allontanarsi dal cavaliere, tanto gli stava simpatico, lo pregò di ritornare indietro.
Nell’accomiatarsi messer Torello volle precisare che non era affatto convinto che gli stranieri fossero dei mercanti. Il Saladino ,a conferma delle sue dichiarazioni ,gli rispose che, probabilmente, gli avrebbero fatto vedere la loro mercanzia.
Il Sultano partì ripromettendosi di ricompensare generosamente il cavaliere, se la guerra che stava per cominciare non gli avesse fatto perdere la vita. Insieme ai suoi compagni elogiò molto l’uomo, la sua donna e la loro magnifica ospitalità.
Dopo aver girato, con gran fatica, tutta l’Europa , s’imbarcò e se ne tornò ad Alessandria, disponendosi alla difesa.
Messer Torello se ne tornò a Pavia e si continuò a chiedere chi fossero veramente quei tre, senza avvicinarsi mai alla verità.   
Venuto il tempo della prima Crociata, messer Torello, nonostante le lacrime e le preghiere della sua donna, decise di partire.
Mentre stava per montare a cavallo, disse alla moglie, che amava immensamente “ Donna, io parto per la Crociata sia per l’onore che per la salvezza dell’anima; ti raccomando i nostri averi e il nostro onore. Parto e sono sicuro di tornare, ma non ne ho la certezza, perché possono accadere tante cose. Voglio che tu mi faccia una promessa, nel caso che tu non abbia notizie sicure che sono vivo, che mi aspetti un anno, un mese e un giorno prima di rimaritarti, iniziando da questo giorno in cui sto partendo”.
La donna, piangendo, gli assicurò che lo amava più della sua vita e non si sarebbe mai risposata. Poteva vivere e morire sicuro che ella avrebbe vissuto e sarebbe morta moglie di messer Torello.
Il marito, turbato, le disse che era sicuro del suo amore ma, essendo una donna giovane, bella e molto nobile, molti gentiluomini, se egli fosse ritenuto morto, l’avrebbero chiesta in moglie. Sicuramente i fratelli e i parenti l’avrebbero spinta ad un nuovo matrimonio.
La donna promise che avrebbe rispettato la volontà del marito, poi l’abbracciò e, sfilatosi un anello dal dito, glielo diede, dicendo “Se dovessi morire prima del vostro ritorno, vi ricorderete di me, vedendolo”.
Egli lo prese, montò a cavallo e, salutati tutti, si mise in viaggio.
Giunto a Genova, si imbarcò con la sua compagnia su una galea e, in poco tempo, giunse ad Acri, dove si congiunse con un altro esercito cristiano.
Nel mentre scoppiò nell’esercito cristiano una terribile epidemia che, per la fortuna o per le arti magiche del Sultano, fece morire quasi tutti i Crociati.
Il Saladino, quasi senza colpo ferire, catturò i pochi Cristiani sopravvissuti. Tra costoro c’era anche messer Torello, che fu condotto in prigione ad Alessandria. Colà, senza che fosse riconosciuto, per sopravvivere  cominciò ad addestrare uccelli (falconi) per la caccia, cosa in cui era maestro.
La notizia pervenne al Saladino, che lo tolse di prigione, lo nominò suo falconiere.e lo chiamò con l’appellativo di “ Cristiano”, senza riconoscerlo. Neppure messer Torello riconobbe il Sultano.
Tutto concentrato nel pensiero di voler ritornare a Pavia, più volte cercò di fuggire, senza riuscirvi.
Essendo venuti alcuni ambasciatori genovesi dal Saladino per riscattare dei loro cittadini, pensò di scrivere una lettera alla moglie per dirle che era vivo, che sarebbe tornato e le raccomandò di aspettarlo.
Consegnò la lettera ad uno degli ambasciatori, che lo conosceva, e lo pregò di consegnarla nelle mani dell’abate di San Pietro in Cielo d’Oro, che era suo zio.
Stando così le cose, un giorno, messer Torello, mentre discuteva col Sultano dei suoi uccelli, sorrise facendo con la bocca un movimento che il Sultano aveva notato quando era a Pavia, ospite del cavaliere.
Il Saladino, sospettando che si trattasse di messer Torello, gli chiese se era di Ponente. L’uomo gli rispose che era un poveretto, proveniente dalla città di Pavia, in Lombardia.
Udito ciò, il Saladino ebbe la certezza che si trattava proprio di messer Torello. Senza dir nulla fece portare i suoi vestiti in una camera,lo condusse lì e gli chiese se aveva mai visto quelle vesti.
Messer Torello guardò attentamente e vide che erano le vesti che la sua donna aveva donato, ma non ne era sicuro. Prudentemente rispose “Non ne conosco nessuna, ma, in verità, due somigliano agli abiti che indossai con tre mercanti che capitarono a casa mia”.
Allora il Saladino lo abbracciò affettuosamente ,dicendo “Voi siete messer Torello di Stra ed io sono uno dei tre mercanti ai quali la vostra donna donò queste robe. E’ venuto il momento di rivelarvi quale sia la mercanzia, come vi promisi nell’allontanarmi da voi”.
Messer Torello fu lietissimo di aver ospitato un signore così importante e si vergognò di averlo ricevuto poveramente.
Il Sultano gli fece una gran festa, lo fece vestire con abiti reali e lo portò al cospetto dei suoi cortigiani,ai quali comandò di onorarlo e di averlo caro; cosa che tutti fecero ed, in particolare, i due signori, che l’avevano accompagnato nel viaggio.
Tutte quelle cose distrassero il cavaliere dal pensiero di Pavia, anche se sperava fermamente che la lettera fosse pervenuta a suo zio.
Il giorno che l’esercito dei Cristiani fu conquistato dalle truppe del Saladino, morì e fu seppellito un cavaliere provenzale poco importante, il cui nome era messer Torello di Dignes.
Poiché messer Torello da Stra, invece, era molto conosciuto nell’esercito per la sua nobiltà , chiunque udì dire che messer Torello era morto ,credette che si trattasse di messer Torello di Stra e non di messer Torello di Dignes.
Molti italici, ritornando in Italia, riferirono la cosa e vi furono alcuni che, addirittura, sostennero di averlo visto morto e di essere stati presenti alla sepoltura.
La notizia arrecò grande dolore alla sua donna, ai parenti e a tutti coloro che l’avevano conosciuto.
Sarebbe troppo lungo descrivere la sofferenza e la tristezza della sua donna, la quale ,dopo alcuni mesi, aveva cominciato a dolersi di meno.
Il fratelli di lei, ben presto, sollecitati dalle molte proposte di matrimonio da parte dei più nobili uomini della Lombardia, cominciarono a spingerla a rimaritarsi.
Non potendo più resistere alle pressioni dei parenti, promise che si sarebbe rimaritata ,passato il periodo di attesa ,promesso al marito. Mancavano soltanto otto giorni al termine dopo il quale ella doveva prendere marito.
Un giorno in Alessandria messer Torello vide uno che si era imbarcato sulla galea diretta a Genova con gli ambasciatori genovesi. Lo fece chiamare e gli chiese se avevano fatto buon viaggio e quando erano giunti a Genova.
Il giovane rispose che la galea aveva fatto un pessimo viaggio, come aveva sentito a Creta, dove era rimasto. Infatti, mentre la galea era vicina alla Sicilia, si era levata una tramontana fortissima che l’aveva sbattuta sulle coste dell’Africa; nel naufragio non si era salvato nessuno ed erano morti anche due suoi fratelli.
Messer Torello credette ad ogni cosa e comprese che a Pavia non era arrivata nessuna sua notizia, ben sapendo che la donna stava per essere rimaritata. Infatti stava per scadere il termine che agli aveva chiesto alla moglie.
Cadde in tanto dolore che si mise a letto senza voler mangiare, deciso a morire.
Come seppe la cosa il Saladino, che l’amava molto, si recò da lui.
Saputa la ragione del suo dolore e della sua malattia, si rammaricò e gli promise che si sarebbe adoperato affinchè egli potesse essere a Pavia entro il termine fissato.
Messer Torello, che aveva una fiducia cieca nel Saladino, lo cominciò a sollecitare per fargli mantenere la promessa.
Il Sultano ordinò ad un negromante molto esperto di trovare il modo di mandare Torello a Pavia sopra un letto.
Il negromante assicurò che sarebbe stato fatto, bisognava, però, che il cavaliere dormisse.
Il Saladino ritornò dall’amico e, avendolo trovato disposto a morire pur di ritornare a Pavia, gli disse “ Messer Torello, se amate la vostra donna e temete che possa divenire di un altro, non vi posso rimproverare, perché ella è veramente la miglior donna di tutte, non solo per la bellezza ,che è un fiore caduco, ma per costumi e per maniere. Mi sarebbe stato carissimo che foste restato qui con me, grazie alla fortuna, per tutto il tempo della nostra vita, aiutandomi nel governo del regno. Ma, sapendo che desiderate soltanto o morire o essere a Pavia al termine stabilito, avrei voluto mandarvi a casa vostra con tutti gli onori che meritate.
Poiché ciò non è possibile vi ci manderò nel modo che vi ho detto”.
Messer Torello gli rispose “Signor mio, ho piena fiducia nella vostra benevolenza, che mi avete già dimostrata. Vi prego, perché ho deciso, che ciò che mi dite si faccia subito, perché domani è l’ultimo giorno nel quale debbo essere atteso”.
Il Saladino, il giorno seguente,attendendo di mandarlo via al sopraggiungere della notte, fece preparare nella sala un bellissimo letto, con materassi di velluto e drappi d’oro, secondo l’usanza. Sopra vi fece porre una coperta lavorata con cerchi ricamati con perle grossissime e bellissime pietre preziose, che a Pavia fu considerata un vero tesoro, e due guanciali adeguati a tale letto.
Fatto ciò, comandò che all’amico, ormai perfettamente ristabilito, fosse fatto indossare un abito saraceno, il più bello che si fosse mai visto,e in testa gli fu posto, all’uso saraceno, uno splendido turbante.
Essendo ormai tardi, il Saladino si recò nella camera del cavaliere e, piangendo, lo salutò ,dicendogli che lo lasciava partire in nome dell’affetto che li legava. Doveva , però, promettere che, sistemate le sue cose in Lombardia, almeno una volta, sarebbe ritornato da lui, per fargli piacere. Frattanto gli chiedeva di inviargli delle lettere per informarlo di tutto e per chiedergli qualunque cosa volesse.
Messer Torello, piangendo, lo rassicurò che mai avrebbe potuto dimenticare i benefici ricevuti e avrebbe fatto tutto ciò che gli aveva chiesto.
Si abbracciarono ed andarono nella sala dove era stato preparato il letto.
In gran fretta, poiché era molto tardi, venne il medico e gli fece bere la pozione; subito il cavaliere si addormentò.
Così addormentato, per ordine del Saladino, fu posto sul bel letto, su cui il sovrano fece deporre una grande e bella corona di gran valore, come dono per la sua donna. Poi mise al dito del dormiente un anello con un rubino tanto lucente che pareva una torcia accesa, di valore inestimabile. E ancora, gli fece mettere intorno alla vita una spada, decorata con un fermaglio nel quale erano incastonate perle mai viste, con altre pietre preziose.
Ai suoi due lati fece porre due grandissimi bacini d’oro, pieni di dobloni, e molte reti piene di perle, anelli, cinture ed altre cose. Fatto ciò baciò l’amico e diede ordine al negromante di procedere.
Subito il letto ,con tutto messer Torello, fu inviato e il Saladino rimase con i suoi baroni a parlare della vicenda.
Messer Torello era già stato posato nella chiesa di San Pietro in Ciel d’Oro a Pavia,con tutti i gioielli e gli ornamenti suddetti, e ancora dormiva quando, all’alba, entrò nella chiesa il sagrestano con un lume in mano e vide il ricco letto. Sorpreso e spaventato fuggì.
L’abate e i monaci, vedendolo fuggire, si stupirono e chiesero il motivo. L’abate lo rimproverò dicendogli che non era un fanciullo e conosceva bene quella chiesa, non capiva perché fuggiva.
Decise ,dunque, di andare a vedere e accese tutti i lumi. L’abate e i monaci entrarono nella chiesa, dove trovarono quel letto meraviglioso ,sul quale il cavaliere dormiva.
Mentre tutti guardavano timidamente il letto, senza accostarsi, messer Torello, finito l’effetto della pozione magica, si svegliò ed emise un gran sospiro.
Tutti, spaventati, fuggirono chiedendo aiuto a Dio.
Il gentiluomo, aperti gli occhi, comprese che era giunto lì dove il Saladino lo aveva mandato.
Si alzò, guardò ciò che aveva intorno e riconobbe la magnificenza del Sultano. Senza muoversi, vedendo i monaci fuggire, cominciò a chiamare per nome l’abate, dicendogli che era suo nipote.
L’abate udendolo, si spaventò ancora di più perché lo riteneva morto molti mesi prima.
Alla fine, comunque, si fece il segno della croce ed andò da lui.
A lui messer Torello disse di esser vivo e di essere ritornato d’oltremare.
L’abate, sebbene avesse la barba lunga e fosse vestito da saraceno, dopo un po’ lo riconobbe e gli disse “ Figlio mio , non ti devi meravigliare della nostra paura, perché tutti qui credono che tu sia morto, tanto che ti posso dire che madonna Adelaide, tua moglie, vinta dalle preghiere e dalle minacce dei suoi parenti, contro la sua volontà, è promessa; questa mattina deve andare dal nuovo marito per celebrare le nozze.
La festa è già apparecchiata”.
Messer Torello, accolto festosamente, raccomandò a tutti i monaci di non parlare con nessuno finché non li avesse autorizzati.
Poi, messi in salvo i gioielli, raccontò all’abate ciò che era avvenuto e gli domandò chi fosse il nuovo marito della sua donna. Infine ,lo pregò di condurlo con lui alle nozze, anche se ,di solito, i religiosi non partecipavano ai banchetti nuziali.
Lo zio lo assecondò volentieri e, sopraggiunto il giorno, mandò a dire al nuovo sposo che voleva essere presente alle nozze con un compagno.
Il gentiluomo rispose che ne era contento.
Venuta l’ora del pranzo, messer Torello, vestito da saracino , con l’abate se ne andò alla casa del novello sposo, senza che nessuno, pur guardando con curiosità ,lo riconoscesse.
L’abate, dal canto suo, diceva a tutti che quel tale che stava con lui era un saraceno, mandato,come ambasciatore, dal sultano al re di Francia.
Il saraceno ,a tavola, fu fatto sedere proprio di fronte alla sua donna, che egli guardava con grande
gioia ,vedendola turbata per quelle nozze.
Anch’ella, di tanto in tanto , lo guardava, senza riconoscerlo, data la lunga barba, lo strano abito e la convinzione che il marito fosse morto.
Quando al cavaliere sembrò giunto il momento di vedere se lo ricordava, prese in mano l’anello che gli era stato donato dalla moglie, al momento della partenza.
Disse al giovinetto ,che serviva, di riferire alla donna che nel suo paese c’era l’usanza che ,al banchetto di nozze, la sposa, se era presente un forestiero, gli mandasse, piena di vino, la coppa con la quale beveva.
Dopo aver bevuto, il forestiero rimandava indietro la coppa, dopo averla ricoperta, e la sposa beveva il rimanente.
Il giovinetto fece l’ambasciata alla donna, la quale, garbatamente, credendo che il forestiero fosse un personaggio importante, volle mostrare di essere lieta della sua venuta. Gli fece, dunque, portare una coppa dorata che aveva davanti, dopo averla riempita di vino.
Messer Torello si mise in bocca l’anello e, dopo aver bevuto, lo lasciò cadere nella coppa ,senza che nessuno se ne accorgesse; poi la ricoprì e la mandò alla donna.
Madonna Adelaide, come voleva l’usanza di lui, la scoprì, se la mise in bocca e vide l’anello.
Senza fare alcun commento, riconobbe che era l’anello che aveva dato al marito al momento della partenza.
Lo prese e guardò fissamente colui che credeva uno straniero.
Lo riconobbe e, diventata quasi furiosa, gettata a terra la tavola che aveva davanti, gridò “Questi è il mio signore, questi è veramente messer Torello”.
Corse verso di lui, incurante degli abiti e delle tavole imbandite e l’abbracciò tanto strettamente che si staccò da lui soltanto quando egli stesso le disse che c’era ancora molto tempo per abbracciarsi.
Nella gran confusione che si era creata, messer Torello pregò che tutti facessero silenzio.
Poi cominciò a raccontare tutto ciò che era avvenuto, dal momento della partenza fino a quel giorno.
Infine, disse che quel gentiluomo che stava per sposare sua moglie, credendolo morto, non si doveva dolere di restituirgliela, essendo egli vivo.
Il nuovo sposo, sebbene rammaricato, rispose ,amichevolmente, che il cavaliere poteva fare ciò che voleva.
La donna lasciò gli anelli e la corona avute dal nuovo sposo e si mise l’anello che aveva preso dalla coppa, insieme con la corona mandatale dal Sultano.
Usciti dalla casa, con tutta la schiera degli invitati se ne andarono alla casa di messer Torello, dove festeggiarono con tutti i presenti, che gridavano al miracolo.
Messer Torello distribuì i suoi gioielli in parte a colui che aveva fatto le spese delle nozze ,in parte all’abate e a molti altri. Poi inviò alcuni messi al Saladino per comunicargli il suo felice ritorno, dichiarandosi per sempre suo amico e servitore.
Per molti anni visse con la sua donna, usando verso tutti molta cortesia.
Quella fu la fine delle sventure di messer Torello e della sua cara sposa e la ricompensa per le loro liete cortesie.
Tali cortesie molti ,in quel tempo, si sforzavano di fare e benché avessero molte ricchezze, le facevano così male che, prima di farle, se le facevano pagare più di quanto valevano. Non si dovevano, perciò, meravigliare se non ne ricavavano alcuna ricompensa.










venerdì 11 dicembre 2015

DECIMA GIORNATA - NOVELLA N.8

          DECIMA GIORNATA – NOVELLA N.8

Sofronia, credendo di essere moglie di Gisippo, diventa moglie di Tito Quinzio Fulvo e con lui se ne va a Roma, dove arriva Gisippo in povero stato e, credendo di essere disprezzato da Tito, afferma di aver ucciso un uomo, per essere condannato a morte. Tito lo riconosce e, per salvarlo, dice di aver ucciso l’uomo; vedendo ciò, colui che aveva commesso il fatto, si dichiara colpevole. Per la qual cosa vengono tutti liberati da Ottaviano e Tito da in moglie a Gisippo la sorella e divide con lui tutte le sue ricchezze.

Dopo che Pampinea aveva smesso di parlare e tutte, soprattutto la ghibellina,  avevano commentato il comportamento di re Pietro, Filomena, per ordine del re, cominciò .
Disse che tutti non ignoravano che i re, quando volevano, sapevano essere magnifici e, sicuramente, facevano bene a comportarsi come conveniva loro.
Se avevano elogiato con tante belle parole le opere del re, certamente avrebbero apprezzato molto di più le opere compiute da due giovani, lor pari, somiglianti o addirittura maggiori di quelle del re.
Voleva, dunque, raccontare un’impresa magnifica e degna di lode, compiuta da due cittadini amici.
Nel tempo in cui Ottaviano, non ancora divenuto imperatore, comandava Roma, nel primo triumvirato, visse in Roma un gentiluomo, chiamato Publio Quinzio Fulvo.
Costui aveva un figlio ,di nome Tito Quinzio Fulvo, di grande ingegno, che mandò a studiare filosofia ad Atene. Lo raccomandò, quanto più potè, ad un ateniese, suo amico di vecchia data, chiamato Cremete, che lo ospitò nella propria casa, dove fu alloggiato insieme al figlio, di nome Gisippo.
Cremete affidò l’istruzione di entrambi i giovani ad un filosofo, chiamato Aristippo.
Tra i due giovani, che crebbero insieme, nacque una fratellanza ed un’amicizia così grande che durò fino alla morte. Ognuno di loro aveva pace solo quando erano insieme. Cominciati gli studi, ciascuno ,dotato di altissimo ingegno, apprendeva la filosofia, ottenendo grandissime lodi, in pari misura.
Vissero così per tre anni con grandissimo piacere di Cremete, che li considerava entrambi suoi figli.
Quasi trascorsi  tre anni, Cremete, ormai vecchio, morì.
I due giovani soffrirono ,in egual modo, come se avessero perso il padre e i parenti e gli amici di Cremete non sapevano chi consolare di più.
Dopo alcuni mesi, i parenti, gli amici e lo stesso Tito spinsero Gisippo a prendere moglie e gli trovarono ,come sposa, una bellissima giovane, di origine molto nobile, cittadina di Atene, il cui nome era Sofronia, di quasi quindici anni.
Avvicinandosi il tempo delle nozze, Gisippo pregò Tito di andare con lui a vederla, perché non l’aveva ancora vista. Quando giunsero a casa di lei, la fanciulla si sedette in mezzo a loro. Tito cominciò a guardarla attentamente e provò una grande attrazione per lei. Ogni parte di Sofronia gli piaceva straordinariamente e , senza darlo a vedere, se ne innamorò follemente.
Dopo essersi trattenuti per un certo tempo se ne ritornarono a casa. Qui Tito, ritiratosi nella sua camera, cominciò a pensare alla giovane e si accendeva sempre di più. Tristi pensieri lo assillavano. Considerava gli onori che aveva ricevuti da Cremete e dalla sua famiglia e l’amicizia che lo legava a Gisippo, a cui la fanciulla era promessa. Perciò , si diceva, la doveva considerare come una sorella ,frenare il desiderio dei sensi e rivolgere altrove i suoi pensieri. Quello che desiderava non era onesto e la vera amicizia richiedeva che egli abbandonasse quell’amore sconveniente.
Poi, ricordandosi di Sofronia, pensava il contrario, e cioè che le leggi dell’amore erano più potenti delle altre e rompevano non solo le leggi dell’amicizia ma anche quelle divine; era già capitato tante volte che un padre aveva amato la figlia, il fratello la sorella, la matrigna il figliastro, cose sicuramente più mostruose di un amico che amava la moglie di un altro. Egli era giovane e doveva abbedire alle leggi dell’amore, l’onestà apparteneva agli uomini più maturi. La fanciulla meritava di essere amata da tutti per la sua bellezza. Egli non l’amava perché era la moglie di Gisippo, ma per la sua bellezza e l’avrebbe amata di chiunque fosse stata.La fortuna aveva sbagliato a concederla all’amico, invece che ad un altro,e Gisippo doveva essere contento perché l’amava lui e non un altro.
Tra mille ragionamenti consumò quel giorno, la notte seguente e molti altri giorni e notti, perdendo il sonno e l’appetito, tanto che per la debolezza fu costretto a stare a letto.
Gisippo, che l’aveva visto prima preoccupato e poi infermo, cercava di recargli conforto e aiuto, senza allontanarsi mai da lui e gli chiedeva continuamente la causa della sua malattia.
Tito gli raccontava un sacco di frottole per risposta.
Alla fine, costretto dall’amico, gli disse “ Gisippo,se agli Dei fosse piaciuto, avrei preferito morire, piuttosto che vivere, pensando che la fortuna mi ha spinto ad un’azione per cui provo grandissima vergogna.
Siccome a te non devo celare niente, ti svelerò la causa della mia vergogna, non senza gran rossore”.
E, cominciando daccapo, gli rivelò il motivo della battaglia di tutti i suoi pensieri e il suo desiderio di morire per amore di Sofronia. Aggiunse che sapeva bene quanto ciò fosse sconveniente e per punizione aveva deciso di voler morire, cosa che sarebbe successa presto.
Gisippo, udendo quelle parole e vedendo il pianto disperato, rimase sovrapensiero, essendo anch’egli preso dalla bellezza della fanciulla. Poi decise che la vita dell’amico gli era più cara di Sofronia e così, turbato da quelle lacrime, piangendo anch’egli, gli rispose “ Tito, hai violato la nostra amicizia tenendomi a lungo nascosta la tua forte passione. I pensieri disonesti non devono essere celati all’amico, che amico sarebbe se si rallegrasse soltanto delle cose oneste e non si preoccupasse di aiutare l’altro in difficoltà?
Ritornando al presente, non mi meraviglio se tu ami ardentemente Sofronia , a me promessa, mi meraviglierei del contrario, conoscendo la sua bellezza e la sua nobiltà d’animo. E ,quanto più ami Sofronia, tanto più ti lagni che la fortuna l’abbia concessa a me, sebbene non lo dici.
Ti sembra che se fosse stata di un altro e non mia avresti potuto amarla onestamente.
Invece è stato molto meglio che la fortuna l’abbia concessa a me, perché chiunque altro l’avesse amata, l’avrebbe voluta tutta per sé. Invece io, siccome siamo amici da sempre, non ricordo di aver mai avuto alcuna cosa che non fosse tua, come mia.
Se la cosa fosse ormai tanto avanti da non poter fare altrimenti, la dividerei con te. ma siamo ancora in tempo a fare in modo che ella possa essere soltanto tua.
E così farò in nome dell’amicizia, che mi permette di fare onestamente una cosa che tu vuoi.
E’ vero che Sofronia è mia promessa sposa; che io l’amavo molto e aspettavo con grande gioia le nozze. Ma, poiché tu l’ami molto più di me e con maggiore ardore la desideri, sta tranquillo che ella verrà nella mia camera come tua moglie non come mia.
Lascia , dunque, i tristi pensieri, caccia la malinconia, recupera la salute, l’allegria e ,da questo momento,
aspetta di godere del tuo amore che è più forte del mio”.
Tito, udendo parlare così Gisippo, da un lato gioiva ,perché nasceva per lui una speranza, dall’altro, a ragione, provava vergogna, sembrandogli ancor più sconveniente accettare la liberalità dell’amico.
Non smettendo di piangere, gli rispose che l’amicizia dimostratagli gli faceva capire ancor più chiaramente che cosa doveva fare. Dio non avrebbe permesso che la donna che aveva donato a Gisippo, perché più degno, divenisse sua. Aggiunse che se l’avesse voluto darla a lui gliel’avrebbe concessa. Doveva, dunque, essere lieto di essere stato scelto, accettare il dono e lasciare a lui le lacrime.
Infine, gli chiese di lasciarlo consumare nelle lacrime, le quali, alla fine, avrebbe vinto o esse avrebbero vinto lui, facendolo morire e liberandolo così dalla pena.
Gisippo, prontamente, rispose “Tito, se l’amicizia mi può permettere di spingerti a seguire il mio desiderio, io intendo adoperarla, e se tu non mi obbedirai volentieri, con la forza, che un amico deve usare, farò in modo che Sofronia sia tua. So bene quanto possono le forze dell’amore e so che molte volte hanno condotto alla morte gli infelici amanti. Vedo te così vicino ad essa che non potresti più tornare indietro, né vincere le lacrime, ma ti aggraveresti e presto verresti meno e , sicuramente dopo poco io ti seguirei.
Dunque, devi vivere se ti è cara la mia vita. Sofronia sarà tua, perché non potresti facilmente trovare un’altra che ti piacesse quanto lei. Io rivolgerò il mio amore ad un’altra, così avrò accontentato te e me.
Non sarei così ben disposto se le mogli si trovassero con la difficoltà con cui si trovano gli amici.
Poiché posso trovare più facilmente una moglie piuttosto che un altro amico, voglio , non perdere lei donandola a te, ma consegnandola ad un altro me stesso migliore di me, trasferirla a te, piuttosto che perderti.
Perciò ti prego, liberandoti di questa afflizione, di consolare ,nello stesso tempo, te e me, e di buon grado di prepararti a prendere la cosa amata, che il tuo amore desidera”.
Tito, pur trattenuto ancora dalla vergogna, spinto dall’amore e dall’insistenza dell’amico, disse “ Gisippo, poiché la tua liberalità è tanta che vince la mia giusta vergogna, farò come tu vuoi, come uomo che sa di ricevere da te non solo la donna amata, ma la stessa vita.
Vogliano gli dei che ti possa dimostrare quanto ti sono grato perché sei nei miei confronti più pietoso di quanto lo sono io stesso”.
Gisippo , allora, disse “ Tito, perché la cosa vada a buon fine, bisogna seguire questa strada. Come ben sai, dopo lunghe trattative tra i miei parenti e quelli di Sofronia, ella mi è stata promessa. Se ora io andassi a dire di non volerla per moglie, ne nascerebbe un grandissimo scandalo e turberei i miei e i suoi parenti. Questo non mi preoccuperebbe se sapessi per certo che ella diventasse tua moglie. Ma temo che potrebbero darla in sposa ad un altro, e tu avrai perduto quello che io non avrò acquistato.
Mi sembra, dunque, il caso, se sei d’accordo, che la conduca in casa come mia moglie e celebri le nozze. Poi, di nascosto, tu giacerai con lei come se fosse tua moglie. A tempo e a luogo opportuno riveleremo il fatto.
Se la cosa piacerà ,sarà tutto a posto, se non piacerà, sarà un fatto compiuto e tutti si dovranno per forza adattare”.
A Tito piacque la proposta. Dopo la guarigione di Tito, avendo già tutto organizzato, Gisippo portò Sofronia a casa come sua moglie e fece una gran festa di nozze.
Giunta la notte, le donne lasciarono la sposa nel letto del marito e se ne andarono.
  La camera di Tito era congiunta a quella di Gisippo ,tanto che si poteva andare dall’una all’altra.
Gisippo chiamò Tito dicendogli di andarsi a coricare con la sua donna.
Tito, vergognandosi ,non voleva andare, ma Gisippo, dopo aver discusso a lungo, ve lo mandò.
Giunto nel letto, il giovane, quasi scherzando, domandò alla donna se voleva essere sua moglie.
Ella, credendo che fosse Gisippo, rispose di si .Tito le pose al dito uno splendido anello e disse “ Io voglio essere tuo marito”.
Consumato il matrimonio, si amarono appassionatamente, senza che né lei né gli altri si accorgessero che era un altro e non Gisippo che giaceva con lei.
Mentre il matrimonio di Tito e Sofronia procedeva in tal modo, Publio, padre di lui, morì.
Gli fu scritto di ritornare immediatamente a Roma, per curare i suoi interessi. Egli decise, d’accordo con Gisippo, di andare a Roma e di condurre con sé Sofronia, cosa che non si poteva fare senza informarla di come stessero le cose. Perciò un giorno la chiamarono e le rivelarono tutto.
Ella, dopo averli guardati sorpresa, scoppiò a piangere, rammaricandosi dell’inganno di Gisippo.
Senza far commenti, andò a casa sua e a suo padre e sua madre narrò l’inganno che avevano subito, affermando che era la moglie di Tito e non di Gisippo, come tutti credevano.
Il padre ritenne il fatto gravissimo e si lamentò moltissimo con i parenti di Gisippo, che fu aspramente rimproverato ed odiato da tutti.
Gisippo, dal canto suo, affermava di aver fatto la cosa giusta ed i parenti di Sofronia gli dovevano essere grati perché l’aveva maritata ad un uomo migliore di sé stesso.
Tito, che sentiva tutte le lamentazioni, ne provava gran disagio.
Egli conosceva bene l’animo degli ateniesi e sapeva che avrebbero continuato a lamentarsi all’infinito, se non avessero avuto delle risposte. Perciò, avendo animo romano e senno ateniese, con molto garbo fece radunare i parenti di Gisippo e quelli di Sofronia in un tempio.
Entrato lì, accompagnato solo da Gisippo, così parlò ai presenti “ Molti filosofi credono che gli dei immortali dispongano le opere dei mortali, per cui, secondo alcuni, ciò che è accaduto e accadrà nel mondo è stabilito dalla volontà degli dei, ed è necessario. Altri ritengono che lo stato di necessità riguardi soltanto le cose che già sono state fatte. Si capisce che non è possibile cambiare le cose già accadute, perciò è più saggio credere che gli dei governino per l’eternità e senza alcun errore noi e le nostre cose. Si può ,dunque, ben vedere come sia presuntuoso e da bestie pensare di cambiare ciò che essi hanno disposto e meritano grandi punizioni coloro che si lasciano trasportare dall’ardire.
Tra questi ci siete a mio giudizio, tutti voi, se avete detto e continuate a dire che Sofronia è diventata mia moglie, mentre voi l’avevate data a Gisippo. Non considerate ciò che era stato disposto ab eterno e cioè che ella non divenisse di Gisippo ma mia, così come appunto è accaduto.
Ma parlare della provvidenza e dell’intervento degli Dei pare a molti difficile da comprendere, supponendo che gli Dei non si impiccino affatto delle cose degli uomini. Perciò voglio considerare le opinioni degli uomini a riguardo ed esaminare due cose molto contrarie ai miei costumi. L’una consiste nell’elogiare me, l’altra nel biasimare gli altri, senza allontanarmi dalla verità.
I vostri rimproveri, dovuti più alla rabbia che alla ragione, con continui mormorii, criticano e condannano Gisippo che mi ha data, con sua decisione, costei in moglie, mentre voi l’avevate data a lui.
Per la sua decisione ritengo che egli sia da elogiare sommamente per due motivi. L’uno perché ha fatto ciò che un amico deve fare; l’altra perché si è comportato più saggiamente di voi.
Non voglio spiegare ora ciò che le sante leggi dell’amicizia vogliono che un amico faccia per l’altro. Ma voglio soltanto ricordarvi che il legame dell’amicizia è più forte di quello del sangue e della parentela, perché gli amici ce li scegliamo, i parenti ce li dà la fortuna.
Nessuno, dunque, si deve meravigliare se Gisippo amò più la mia vita che la vostra benevolenza, essendo mio amico. E ,inoltre, egli è stato più saggio di voi, che mi sembra non conosciate la provvidenza degli dei e molto meno gli effetti dell’amicizia.
Infatti, avevate deciso di dare Sofronia a Gisippo, giovane e filosofo. Gisippo ha deciso di darla ad un giovane e filosofo. Decideste di darla ad un ateniese, Gisippo ad un romano. Decideste di darla ad un giovane nobile, Gisippo ad uno più nobile; decideste di darla ad un giovane ricco, Gisippo ad uno ricchissimo; decideste di darla ad un giovane che non solo non l’amava, ma la conosceva appena, Gisippo la dette ad un giovane che l’amava più della propria vita.
E che quello che dico sia vero si può facilmente verificare. E’ vero ,infatti, che sono giovane e filosofo come Gisippo, che ho la sua stessa età, che abbiamo fatto gli stessi studi. E’ vero che egli è ateniese ed io romano.
Se si discuterà della gloria delle due città ,dirò che io sono di una città libera ed egli di una città tributaria; io di una città signora di tutto il mondo, egli di una città che obbedisce all’altra; io di una città fiorentissima per le armi, l'impero e gli studi, mentre egli potrà lodare la sua solo per gli studi.
Inoltre, sebbene qui mi vediate come uno studente molto umile, non sono nato dalla feccia del popolazzo di Roma. Le mie case e i luoghi pubblici di Roma sono pieni delle immagini dei miei antenati , gli Annali romani sono pieni dei trionfi che i Quinzi hanno condotto sul Campidoglio e la loro gloria è ancora fiorente.
Per pudore taccio delle mie ricchezze perché ricordo l’onesta povertà degli antichi nobili romani, mentre io, non come avido, ma come amato dalla fortuna, ne abbondo.
So che avevate caro l’avere per parente Gisippo, che era ed è di qui (ateniese), ma non vi devo essere meno caro io che sono di Roma. Pensate ,infatti, che avrete in me un ottimo ospite e un utile ed autorevole protettore sia nelle faccende pubbliche che in quelle private.
Dunque, considerando razionalmente il tutto, chi loderà i vostri consigli più di quelli di Gisippo? Certamente nessuno. Sofronia è ben maritata a Tito Quinzio Fulvo, nobile, antico e ricco cittadino di Roma e amico di Gisippo, perciò chi se ne duole sbaglia e non sa quello che fa.
Alcuni potranno dire che non si rammaricano del fatto che Sofronia è moglie di Tito ma del come lo è diventata, furtivamente, senza che né amici, né parenti lo sapessero. Ciò non deve meravigliare.
Volentieri tralascio quelle che si sono maritate contro la volontà dei padri, quelle che sono fuggite con gli amanti e sono state prima amiche che mogli, e quelle che con la loro gravidanza e i parti hanno palesato il loro matrimonio, che è stato accettato per necessità, prima che con le parole e si è fatta di necessità virtù.
A Sofronia non è accaduto ciò, anzi, con discrezione e onestamente, è stata data da Gisippo a Tito, anche se, secondo alcuni, non ne aveva il diritto. Queste sono lagnanze di poco conto.
La fortuna ora usa nuove strade per ottenere i suoi scopi. Non mi devo preoccupare se il calzolaio, piuttosto che il filosofo,portò a buon fine i fatti miei, devo solo ringraziarlo. Se Gisippo ha ben maritato Sofronia, lamentarsi del modo e di lui è cosa stolta e inutile. Se non vi fidate del suo senno, evitate che possa maritare altre donne in futuro e ringraziatelo per adesso.
Dovete sapere che non cercai né con l’astuzia, né con l’inganno, di macchiare l’onestà di Sofronia e la nobiltà del vostro sangue. Sebbene la sposai occultamente, non andai come un ladro o come un nemico a toglierle la verginità, rifiutando di imparentarmi con voi. Ma ,acceso dalla sua bellezza e dalla sua virtù, dovetti agire di nascosto, per paura che voi non me l’avreste mai concessa.
Ora posso svelare il segreto, conosciuto solo da Gisippo. Sebbene ardentemente l’amassi, mi unì a lei non come amante, ma come marito, non avvicinandomi a lei prima di averla sposata, domandandole se mi voleva come marito, con le dovute parole e con l'anello, come ella stessa può testimoniare, ed ella mi rispose di si.
Se ella si ritiene ingannata, deve essere rimproverata lei che non mi ha chiesto chi fossi, non io.
Dunque, questo è il gran male, il gran peccato, compiuto da Gisippo, amico, e da me, innamorato, che Sofronia sia diventata la moglie di Tito Quinzio e per questo criticate e minacciate Gisippo.
E che sarebbe mai successo se egli l’avesse sposata ad un contadino, ad un malandrino o a un servo?
Quali catene, o prigioni, o croci basterebbero? Ma, tralasciando tutto, ormai è venuto il tempo che, essendo morto mio padre, devo ritornare a Roma e voglio portare Sofronia con me.
Ho dovuto, perciò, rivelarvi ciò che forse ancora vi avrei tenuto nascosto. Siate lieti perché ,se avessi voluto ingannarvi e oltraggiarvi, l’avrei lasciata qui. Ma tanta viltà non può esservi in un romano.
Sofronia, per volontà degli Dei, in virtù delle leggi umane, grazie a Gisippo e al mio inganno ,è mia.
Voi che pure siete saggi, potete condannarmi e punirmi in due modi: l’uno tenendovi Sofronia, sulla quale non avete alcun diritto; l’altro trattando Gisippo come nemico.
Vi consiglio, considerandovi amici, di deporre lo sdegno e il rammarico e di restituirmi la mia sposa, in modo che lietamente possa partire come vostro parente, ora e sempre. Ormai, vi piaccia o non vi piaccia, non si può cambiare quello che è fatto.
Se volete diversamente, vi toglierò Gisippo e, una volta giunto a Roma, riavrò mia moglie, che, a ragione, mi appartiene, malgrado sia rimasta con voi. Vi farò conoscere, considerandovi per sempre nemici, quanto sia potente lo sdegno dei romani”.
Detto ciò, Tito si alzò in piedi ,molto turbato, e ,preso per mano Gisippo, senza più curarsi dei presenti, minacciando, uscì dal tempio.
Quelli che erano rimasti là dentro, alcuni spinti dalla parentela, alcuni dall’amicizia e spaventati dalle ultime parole del giovane, decisero che la cosa migliore era avere Tito come parente, poiché Gisippo non aveva voluto esserlo, piuttosto che aver perso Tito come parente ed aver acquistato Gisippo come nemico.
Andarono da Tito e gli dissero che faceva loro piacere che Sofronia fosse sua moglie e ritenevano lui parente e Gisippo buon amico.
Festeggiarono tutti insieme, poi partirono e gli rimandarono Sofronia.
Ella, saggiamente, fatta di necessità virtù, l’amore che provava per Gisippo rapidamente rivolse a Tito e andò con lui a Roma, dove fu ricevuta con grande onore.
Gisippo, rimasto ad Atene,poco stimato da tutti, per lotte politiche ,fu cacciato dalla città, povero e meschino, e fu condannato all’esilio perpetuo.
Stando così male, povero e mendicante, andò a Roma, per vedere se Tito si ricordava di lui.
Seppe che era vivo, che era stimato dai romani e, avendo saputo dove erano le sue case, si mise ad aspettare davanti ad esse finchè Tito non giunse.
Non ebbe il coraggio di farsi riconoscere, per cui l’amico passò oltre.
A Gisippo parve che Tito l’avesse veduto, ma avesse finto di non riconoscerlo. Ricordando quello che aveva fatto per lui, offeso e disperato si allontanò.
Era ormai notte, il giovane ,digiuno e senza denari, senza sapere dove andare, desideroso di morire, giunse in un luogo molto solitario, dove c’era una gran grotta, in cui si rifugiò; si sdraiò sulla nuda terra e, dopo aver pianto a lungo, si addormentò.
Nella stessa grotta, all’alba, giunsero due ladri che avevano commesso un furto durante la notte, con il loro bottino. Cominciarono a litigare, il più forte uccise l’altro e andò via.
Gisippo, che aveva udito tutto, pensò di aver trovato il modo di avere la morte, senza uccidersi lui stesso.
Perciò non si allontanò ed attese l’arrivo dei gendarmi che lo catturarono.
Interrogato, confessò di aver ucciso il ladro e di non essersi potuto allontanare dalla grotta.
Il pretore, il cui nome era Marco Varrone, lo condannò alla morte sulla croce, come si usava a quel tempo.
Per caso Tito era andato quel giorno al pretorio.
Vedendo il viso del condannato e uditi i motivi della condanna, subito riconobbe che era Gisippo e si meravigliò della sua misera condizione e di come era giunto fin lì.
Per aiutarlo e salvarlo, non vedendo altra via che accusare sé stesso, si fece avanti e gridò “ Marco Varrone, richiama il pover’uomo che hai condannato, perché è innocente. Io sono il colpevole, infatti, ho offeso gli dei uccidendo colui il quale le tue guardie trovarono morto questa mattina, non voglio offenderli ancora,
provocando la morte di un altro innocente”.
Varrone si meravigliò e si rammaricò che tutto il pretorio l’avesse udito.Dovendo fare ciò che comandavano le leggi, fece ritornare indietro Gisippo e, alla presenza di Tito , gli chiese perché era stato così folle da confessare un delitto che non aveva commesso, pur sapendo che avrebbe perso la vita. Sosteneva che aveva ucciso un uomo, ma, ecco che si presentava un altro che diceva di essere l’assassino.
Gisippo guardò l’uomo, riconobbe che era Tito e ben comprese che l’aveva fatto per salvarlo.
Insistette, dunque, con Varone affermando che era stato lui a compiere il delitto.
Tito, dal canto suo, invitava il pretore a considerare che Gisippo era forestiero e che era stato trovato accanto al corpo del morto senza armi. Diceva che era povero e misero e perciò voleva morire.  Gli chiedeva di liberarlo e di punire lui.
Varrone ,sorpreso, già presumeva che fossero innocenti entrambi.
Ed ecco che giunse un tale, chiamato Publio Ambusto, giovane senza speranza, conosciuto da tutti i romani, un grandissimo ladrone, che veramente aveva commesso l’omicidio. Costui sapeva bene che nessuno dei due era colpevole di quello di cui si accusava. Si commosse a tal punto per la loro innocenza, che andò davanti a Varrone e disse “ Pretore, il mio fato mi spinge a risolvere la disputa tra costoro, non so quale dio mi spinge a confessare il mio peccato. Sappi, dunque, che nessuno di loro è colpevole di ciò di cui accusa sé stesso.
Quell’uomo l’uccisi io all’alba e vidi questo sventurato, che è qui, nella grotta ,che dormiva, mentre io dividevo la refurtiva con colui che poi uccisi. Non è necessaio che scagioni Tito, la cui fama tutti voi conoscete.
Dunque liberali e dai a me la condanna prevista dalle leggi”.
Ottaiano, che aveva avuto notizia della cosa, fece andare alla sua presenza tutti e tre, chiese a ciascuno quale motivo avesse per voler essere condannato. Ognuno spiegò le sue ragioni.
Ottaviano liberò i primi due perché erano innocenti e il terzo per amor di loro.
Tito, facendogli gran festa, condusse Gisippo, dopo averlo rimproverato per la sua diffidenza, a casa sua, là dove Sofronia, piangendo, lo accolse come un fratello.
Lo confortò, lo rivestì e divise con lui ogni suo tesoro ed ogni suo avere.
In seguito gli diede in moglie una sua sorella giovinetta, chiamata Fulvia, poi gli disse “ Gisippo, spetta a te solo decidere se rimanere qui con me a vivere o volertene tornare in Grecia con tutto ciò che ti ho donato”.
Gisippo, costretto dall’esilio che gli impediva di ritornare nella sua città e spinto dall’amicizia per Tito, decise di diventare romano.
A Roma ,con la sua Fulvia, con Tito e la sua Sofronia, vissero a lungo e lietamente nella stessa casa, divenendo ogni giorno sempre più amici.
La narratrice concluse che grandissima cosa era l’amicizia, massimamente degna di rispetto e di lode, madre di ogni magnificenza e onestà, nemica dell’odio e dell’avarizia, senza aspettare preghiere, pronta a fare per gli altri ciò che avrebbe voluto fosse fatto verso di sé.
Gli effetti dell’amicizia molto raramente in quei luoghi si vedevano, per colpa della cupidigia dei mortali, che guardavano soltanto alla propria utilità, e l’avevano relegata ai confini estremi della terra ,in esilio perpetuo.
Solo l’amicizia, infatti, aveva spinto Gisippo ad astenersi dagli abbracci della bella giovane, senza curarsi di perdere i suoi parenti e quelli di Sofronia e di esporsi ai mormorii, alle beffe e allo scherno del popolazzo.
Solo l’amicizia, d’altra parte, aveva subito spinto Tito, che poteva fingere di non vedere, a procurarsi la morte per liberare Gisippo dalla croce, alla quale egli stesso si condannava.
Solo l’amicizia aveva spinto Tito, senza che nessuno l’obbligasse, a dividere il suo grandissimo patrimonio con Gisippo, dopo che la fortuna gli aveva tolto il suo.
Solo l’amicizia aveva, infine, spinto Tito a dare in sposa la propria sorella a Gisippo, divenuto poverissimo e
miserabile.
Gli uomini pensavano soltanto ad accrescere con il loro denaro il numero dei servitori, temendo per sé ogni minimo pericolo, e non guardavano se potevano alleviare le difficoltà del padre, del fratello o del signore, mentre gli amici facevano tutto il contrario.









sabato 5 dicembre 2015

DECIMA GIORNATA - NOVELLA N.7.

DECIMA GIORNATA – NOVELLA N.7

Il re Pietro d’Aragona ,sentito l’ardente amore che gli porta Lisa, inferma, la conforta e poi la marita ad un gentil giovane; la bacia sulla fronte e si dice suo cavaliere.

Fiammetta aveva terminata la sua novella e tutti avevano commentato la magnificenza di re Carlo, ad eccezione di una ,che era ghibellina.
Subito dopo Pampinea, per ordine del re, cominciò a dire che nessuna persona saggia non sarebbe stata d’accordo su quanto avevano detto del buon re Carlo, ad eccezione di chi non gli fosse stato avverso per altri motivi, come la loro compagna. Ma ella aveva ricordato una cosa, ugualmente degna di attenzione, fatta da un avversario di re Carlo verso una giovane fiorentina e desiderava raccontarla.
Nel tempo in cui i francesi furono cacciati dalla Sicilia (Vespri Siciliani 1282) viveva in Palermo un fiorentino venditore di spezie, chiamato Bernardo Puccini, uomo ricchissimo, che aveva avuto da sua moglie una sola figlia bellissima, già in età da marito.
Pietro d’Aragona, che era divenuto da poco signore dell’isola, faceva a Palermo una bellissima festa con i suoi baroni. Mentre si faceva un torneo e il re armeggiava alla maniera catalana, la figlia di Bernardo, il cui nome era Lisa, da una finestra dove era con altre donne, lo vide e le piacque tanto che, dopo averlo a lungo guardato, se ne innamorò perdutamente.
Finita la festa la fanciulla, stando in casa del padre, non poteva pensare ad altro che al suo grande amore.
Quello che la turbava di più era la consapevolezza della sua umile condizione che non le lasciava alcuna speranza di un lieto fine. Ma non poteva smettere di amare il re, né osava per paura manifestare il suo amore..
Il re, dal canto suo, non si era accorto di nulla e non si curava di lei, il che le procurava un intollerabile dolore.
Aumentando l’amore e aggiungendosi un dolore all’altro, la bella giovane, non potendone più, si ammalò e ogni giorno si consumava come neve al sole.
Il padre e la madre, preoccupati, con consigli continui, con medici e con medicine, l’aiutavano come meglio potevano. Ma niente serviva perché ella, disperata per il suo amore, aveva deciso di non voler più vivere.
Un giorno le venne in mente di voler far conoscere al re, prima di morire, il suo amore e la sua intenzione, con molta prudenza. Perciò pregò il padre, pronto ad accontentarla, di far andare da lei Minuccio d’Arezzo, che era ritenuto un finissimo cantatore e suonatore ed era stimato da re Pietro.
Bernardò lo avvisò che Lisa voleva sentirlo un po’ suonare e cantare.
Minuccio, che era un uomo gentile, immediatamente andò da lei , la confortò con amorevoli parole.
Poi con la viola suonò alcune ballate e cantò alcune canzoni che fecero ardere ancora di più d’amore la giovane, invece di consolarla.
Lisa, dopo aver ascoltato, disse che voleva parlare solo con lui. Dopo che tutti si furono allontanati, ella gli disse “ Minuccio, ti ho scelto come custode di un mio segreto, che non devi svelare a nessuno, se non a colui che ti dirò; ti prego di aiutarmi con tutti i mezzi che sono in tuo potere.
Devi, dunque, sapere, Minuccio mio, che il giorno che il nostro re Pietro fece una gran festa per il suo insediamento venne visto da me, mentre torneava. L’amore di lui si accese come un fuoco nella mia anima, tanto ardente che mi ha ridotta come tu mi vedi. Ben sapendo che il mio amore non si conviene ad un re, non potendo né scacciarlo, né diminuirlo, essendo tanto pesante da sopportare, ho deciso, per soffrire meno, di morire e così farò. Proverei un gran conforto se il re lo sapesse, prima che io muoia.
Ritenendo che tu sia la persona adatta a fargli conoscere la mia decisione, ti voglio affidare questo incarico e ti prego di non rifiutarlo. Quando l’avrai portato a termine, fammelo sapere, affinchè io ,consolata, morendo mi liberi di queste pene”.
Minuccio si meravigliò della profondità del sentimento e delle intenzioni della fanciulla, addolorandosi moltissimo. Pensò subito a come poteva accontentarla e le disse “ Lisa, ti giuro sulla mia parola, che non sarai mai da me ingannata. Ti sei innamorata di un così grande re e mi hai affidato una così grande impresa. Ti offro il mio aiuto, col quale spero di poterti accontentare. Mi auguro che ,prima che passi il terzo giorno, ti possa recare notizie che ti saranno molto gradite. Per non perdere tempo, voglio andare a cominciare”.
Poi Lisa, dopo averlo molto pregato, lo licenziò.
Minuccio, allontanatosi, cercò un certo Mico da Siena, abile verseggiatore, e lo pregò di scrivere una canzonetta che diceva.
“ Muoviti, Amore, vai dal mio signore,
e raccontagli le pene che io sopporto;
digli che sto per morire,
nascondendo per timore la mia volontà.
Per pietà, Amore, ti chiedo a mani giunte,
che tu vada dove messer abita.
Digli che spesso lo desidero e lo amo,
così dolcemente mi fa innamorare;
e per il fuoco da cui tutta sono infiammata
temo di morire; e non vedo l’ora
di liberarmi da una così grande pena,
che sopporto per amor suo,
temendo e vergognandomi;
deh! Il mio male, per Dio, fagli sapere.
Quando, Amore, mi innamorai di lui,
non mi donasti l’ardire ,ma il timore
che io potessi dimostrare il mio desiderio
ad altri se non a lui, che mi fa tanto soffrire;
così morendo, il morire mi pesa!
 ma forse non gli dispiacerebbe
se egli sapesse quanta pena io sento,
se avessi l’ardire
di fargli conoscere la mia condizione.
Poiché, Amore, non ti piacque
di darmi tanto coraggio,
che potessi far conoscere a messere il mio cuore
o attraverso un messaggero o di persona,
ti chiedo, di grazia, o mio dolce signore,
che tu vada da lui e gli ricordi
del giorno ch’io lo vidi torneare ,portando
lo scudo e la lancia con gli altri cavalieri;
lo cominciai a guardare,
tanto innamorata che il mio cuore perisce”.
Minuccio accompagnò quelle parole con una musica dolce e triste come esse richiedevano. Il terzo giorno andò a corte, mentre il sovrano era a pranzo. Il re gli chiese di cantare qualcosa con la sua viola.
Il cantore cominciò a cantare e a suonare così dolcemente, che tutti coloro che erano nella sala rimasero silenziosi e incantati, il re ancora più degli altri.
Terminato il canto, il re chiese a Minuccio da dove venisse , perché gli sembrava di non averlo mai udito.
Minuccio rispose che le parole e la musica erano state fatte ,che non erano ancora passati tre giorni.
Al sovrano, che voleva sapere chi aveva scritto quelle parole, il giovane rispose che poteva rivelarlo soltanto a lui, in privato.
Il re, desideroso di sapere, finito il pranzo, lo fece andare nella sua camera, dove il cantore gli raccontò ogni cosa. Il re fu molto lusingato, lodò la fanciulla e disse che bisognava aver compassione di lei,.
Ordinò ,dunque, a Minuccio di riferire da parte sua alla giovane che quello stesso giorno, verso il vespro, sarebbe andato a salutarla.
Minuccio, felicissimo di portare a Lisa una così piacevole notizia, prese la viola e se ne andò.
Parlando con lei sola, le raccontò tutto e le cantò la sua canzone con la viola.
Grande fu la gioia di Lisa tanto che, immediatamente, cominciarono a vedersi notevoli segni di miglioramento.
Senza parlare con nessuno, cominciò ad aspettare il vespro, quando avrebbe visto il suo signore.
Il re, che era liberale e generoso, avendo pensato più volte alle cose dette da Minuccio, conoscendo bene la giovane e la sua bellezza, provò maggiormente pietà.
All’ora del vespro, montato a cavallo, fingendo di andare a passeggio, giunse dov’era la casa del venditore di spezie. Lì fu ricevuto nel bellissimo giardino. Dopo un certo tempo chiese a Bernardo dov’era la figlia e se l’aveva maritata.
Lo speziale rispose che non era maritata ed era stata ed era ancora molto malata, anche se, in verità, negli ultimi tempi pareva miracolosamente migliorata.
Il re, conoscendo bene la ragione del miglioramento, se ne rallegrò molto e disse che era venuto a visitarla.
Con due compagni e con Bernardo poco dopo andò nella camera di lei e le prese le mani, dicendo “ Madonna, che vuol dir questo? Voi siete giovane e non vi dovete abbandonare alla malattia. Vi preghiamo che, per amor nostro, guariate al più presto”.
La giovane, sentendosi toccare dalle mani dell’uomo che amava, sebbene si vergognasse, provò tanto piacere, come se fosse stata in Paradiso, e gli promise che, grazie al suo intervento, sarebbe presto guarita.
Solo il re comprendeva le parole velate di lei, l’apprezzava ancora di più e malediceva la fortuna che l’aveva fatta nascere figlia di un uomo umile. Dopo essersi trattenuto con lei per un certo tempo ed averla confortata, se ne andò.
L’atteggiamento del re e l’onore che egli aveva fatto allo speziale e alla figlia fu molto commentato.
La ragazza, felice per la visita del re, in pochi giorni guarì e diventò più bella di prima.
Dopo la sua guarigione, il re , che aveva raccontato alla regina dell’amore della giovane per lui,un giorno, montato a cavallo, insieme a molti baroni si recò a casa di Bernardo. Entrato nel giardino fece chiamare lo speziale e la figlia. Poco dopo arrivò anche la regina con molte donne; ricevuta tra loro la giovane, incominciarono una bellissima festa.
Poi il re e la regina chiamarono Lisa e il re le disse “ Valorosa giovane, col vostro amore mi avete recato grande onore; per questo noi vogliamo accontentarvi. Poiché siete in età da marito, vogliamo che prendiate il marito che vi daremo. Mentre io sarò sempre vostro cavaliere, senza volere da voi, per il vostro amore, niente altro che un bacio”.
La giovane, tutta rossa in viso per la vergogna, a bassa voce, disse che se la gente avesse saputo che si era innamorata di lui, l’avrebbe ritenuta pazza, credendo che fosse uscita di mente e che non conoscesse la sua umile condizione. Ma ben comprendeva, nel momento in cui si era innamorata, che egli era il re e lei la figlia di Bernardo speziale e che non poteva osare rivolgere così in alto il suo amore. Ma ,come egli ben sapeva, nessuno si innamorava usando la ragione, ma seguendo solo la passione e il sentimento. Perciò non poteva controllare l’amore che provava e avrebbe provato allora e per sempre.
Poiché voleva ubbidirgli, anche se non prendeva marito volentieri, avrebbe ritenuto caro quel marito che egli aveva scelto per lei e lo avrebbe onorato e rispettato. Del resto, si sarebbe gettata nel fuoco per fargli piacere. Avrebbe tenuto in giusto conto avere il re per cavaliere e il bacio che il re voleva non lo avrebbe concesso senza il permesso della regina. Iddio avrebbe reso grazie della benevolenza di lui e della regina nei suoi confronti. E, a questo punto, tacque.
Alla regina piacque molto la risposta della giovane ,che le parve saggia, come il re le aveva detto.
Il sovrano fece chiamare il padre e la madre della fanciulla. Visto che erano contenti , ordinò che fosse condotto alla sua presenza un giovane, gentile ma povero, che aveva nome Perdicone, gli donò alcuni anelli e gli propose di sposare Lisa, cosa che il giovane accettò ben volentieri.
Oltre a ciò, il re , con la regina ,donò a Lisa molti altri gioielli e a Perdicone Cefalù e Caltabellotta, due terre fertilissime, dicendo “ Ti doniamo queste terre, come dote della donna; quello, poi, che darò a te, lo vedrai in futuro”. Poi, rivolto alla giovane,le disse “ Ora vogliamo prendere quel frutto del vostro amore che dobbiamo avere”. E, presole il capo con entrambe le mani, la baciò sulla fronte.
Perdicone, il padre e la madre di Lisa ed ella stessa ,molto contenti fecero una bellissima festa di nozze e, come molti affermarono, il re diede alla giovane ancora altri doni.
Il sovrano si ritenne sempre, finchè visse, suo cavaliere e sempre, in ogni combattimento, portò l’insegna che la giovane gli aveva donato.
Così si conquistavano gli animi dei popoli assoggettati, si dava agli altri motivo di operare bene e si acquistava fama eterna, cose alle quali nel loro tempo pochi o nessuno rivolgevano l’attenzione, essendo quasi tutti i nobili divenuti crudeli e tiranni.





giovedì 26 novembre 2015

DECIMA GIORNATA - NOVELLA N.6

DECIMA GIORNATA – NOVELLA N.6

Re Carlo (Carlo I d’Angiò) ormai vecchio, dopo aver vinto molte guerre, innamoratosi di una giovinetta, vergognandosi del suo folle pensiero, fa sposare lei e la sorella onorevolmente.

Sarebbe troppo lungo raccontare tutte le discussioni fatte dalle donne su chi fosse stato più liberale o Giliberto o messer Ansaldo o il negromante.
Dopo aver discusso per un po’ di tempo, il re, guardando verso la Fiammetta, per interrompere la discussione, le ordinò di raccontare.
Fiammetta, senza alcun indugio, cominciò dicendo che era stata sempre dell’opinione che le brigate come le loro non si dovessero impegnare in dispute troppo sottili e complicate. Tali dispute convenivano alle scuole degli studiosi e non a loro, che si dedicavano al ricamare a al filare.
Perciò ella, che aveva già in mente una storia che poteva far discutere, vedendole pronte a litigare per le cose dette, l'avrebbe lasciata andare e ne avrebbe raccontata un’altra, di un valoroso re, che operò con cavalleria, senza venir meno al suo onore.
Tutte loro avevano sentito parlare di Carlo il Vecchio, ossia di Carlo I D’Angiò, per la sua venuta in Italia in difesa della Chiesa e per la sua vittoria su Manfredi (figlio di Federico II di Svevia).
Dopo  quella vittoria i ghibellini furono scacciati da Firenze e vi ritornarono i guelfi.
Un cavaliere, chiamato messer Neri degli Uberti, ghibellino, uscendo dalla città con tutta la sua famiglia, chiese di mettersi sotto la protezione del re Carlo.
Per stare in un luogo tranquillo, dove finire la sua vita, se ne andò a Castellammare di Stabia. Lì, un poco lontano dalle altre abitazioni di quel posto, comprò un possedimento tra ulivi, noccioli e castagni, di cui quella contrada era ricca.
Su quel possedimento fece costruire una bella e ricca casa e al suo fianco un ameno giardino, nel mezzo del quale, secondo il costume del luogo, poiché c'era abbondanza di acqua, fece un bel vivaio che riempì con molto pesce. E si dedicava escusivamente a rendere ogni giorno più bello il suo giardino.
Frattanto re Carlo, d’estate, per riposarsi un po’, se ne andò a Castellammare, dove, avendo sentito parlare  della bellezza del giardino di messer Neri, desiderò di vederlo.
Sapendo che messer Neri, il proprietario del giardino, era di parte ghibellina, a lui avversa, pensò di dover trattare con lui molto garbatamente e prudentemente. Gli mandò ,dunque, a dire che la sera seguente voleva cenare nel famoso giardino con quattro compagni, serenamente.
Messer Neri fu assai contento e, avendo ordinato ai suoi servitori di fare tutto ciò che era necessario, ricevette il re il più lietamente che potè.
Il re, dopo che ebbe visitato tutto il giardino e la casa, dopo essersi lavato, si sedette ad una delle tavole che erano state apparecchiate al lato del vivaio. Ad un lato comandò che sedesse Guido da Monforte, che era un suo compagno, dall’altro messer Neri.
Furono servite delicate vivande e vini ottimi e preziosi, con garbo e gentilezza, senza rumore e senza noia, cosa che il sovrano apprezzò molto. Mentre il re stava mangiando con gusto, entrarono due giovinette di circa quindici anni ognuna, bionde come l’oro, con i capelli ricci, sciolti, su cui era poggiata una leggera ghirlanda di pervinca. Sembravano due angeli nei visi, tanto essi erano belli e delicati.
Erano vestite con un abito di lino sottilissimo, bianco come la neve. L’abito aveva una cintura strettissima in vita e scendeva, poi, a campana, fino ai piedi.
Quella che andava avanti recava sulle spalle un paio di reti che tratteneva con la mano sinistra, mentre nella destra aveva un lungo bastone. L'altra ,che veniva dietro, aveva sulla spalla sinistra una padella, sotto lo stesso braccio un fascetto di legne e sotto un trepiede. Nell’altra mano aveva un vasetto d’olio e una fiaccoletta accesa.
Il re, vedendo ciò, si meravigliò e attese per vedere che volevano fare.
Le giovinette modestamente e timidamente gli fecero un inchino , poi se ne andarono vicino al vivaio.
Quella che aveva la padella in mano, la pose per terra insieme alle altre cose e prese il bastone che l’altra portava. Entrambe, infine, entrarono nel vivaio, l’acqua del quale giungeva fino al loro petto.
Uno dei servitori di messer Neri rapidamente accese il fuoco, vi pose sopra il trepiede con la padella piena d’olio e cominciò ad aspettare che le giovani vi gettassero sopra il pesce.
Una delle fanciulle cercava nei posti dove sapeva che il pesce si nascondeva, l’altra preparava le reti, con grandissimo piacere del re che guardava attentamente.
Il poco tempo presero molti pesci e li gettarono al servitore che, quasi vivi, li metteva nella padella.
Le fanciulle, come ammaestrate, prendevano i più belli e li gettavano sulla tavola davanti al re, al conte Guido e al padre. Quei pesci guizzavano per un po’ sulla mensa, con gran divertimento del re, che li prendeva e li gettava indietro alle giovani.
Così giocarono per un po’ ,finché il servitore non ebbe cotto il pesce che gli era stato dato.
Quel pesce, avendo messer Neri così ordinato, fu portato davanti al re per servirlo tra una vivanda e l’altra.
Le fanciulle, vedendo il pesce cotto e avendo molto pescato, mentre il bianco vestito era aderito alle carni, senza nascondere quasi niente del lor bel corpo, uscirono dal vivaio. Ripresero le cose che avevano portato e, passando pudicamente davanti al re, se ne tornarono a casa.
Il re, il conte e gli altri ospiti avevano molto osservato le giovinette e ognuno, in cuor suo, aveva ammirato la loro bellezza ,le loro fattezze ed anche i loro gradevoli modi.
Erano piaciute soprattutto al re, il quale aveva osservato attentamente ogni parte del loro corpo, mentre uscivano dall’acqua, tanto che se qualcuno l’avesse punto, egli non avrebbe avvertito la puntura..
E, ripensando sempre più a loro, senza sapere chi fossero, sentì nascere nel cuore un fortissimo desiderio di piacer loro. Ben comprese che stava per innamorarsi, se non avesse preso provvedimenti.
Egli stesso non sapeva quale delle due gli piacesse di più, tanto le due fanciulle si somigliavano.
Rimase per un po’ sovrapensiero, poi si rivolse a messer Neri e gli domandò chi fossero le due damigelle.
Messer Neri rispose “ Monsignore, son le mie due figliuole ,nate da un solo parto, l’una ha nome Ginevra la bella, l’altra Isotta la bionda”.
Il re le lodò molto e gli consigliò di maritarle. Messer Neri rispose di non poterlo fare perché non aveva i mezzi.
Restando da servire per cena soltanto la frutta, le due giovinette si presentarono, indossando due splendide giubbe di seta, con due bellissimi vassoi d’argento pieni di vari frutti di stagione e li posarono sulla tavola davanti al re. Fatto ciò, cominciarono a cantare così dolcemente e piacevolmente che al re ,che le ascoltava, sembrava che fossero scese a cantare tutte le gerarchie degli angeli.                                                                                                                                      
 Dopo aver cantato, si inginocchiarono e chiesero rispettosamente commiato al re, il quale, anche se rammaricato, sorridendo lo concesse.
Finita, dunque, la cena, il sovrano e i suoi compagni montarono a cavallo, lasciando messer Neri, e ritornarono al palazzo reale.
Qui il re, nascondendo la sua passione, non poteva dimenticare ,per nessun motivo, la bellezza di Ginevra la bella e ugualmente amava la sorella gemella, a lei tanto somigliante.
Tanto si invischiò nei pensieri d’amore che quasi non riusciva a pensare ad altro.
Trovando mille scuse, manteneva una stretta amicizia con messer Neri e assai spesso visitava il suo giardino per vedere la Ginevra. Non potendone più, decise di togliere al padre non solo una, ma entrambe le giovinette e palesò al conte Guido la sua intenzione.
Il conte, che era un uomo saggio, gli disse “ Monsignore, non mi meraviglia ciò che mi dite e lo tengo in gran conto, peché conosco fin dalla vostra giovinezza, meglio di chiunque altro, i vostri costumi. Mi è sembrato che mai, neppure nella giovinezza, quando Amore può colpire più fortemente, abbiate conosciuto una passione così ardente. Il sentire che voi, ormai vicino alla vecchiaia, siete innamorato, mi pare così strano, quasi un miracolo.
Se toccasse a  me il rimproverarvi, so bene che cosa vi direi, considerando il fatto che avete lasciato spazio all’amore, pur indossando ancora le armi nel regno appena conquistato, in una regione non conosciuta e piena di inganni e di tradimenti, pur avendo tante preoccupazioni importanti, che non vi hanno consentito, tuttora,  di riposare. Vi direi che questo non è atto di un re magnanimo ma di un giovinetto meschino.
Oltre a ciò, dite che avete deciso di togliere le due figlie al povero cavaliere che, non solo vi ha ospitato con riguardo a casa sua, malgrado non ne avesse le possibilità,ma per onorarvi di più vi ha mostrato le figliuole quasi nude. Ha testimoniato così la fiducia che aveva in voi, credendo fermamente che foste un re, non un lupo rapace. Avete forse dimenticato che la violenza fatta alle donne da Manfredi vi ha aperto le porte di questo regno? Quale tradimento degno di eterno supplizio si potrebbe compiere più grande che togliere a colui che vi onora il suo onore, la sua speranza e la sua consolazione? Che si direbbe di voi , se lo faceste a lui? Pensate che sia una scusa sufficiente dire che lo avete fatto perché egli è ghibellino? La giustizia del re prevede ,forse,che coloro che ricorrono a lui siano trattati diversamente a seconda del partito cui appartengono?.
Vi ricordo, maestà, che grandissima gloria è aver vinto Manfredi, ma gloria ancora maggiore è vincere sé stesso.
Poiché dovete governare gli altri, vincete voi stesso e frenate questo desiderio, né vogliate guastare con questa macchia ciò che avete conquistato gloriosamente”.
Quelle parole colpirono l’animo del sovrano e tanto più lo turbarono perché sapeva che erano vere.
Perciò, dopo un lungo sospiro, disse “ Conte, sicuramente non potrei trovare nessun altro nemico che non ritenga debole e facile da vincere rispetto alla mia passione. Ma, sebbene l’affanno sia grande e la forza di cui ho bisogno inestimabile, le vostre parole mi hanno fatto comprendere che è opportuno che, prima che passino troppi giorni, io vi faccia vedere che, come so vincere gli altri, così so vincere me stesso”.
Pochi giorni dopo aver detto quelle parole ,il re ritornò a Napoli, sia per togliere a sé l’occasione di fare qualcosa di vile, sia per premiare il cavaliere dell’onore ricevuto da lui.
Sebbene gli fosse difficile donare ad altri ciò che sommamente desiderava per sé, decise di voler maritare le due giovani non come figlie di messer Neri, ma come sue. Diede loro una magnifica dote, con grande gioia del padre, e diede in sposa a messer Maffeo da Palizzi Ginevra la bella e Isotta la bionda a messer Guiglielmo della Magna, entrambi nobili cavalieri e baroni.
Infine, con grandissimo dolore ,se ne andò in Puglia e si impegnò in grandi fatiche ,tanto che spezzò le catene dell’amore e, per quanto gli rimase da vivere, si liberò di tale passione.
Forse vi erano coloro che dicevano che era cosa da poco per un re aver maritato due giovinette, ed era vero.
Ma era, invece, una grandissima cosa che un re innamorato avesse maritato ad un altro colei che egli stesso amava ,senza prendere del suo amore né foglia, né fiore, né frutto.
Così, dunque, magnificamente operò il re, premiando il cavaliere, onorando le giovinette e vincendo valorosamente sé stesso.
 



giovedì 19 novembre 2015

DECIMA GIORNATA - NOVELLA N.5

DECIMA GIORNATA – NOVELLA N.5

Madonna Dianora chiede a messer Ansaldo un giardino bello come i giardini di maggio; messer Ansaldo, chiamato un negromante, glielo dà ;il marito permette che ella faccia il piacere di messer Ansaldo, il quale vista la liberalità del marito, la scioglie dalla promessa; il negromante scioglie messer Ansaldo dal pagamento della ricompensa.

Ogni componente dell’allegra brigata aveva elevato con le proprie lodi messer Gentile fino al cielo, quando il re ordinò ad Emilia di continuare.
Ella , lietamente, quasi desiderosa di narrare, cominciò dicendo che sicuramente messer Gentile aveva operato con grandezza d’animo, fare di più era senz’altro difficile, ma non impossibile.
A tale proposito voleva raccontare una novelletta.
In Friuli, paese freddo ma rallegrato da belle montagne, molti fiumi e fontane con acque trasparenti, vi era una città, chiamata Udine, nella quale, un tempo, visse una bella e nobile donna, chiamata madonna Dianora, moglie di un uomo molto ricco, di nome Gilberto, assai simpatico e garbato.
La donna ,per la sua bellezza, fu amata straordinariamente da un nobile barone, il cui nome era Ansaldo Gradense, uomo molto conosciuto per il valore nelle armi e per cortesia.
Egli, amandola ardentemente, faceva ogni cosa per poter essere amato da lei e le mandava spesso delle ambasciate per sollecitarla.
Madonna Dianora, infastidita dalle continue sollecitazioni del corteggiatore, vedendo che i suoi rifiuti aumentavano le insistenze dell’uomo, pensò di liberarsi di lui, facendogli una richiesta che Ansaldo non potesse soddisfare.
Ad una servetta, che andava spesso da lei, mandata da lui, disse di riferirgli che si sarebbe recata a casa sua per amarlo e dargli piacere, se egli avesse esaudito un suo grandissimo desiderio.
La buona donna le chiese che cosa volesse e le promise che l’avrebbe riferita al padrone.
La nobildonna rispose che desiderava che nel mese di gennaio, che stava per giungere, vicino alla città nascesse un giardino pieno di verdi erbe, di fiori e di alberi con molte foglie, come se ne vedevano nel mese di maggio.
Aggiunse che se l’innamorato non avesse fatto ciò, non avrebbe più dovuto infastidirla.Pur di levarselo di torno, avrebbe rivelato tutto al marito e ai suoi parenti, cosa che non aveva fatto fino ad allora.
Il cavaliere, udite la richiesta e la promessa della donna, seppure gli sembrava una cosa quasi impossibile da realizzare e sapeva che ella l’aveva domandata solo per allontanarlo dalla speranza, pure volle tentare se si poteva fare qualcosa.
Cercò in tutto il mondo di trovare qualcuno che gli desse aiuto e consiglio.
Si imbattè in un negromante che affermava di poter fare quella magia, se fosse stato ben pagato.
Messer Ansaldo, pattuita col mago una grandissima quantità di denaro come ricompensa, aspettò il momento stabilito. Giunto il tempo, mentre faceva molto freddo e ogni cosa era piena di neve e di ghiaccio, il negromante, durante la notte seguente alle calende di gennaio (al primo gennaio), operò la magia.
Fece nascere al mattino uno dei più bei giardini che si fosse mai veduto, con erbe, con alberi e frutti di ogni tipo.
Come messer Ansaldo lo vide fece raccogliere i più bei frutti e i più bei fiori che c’erano e ,di nascosto, li mandò alla sua donna. La fece invitare a vedere il giardino che aveva chiesto, ricordandole la promessa che aveva fatta con un giuramento, attendendo che ella, donna leale, la mantenesse.
Dianora, vedendo i fiori e i frutti e avendo già sentito parlare da molti del meraviglioso giardino, si cominciò a pentire della sua promessa.Al tempo stesso, desiderosa di vedere cose nuove, andò nel giardino insieme a molte altre donne della città.
Lo ammirò molto ma se ne tornò a casa addolorata, pensando alla promessa che aveva fatto.
Il dolore fu tale che non lo riuscì più a nascondere e, ben presto, il marito se ne accorse e volle saperne il motivo. La donna, inizialmente, tacque per la vergogna; infine, costretta, gli raccontò ogni cosa.
Gilberto dapprima si turbò molto ascoltando, poi, considerando le buone intenzioni della moglie, trattenuta l’ira, disse “ Dianora, non è stato né saggio né onesto, da parte tua, ascoltare le ambasciate e pattuire la tua castità sotto condizione con un uomo. Le parole ricevute dal cuore di un innamorato acquistano una forza maggiore di quanto si creda e quasi ogni cosa diventa possibile per gli amanti.
Facesti male prima ad ascoltare e poi a pattuire. Siccome conosco la purezza del tuo animo, per scioglierti dalla promessa, ti concederò quello che nessun altro farebbe.
Mi spinge a ciò anche la paura del negromante che, qualora tu lo beffassi, potrebbe farci del male, su richiesta di messer Ansaldo. Voglio che tu vada da lui e cerchi di farti sciogliere dalla promessa, conservando la tua onestà. Se non ci riesci, gli puoi concedere solo per questa volta il tuo corpo, non il tuo animo”.
La donna, udendo quelle parole , piangeva e diceva di non voler accettare la decisione del marito.
Gilberto insistette perché si facesse così. Perciò, al far dell’alba, la mattina seguente, vestita con semplicità, con due servitori avanti ed una cameriera appresso, Dianora si recò a casa di messer Ansaldo.
Il gentiluomo si meravigliò molto che la donna fosse andata da lui, si alzò e fece chiamare il negromante per mostrargli quanto bene gli avesse procurato la sua arte magica.
Poi le andò incontro, senza alcun desiderio sessuale, la ricevette con rispetto e fece entrare tutti in una bella camera, con un gran focolare.
Invitò la donna a sedere e le chiese il motivo della sua venuta, in nome dell’amore che le portava.
La donna, vergognosa e quasi con le lacrime agli occhi, disse “ Messere, né l’amore ,né la promessa che vi feci mi portarono qui, ma il comando di mio marito, il quale, avendo più riguardo per quello che avete fatto per amor mio, che per l’amore suo e mio, mi ha fatto venire. Per ordine suo sono disposta ad assecondare il vostro piacere solo per questa volta”.
Messere Ansaldo rimase ancora più sorpreso per le parole della donna e per la liberalità di Gilberto.
Commosso cambiò il suo amore in compassione e disse “ Madonna, non piaccia a Dio, se le cose stanno così, che io danneggi l’onore di chi ha pietà del mio amore. Perciò rimarrete qui, fino a quando vi piacerà, come se foste mia sorella .Quando vi piacerà, potrete andarvene liberamente, purchè riferiate a vostro marito , che ha usato nei miei confronti tanta cortesia, come siate stata accolta con riguardo.
Vi chiedo, per il futuro, di considerarmi vostro fratello e servitore”.
La donna, provando una gran meraviglia, più lieta che mai, disse “ Non avrei mai creduto, conoscendo i vostri costumi, che voi, dopo la mia venuta, aveste fatto ciò che fate; anch’io vi sarò sempre obbligata”.
Preso commiato, se ne tornò da Gilberto e gli raccontò ciò che era avvenuto.
Da ciò nacque una bella e leale amicizia che legò lui ed Ansaldo.
Il negromante,che stava per ricevere la ricompensa da Ansaldo, vista la liberalità di Gilberto verso Ansaldo e di Ansaldo verso la donna ,disse “ Dio non voglia. Perchè ho visto Gilberto sacrificare il suo onore e voi il vostro amore , anch'io, ugualmente, sarò liberale del mio premio, che intendo lasciare a voi, ritenendo che sia più giusto così".
Il cavaliere molto insistette perché il mago accettase il compenso, ma non ottenne nulla.
Dopo tre giorni il negromante tolse via il suo giardino e decise di partire.
Ansaldo lo raccomandò a Dio e, spento nel cuore ogni desiderio d’amore, conservò verso la donna un grande affetto.
Che si doveva, dunque, dire? Era forse più importante una donna quasi morta e il tiepido amore rispetto alla liberalità dimostrata da messer Ansaldo ,ancora ardentemente innamorato e sul punto di ottenere la preda tanto inseguita?.
Ed Emilia concluse che sarebbe stato sciocco paragonare gli esempi di liberalità di cui si era parlato prima con quell’ultimo.