venerdì 11 dicembre 2015

DECIMA GIORNATA - NOVELLA N.8

          DECIMA GIORNATA – NOVELLA N.8

Sofronia, credendo di essere moglie di Gisippo, diventa moglie di Tito Quinzio Fulvo e con lui se ne va a Roma, dove arriva Gisippo in povero stato e, credendo di essere disprezzato da Tito, afferma di aver ucciso un uomo, per essere condannato a morte. Tito lo riconosce e, per salvarlo, dice di aver ucciso l’uomo; vedendo ciò, colui che aveva commesso il fatto, si dichiara colpevole. Per la qual cosa vengono tutti liberati da Ottaviano e Tito da in moglie a Gisippo la sorella e divide con lui tutte le sue ricchezze.

Dopo che Pampinea aveva smesso di parlare e tutte, soprattutto la ghibellina,  avevano commentato il comportamento di re Pietro, Filomena, per ordine del re, cominciò .
Disse che tutti non ignoravano che i re, quando volevano, sapevano essere magnifici e, sicuramente, facevano bene a comportarsi come conveniva loro.
Se avevano elogiato con tante belle parole le opere del re, certamente avrebbero apprezzato molto di più le opere compiute da due giovani, lor pari, somiglianti o addirittura maggiori di quelle del re.
Voleva, dunque, raccontare un’impresa magnifica e degna di lode, compiuta da due cittadini amici.
Nel tempo in cui Ottaviano, non ancora divenuto imperatore, comandava Roma, nel primo triumvirato, visse in Roma un gentiluomo, chiamato Publio Quinzio Fulvo.
Costui aveva un figlio ,di nome Tito Quinzio Fulvo, di grande ingegno, che mandò a studiare filosofia ad Atene. Lo raccomandò, quanto più potè, ad un ateniese, suo amico di vecchia data, chiamato Cremete, che lo ospitò nella propria casa, dove fu alloggiato insieme al figlio, di nome Gisippo.
Cremete affidò l’istruzione di entrambi i giovani ad un filosofo, chiamato Aristippo.
Tra i due giovani, che crebbero insieme, nacque una fratellanza ed un’amicizia così grande che durò fino alla morte. Ognuno di loro aveva pace solo quando erano insieme. Cominciati gli studi, ciascuno ,dotato di altissimo ingegno, apprendeva la filosofia, ottenendo grandissime lodi, in pari misura.
Vissero così per tre anni con grandissimo piacere di Cremete, che li considerava entrambi suoi figli.
Quasi trascorsi  tre anni, Cremete, ormai vecchio, morì.
I due giovani soffrirono ,in egual modo, come se avessero perso il padre e i parenti e gli amici di Cremete non sapevano chi consolare di più.
Dopo alcuni mesi, i parenti, gli amici e lo stesso Tito spinsero Gisippo a prendere moglie e gli trovarono ,come sposa, una bellissima giovane, di origine molto nobile, cittadina di Atene, il cui nome era Sofronia, di quasi quindici anni.
Avvicinandosi il tempo delle nozze, Gisippo pregò Tito di andare con lui a vederla, perché non l’aveva ancora vista. Quando giunsero a casa di lei, la fanciulla si sedette in mezzo a loro. Tito cominciò a guardarla attentamente e provò una grande attrazione per lei. Ogni parte di Sofronia gli piaceva straordinariamente e , senza darlo a vedere, se ne innamorò follemente.
Dopo essersi trattenuti per un certo tempo se ne ritornarono a casa. Qui Tito, ritiratosi nella sua camera, cominciò a pensare alla giovane e si accendeva sempre di più. Tristi pensieri lo assillavano. Considerava gli onori che aveva ricevuti da Cremete e dalla sua famiglia e l’amicizia che lo legava a Gisippo, a cui la fanciulla era promessa. Perciò , si diceva, la doveva considerare come una sorella ,frenare il desiderio dei sensi e rivolgere altrove i suoi pensieri. Quello che desiderava non era onesto e la vera amicizia richiedeva che egli abbandonasse quell’amore sconveniente.
Poi, ricordandosi di Sofronia, pensava il contrario, e cioè che le leggi dell’amore erano più potenti delle altre e rompevano non solo le leggi dell’amicizia ma anche quelle divine; era già capitato tante volte che un padre aveva amato la figlia, il fratello la sorella, la matrigna il figliastro, cose sicuramente più mostruose di un amico che amava la moglie di un altro. Egli era giovane e doveva abbedire alle leggi dell’amore, l’onestà apparteneva agli uomini più maturi. La fanciulla meritava di essere amata da tutti per la sua bellezza. Egli non l’amava perché era la moglie di Gisippo, ma per la sua bellezza e l’avrebbe amata di chiunque fosse stata.La fortuna aveva sbagliato a concederla all’amico, invece che ad un altro,e Gisippo doveva essere contento perché l’amava lui e non un altro.
Tra mille ragionamenti consumò quel giorno, la notte seguente e molti altri giorni e notti, perdendo il sonno e l’appetito, tanto che per la debolezza fu costretto a stare a letto.
Gisippo, che l’aveva visto prima preoccupato e poi infermo, cercava di recargli conforto e aiuto, senza allontanarsi mai da lui e gli chiedeva continuamente la causa della sua malattia.
Tito gli raccontava un sacco di frottole per risposta.
Alla fine, costretto dall’amico, gli disse “ Gisippo,se agli Dei fosse piaciuto, avrei preferito morire, piuttosto che vivere, pensando che la fortuna mi ha spinto ad un’azione per cui provo grandissima vergogna.
Siccome a te non devo celare niente, ti svelerò la causa della mia vergogna, non senza gran rossore”.
E, cominciando daccapo, gli rivelò il motivo della battaglia di tutti i suoi pensieri e il suo desiderio di morire per amore di Sofronia. Aggiunse che sapeva bene quanto ciò fosse sconveniente e per punizione aveva deciso di voler morire, cosa che sarebbe successa presto.
Gisippo, udendo quelle parole e vedendo il pianto disperato, rimase sovrapensiero, essendo anch’egli preso dalla bellezza della fanciulla. Poi decise che la vita dell’amico gli era più cara di Sofronia e così, turbato da quelle lacrime, piangendo anch’egli, gli rispose “ Tito, hai violato la nostra amicizia tenendomi a lungo nascosta la tua forte passione. I pensieri disonesti non devono essere celati all’amico, che amico sarebbe se si rallegrasse soltanto delle cose oneste e non si preoccupasse di aiutare l’altro in difficoltà?
Ritornando al presente, non mi meraviglio se tu ami ardentemente Sofronia , a me promessa, mi meraviglierei del contrario, conoscendo la sua bellezza e la sua nobiltà d’animo. E ,quanto più ami Sofronia, tanto più ti lagni che la fortuna l’abbia concessa a me, sebbene non lo dici.
Ti sembra che se fosse stata di un altro e non mia avresti potuto amarla onestamente.
Invece è stato molto meglio che la fortuna l’abbia concessa a me, perché chiunque altro l’avesse amata, l’avrebbe voluta tutta per sé. Invece io, siccome siamo amici da sempre, non ricordo di aver mai avuto alcuna cosa che non fosse tua, come mia.
Se la cosa fosse ormai tanto avanti da non poter fare altrimenti, la dividerei con te. ma siamo ancora in tempo a fare in modo che ella possa essere soltanto tua.
E così farò in nome dell’amicizia, che mi permette di fare onestamente una cosa che tu vuoi.
E’ vero che Sofronia è mia promessa sposa; che io l’amavo molto e aspettavo con grande gioia le nozze. Ma, poiché tu l’ami molto più di me e con maggiore ardore la desideri, sta tranquillo che ella verrà nella mia camera come tua moglie non come mia.
Lascia , dunque, i tristi pensieri, caccia la malinconia, recupera la salute, l’allegria e ,da questo momento,
aspetta di godere del tuo amore che è più forte del mio”.
Tito, udendo parlare così Gisippo, da un lato gioiva ,perché nasceva per lui una speranza, dall’altro, a ragione, provava vergogna, sembrandogli ancor più sconveniente accettare la liberalità dell’amico.
Non smettendo di piangere, gli rispose che l’amicizia dimostratagli gli faceva capire ancor più chiaramente che cosa doveva fare. Dio non avrebbe permesso che la donna che aveva donato a Gisippo, perché più degno, divenisse sua. Aggiunse che se l’avesse voluto darla a lui gliel’avrebbe concessa. Doveva, dunque, essere lieto di essere stato scelto, accettare il dono e lasciare a lui le lacrime.
Infine, gli chiese di lasciarlo consumare nelle lacrime, le quali, alla fine, avrebbe vinto o esse avrebbero vinto lui, facendolo morire e liberandolo così dalla pena.
Gisippo, prontamente, rispose “Tito, se l’amicizia mi può permettere di spingerti a seguire il mio desiderio, io intendo adoperarla, e se tu non mi obbedirai volentieri, con la forza, che un amico deve usare, farò in modo che Sofronia sia tua. So bene quanto possono le forze dell’amore e so che molte volte hanno condotto alla morte gli infelici amanti. Vedo te così vicino ad essa che non potresti più tornare indietro, né vincere le lacrime, ma ti aggraveresti e presto verresti meno e , sicuramente dopo poco io ti seguirei.
Dunque, devi vivere se ti è cara la mia vita. Sofronia sarà tua, perché non potresti facilmente trovare un’altra che ti piacesse quanto lei. Io rivolgerò il mio amore ad un’altra, così avrò accontentato te e me.
Non sarei così ben disposto se le mogli si trovassero con la difficoltà con cui si trovano gli amici.
Poiché posso trovare più facilmente una moglie piuttosto che un altro amico, voglio , non perdere lei donandola a te, ma consegnandola ad un altro me stesso migliore di me, trasferirla a te, piuttosto che perderti.
Perciò ti prego, liberandoti di questa afflizione, di consolare ,nello stesso tempo, te e me, e di buon grado di prepararti a prendere la cosa amata, che il tuo amore desidera”.
Tito, pur trattenuto ancora dalla vergogna, spinto dall’amore e dall’insistenza dell’amico, disse “ Gisippo, poiché la tua liberalità è tanta che vince la mia giusta vergogna, farò come tu vuoi, come uomo che sa di ricevere da te non solo la donna amata, ma la stessa vita.
Vogliano gli dei che ti possa dimostrare quanto ti sono grato perché sei nei miei confronti più pietoso di quanto lo sono io stesso”.
Gisippo , allora, disse “ Tito, perché la cosa vada a buon fine, bisogna seguire questa strada. Come ben sai, dopo lunghe trattative tra i miei parenti e quelli di Sofronia, ella mi è stata promessa. Se ora io andassi a dire di non volerla per moglie, ne nascerebbe un grandissimo scandalo e turberei i miei e i suoi parenti. Questo non mi preoccuperebbe se sapessi per certo che ella diventasse tua moglie. Ma temo che potrebbero darla in sposa ad un altro, e tu avrai perduto quello che io non avrò acquistato.
Mi sembra, dunque, il caso, se sei d’accordo, che la conduca in casa come mia moglie e celebri le nozze. Poi, di nascosto, tu giacerai con lei come se fosse tua moglie. A tempo e a luogo opportuno riveleremo il fatto.
Se la cosa piacerà ,sarà tutto a posto, se non piacerà, sarà un fatto compiuto e tutti si dovranno per forza adattare”.
A Tito piacque la proposta. Dopo la guarigione di Tito, avendo già tutto organizzato, Gisippo portò Sofronia a casa come sua moglie e fece una gran festa di nozze.
Giunta la notte, le donne lasciarono la sposa nel letto del marito e se ne andarono.
  La camera di Tito era congiunta a quella di Gisippo ,tanto che si poteva andare dall’una all’altra.
Gisippo chiamò Tito dicendogli di andarsi a coricare con la sua donna.
Tito, vergognandosi ,non voleva andare, ma Gisippo, dopo aver discusso a lungo, ve lo mandò.
Giunto nel letto, il giovane, quasi scherzando, domandò alla donna se voleva essere sua moglie.
Ella, credendo che fosse Gisippo, rispose di si .Tito le pose al dito uno splendido anello e disse “ Io voglio essere tuo marito”.
Consumato il matrimonio, si amarono appassionatamente, senza che né lei né gli altri si accorgessero che era un altro e non Gisippo che giaceva con lei.
Mentre il matrimonio di Tito e Sofronia procedeva in tal modo, Publio, padre di lui, morì.
Gli fu scritto di ritornare immediatamente a Roma, per curare i suoi interessi. Egli decise, d’accordo con Gisippo, di andare a Roma e di condurre con sé Sofronia, cosa che non si poteva fare senza informarla di come stessero le cose. Perciò un giorno la chiamarono e le rivelarono tutto.
Ella, dopo averli guardati sorpresa, scoppiò a piangere, rammaricandosi dell’inganno di Gisippo.
Senza far commenti, andò a casa sua e a suo padre e sua madre narrò l’inganno che avevano subito, affermando che era la moglie di Tito e non di Gisippo, come tutti credevano.
Il padre ritenne il fatto gravissimo e si lamentò moltissimo con i parenti di Gisippo, che fu aspramente rimproverato ed odiato da tutti.
Gisippo, dal canto suo, affermava di aver fatto la cosa giusta ed i parenti di Sofronia gli dovevano essere grati perché l’aveva maritata ad un uomo migliore di sé stesso.
Tito, che sentiva tutte le lamentazioni, ne provava gran disagio.
Egli conosceva bene l’animo degli ateniesi e sapeva che avrebbero continuato a lamentarsi all’infinito, se non avessero avuto delle risposte. Perciò, avendo animo romano e senno ateniese, con molto garbo fece radunare i parenti di Gisippo e quelli di Sofronia in un tempio.
Entrato lì, accompagnato solo da Gisippo, così parlò ai presenti “ Molti filosofi credono che gli dei immortali dispongano le opere dei mortali, per cui, secondo alcuni, ciò che è accaduto e accadrà nel mondo è stabilito dalla volontà degli dei, ed è necessario. Altri ritengono che lo stato di necessità riguardi soltanto le cose che già sono state fatte. Si capisce che non è possibile cambiare le cose già accadute, perciò è più saggio credere che gli dei governino per l’eternità e senza alcun errore noi e le nostre cose. Si può ,dunque, ben vedere come sia presuntuoso e da bestie pensare di cambiare ciò che essi hanno disposto e meritano grandi punizioni coloro che si lasciano trasportare dall’ardire.
Tra questi ci siete a mio giudizio, tutti voi, se avete detto e continuate a dire che Sofronia è diventata mia moglie, mentre voi l’avevate data a Gisippo. Non considerate ciò che era stato disposto ab eterno e cioè che ella non divenisse di Gisippo ma mia, così come appunto è accaduto.
Ma parlare della provvidenza e dell’intervento degli Dei pare a molti difficile da comprendere, supponendo che gli Dei non si impiccino affatto delle cose degli uomini. Perciò voglio considerare le opinioni degli uomini a riguardo ed esaminare due cose molto contrarie ai miei costumi. L’una consiste nell’elogiare me, l’altra nel biasimare gli altri, senza allontanarmi dalla verità.
I vostri rimproveri, dovuti più alla rabbia che alla ragione, con continui mormorii, criticano e condannano Gisippo che mi ha data, con sua decisione, costei in moglie, mentre voi l’avevate data a lui.
Per la sua decisione ritengo che egli sia da elogiare sommamente per due motivi. L’uno perché ha fatto ciò che un amico deve fare; l’altra perché si è comportato più saggiamente di voi.
Non voglio spiegare ora ciò che le sante leggi dell’amicizia vogliono che un amico faccia per l’altro. Ma voglio soltanto ricordarvi che il legame dell’amicizia è più forte di quello del sangue e della parentela, perché gli amici ce li scegliamo, i parenti ce li dà la fortuna.
Nessuno, dunque, si deve meravigliare se Gisippo amò più la mia vita che la vostra benevolenza, essendo mio amico. E ,inoltre, egli è stato più saggio di voi, che mi sembra non conosciate la provvidenza degli dei e molto meno gli effetti dell’amicizia.
Infatti, avevate deciso di dare Sofronia a Gisippo, giovane e filosofo. Gisippo ha deciso di darla ad un giovane e filosofo. Decideste di darla ad un ateniese, Gisippo ad un romano. Decideste di darla ad un giovane nobile, Gisippo ad uno più nobile; decideste di darla ad un giovane ricco, Gisippo ad uno ricchissimo; decideste di darla ad un giovane che non solo non l’amava, ma la conosceva appena, Gisippo la dette ad un giovane che l’amava più della propria vita.
E che quello che dico sia vero si può facilmente verificare. E’ vero ,infatti, che sono giovane e filosofo come Gisippo, che ho la sua stessa età, che abbiamo fatto gli stessi studi. E’ vero che egli è ateniese ed io romano.
Se si discuterà della gloria delle due città ,dirò che io sono di una città libera ed egli di una città tributaria; io di una città signora di tutto il mondo, egli di una città che obbedisce all’altra; io di una città fiorentissima per le armi, l'impero e gli studi, mentre egli potrà lodare la sua solo per gli studi.
Inoltre, sebbene qui mi vediate come uno studente molto umile, non sono nato dalla feccia del popolazzo di Roma. Le mie case e i luoghi pubblici di Roma sono pieni delle immagini dei miei antenati , gli Annali romani sono pieni dei trionfi che i Quinzi hanno condotto sul Campidoglio e la loro gloria è ancora fiorente.
Per pudore taccio delle mie ricchezze perché ricordo l’onesta povertà degli antichi nobili romani, mentre io, non come avido, ma come amato dalla fortuna, ne abbondo.
So che avevate caro l’avere per parente Gisippo, che era ed è di qui (ateniese), ma non vi devo essere meno caro io che sono di Roma. Pensate ,infatti, che avrete in me un ottimo ospite e un utile ed autorevole protettore sia nelle faccende pubbliche che in quelle private.
Dunque, considerando razionalmente il tutto, chi loderà i vostri consigli più di quelli di Gisippo? Certamente nessuno. Sofronia è ben maritata a Tito Quinzio Fulvo, nobile, antico e ricco cittadino di Roma e amico di Gisippo, perciò chi se ne duole sbaglia e non sa quello che fa.
Alcuni potranno dire che non si rammaricano del fatto che Sofronia è moglie di Tito ma del come lo è diventata, furtivamente, senza che né amici, né parenti lo sapessero. Ciò non deve meravigliare.
Volentieri tralascio quelle che si sono maritate contro la volontà dei padri, quelle che sono fuggite con gli amanti e sono state prima amiche che mogli, e quelle che con la loro gravidanza e i parti hanno palesato il loro matrimonio, che è stato accettato per necessità, prima che con le parole e si è fatta di necessità virtù.
A Sofronia non è accaduto ciò, anzi, con discrezione e onestamente, è stata data da Gisippo a Tito, anche se, secondo alcuni, non ne aveva il diritto. Queste sono lagnanze di poco conto.
La fortuna ora usa nuove strade per ottenere i suoi scopi. Non mi devo preoccupare se il calzolaio, piuttosto che il filosofo,portò a buon fine i fatti miei, devo solo ringraziarlo. Se Gisippo ha ben maritato Sofronia, lamentarsi del modo e di lui è cosa stolta e inutile. Se non vi fidate del suo senno, evitate che possa maritare altre donne in futuro e ringraziatelo per adesso.
Dovete sapere che non cercai né con l’astuzia, né con l’inganno, di macchiare l’onestà di Sofronia e la nobiltà del vostro sangue. Sebbene la sposai occultamente, non andai come un ladro o come un nemico a toglierle la verginità, rifiutando di imparentarmi con voi. Ma ,acceso dalla sua bellezza e dalla sua virtù, dovetti agire di nascosto, per paura che voi non me l’avreste mai concessa.
Ora posso svelare il segreto, conosciuto solo da Gisippo. Sebbene ardentemente l’amassi, mi unì a lei non come amante, ma come marito, non avvicinandomi a lei prima di averla sposata, domandandole se mi voleva come marito, con le dovute parole e con l'anello, come ella stessa può testimoniare, ed ella mi rispose di si.
Se ella si ritiene ingannata, deve essere rimproverata lei che non mi ha chiesto chi fossi, non io.
Dunque, questo è il gran male, il gran peccato, compiuto da Gisippo, amico, e da me, innamorato, che Sofronia sia diventata la moglie di Tito Quinzio e per questo criticate e minacciate Gisippo.
E che sarebbe mai successo se egli l’avesse sposata ad un contadino, ad un malandrino o a un servo?
Quali catene, o prigioni, o croci basterebbero? Ma, tralasciando tutto, ormai è venuto il tempo che, essendo morto mio padre, devo ritornare a Roma e voglio portare Sofronia con me.
Ho dovuto, perciò, rivelarvi ciò che forse ancora vi avrei tenuto nascosto. Siate lieti perché ,se avessi voluto ingannarvi e oltraggiarvi, l’avrei lasciata qui. Ma tanta viltà non può esservi in un romano.
Sofronia, per volontà degli Dei, in virtù delle leggi umane, grazie a Gisippo e al mio inganno ,è mia.
Voi che pure siete saggi, potete condannarmi e punirmi in due modi: l’uno tenendovi Sofronia, sulla quale non avete alcun diritto; l’altro trattando Gisippo come nemico.
Vi consiglio, considerandovi amici, di deporre lo sdegno e il rammarico e di restituirmi la mia sposa, in modo che lietamente possa partire come vostro parente, ora e sempre. Ormai, vi piaccia o non vi piaccia, non si può cambiare quello che è fatto.
Se volete diversamente, vi toglierò Gisippo e, una volta giunto a Roma, riavrò mia moglie, che, a ragione, mi appartiene, malgrado sia rimasta con voi. Vi farò conoscere, considerandovi per sempre nemici, quanto sia potente lo sdegno dei romani”.
Detto ciò, Tito si alzò in piedi ,molto turbato, e ,preso per mano Gisippo, senza più curarsi dei presenti, minacciando, uscì dal tempio.
Quelli che erano rimasti là dentro, alcuni spinti dalla parentela, alcuni dall’amicizia e spaventati dalle ultime parole del giovane, decisero che la cosa migliore era avere Tito come parente, poiché Gisippo non aveva voluto esserlo, piuttosto che aver perso Tito come parente ed aver acquistato Gisippo come nemico.
Andarono da Tito e gli dissero che faceva loro piacere che Sofronia fosse sua moglie e ritenevano lui parente e Gisippo buon amico.
Festeggiarono tutti insieme, poi partirono e gli rimandarono Sofronia.
Ella, saggiamente, fatta di necessità virtù, l’amore che provava per Gisippo rapidamente rivolse a Tito e andò con lui a Roma, dove fu ricevuta con grande onore.
Gisippo, rimasto ad Atene,poco stimato da tutti, per lotte politiche ,fu cacciato dalla città, povero e meschino, e fu condannato all’esilio perpetuo.
Stando così male, povero e mendicante, andò a Roma, per vedere se Tito si ricordava di lui.
Seppe che era vivo, che era stimato dai romani e, avendo saputo dove erano le sue case, si mise ad aspettare davanti ad esse finchè Tito non giunse.
Non ebbe il coraggio di farsi riconoscere, per cui l’amico passò oltre.
A Gisippo parve che Tito l’avesse veduto, ma avesse finto di non riconoscerlo. Ricordando quello che aveva fatto per lui, offeso e disperato si allontanò.
Era ormai notte, il giovane ,digiuno e senza denari, senza sapere dove andare, desideroso di morire, giunse in un luogo molto solitario, dove c’era una gran grotta, in cui si rifugiò; si sdraiò sulla nuda terra e, dopo aver pianto a lungo, si addormentò.
Nella stessa grotta, all’alba, giunsero due ladri che avevano commesso un furto durante la notte, con il loro bottino. Cominciarono a litigare, il più forte uccise l’altro e andò via.
Gisippo, che aveva udito tutto, pensò di aver trovato il modo di avere la morte, senza uccidersi lui stesso.
Perciò non si allontanò ed attese l’arrivo dei gendarmi che lo catturarono.
Interrogato, confessò di aver ucciso il ladro e di non essersi potuto allontanare dalla grotta.
Il pretore, il cui nome era Marco Varrone, lo condannò alla morte sulla croce, come si usava a quel tempo.
Per caso Tito era andato quel giorno al pretorio.
Vedendo il viso del condannato e uditi i motivi della condanna, subito riconobbe che era Gisippo e si meravigliò della sua misera condizione e di come era giunto fin lì.
Per aiutarlo e salvarlo, non vedendo altra via che accusare sé stesso, si fece avanti e gridò “ Marco Varrone, richiama il pover’uomo che hai condannato, perché è innocente. Io sono il colpevole, infatti, ho offeso gli dei uccidendo colui il quale le tue guardie trovarono morto questa mattina, non voglio offenderli ancora,
provocando la morte di un altro innocente”.
Varrone si meravigliò e si rammaricò che tutto il pretorio l’avesse udito.Dovendo fare ciò che comandavano le leggi, fece ritornare indietro Gisippo e, alla presenza di Tito , gli chiese perché era stato così folle da confessare un delitto che non aveva commesso, pur sapendo che avrebbe perso la vita. Sosteneva che aveva ucciso un uomo, ma, ecco che si presentava un altro che diceva di essere l’assassino.
Gisippo guardò l’uomo, riconobbe che era Tito e ben comprese che l’aveva fatto per salvarlo.
Insistette, dunque, con Varone affermando che era stato lui a compiere il delitto.
Tito, dal canto suo, invitava il pretore a considerare che Gisippo era forestiero e che era stato trovato accanto al corpo del morto senza armi. Diceva che era povero e misero e perciò voleva morire.  Gli chiedeva di liberarlo e di punire lui.
Varrone ,sorpreso, già presumeva che fossero innocenti entrambi.
Ed ecco che giunse un tale, chiamato Publio Ambusto, giovane senza speranza, conosciuto da tutti i romani, un grandissimo ladrone, che veramente aveva commesso l’omicidio. Costui sapeva bene che nessuno dei due era colpevole di quello di cui si accusava. Si commosse a tal punto per la loro innocenza, che andò davanti a Varrone e disse “ Pretore, il mio fato mi spinge a risolvere la disputa tra costoro, non so quale dio mi spinge a confessare il mio peccato. Sappi, dunque, che nessuno di loro è colpevole di ciò di cui accusa sé stesso.
Quell’uomo l’uccisi io all’alba e vidi questo sventurato, che è qui, nella grotta ,che dormiva, mentre io dividevo la refurtiva con colui che poi uccisi. Non è necessaio che scagioni Tito, la cui fama tutti voi conoscete.
Dunque liberali e dai a me la condanna prevista dalle leggi”.
Ottaiano, che aveva avuto notizia della cosa, fece andare alla sua presenza tutti e tre, chiese a ciascuno quale motivo avesse per voler essere condannato. Ognuno spiegò le sue ragioni.
Ottaviano liberò i primi due perché erano innocenti e il terzo per amor di loro.
Tito, facendogli gran festa, condusse Gisippo, dopo averlo rimproverato per la sua diffidenza, a casa sua, là dove Sofronia, piangendo, lo accolse come un fratello.
Lo confortò, lo rivestì e divise con lui ogni suo tesoro ed ogni suo avere.
In seguito gli diede in moglie una sua sorella giovinetta, chiamata Fulvia, poi gli disse “ Gisippo, spetta a te solo decidere se rimanere qui con me a vivere o volertene tornare in Grecia con tutto ciò che ti ho donato”.
Gisippo, costretto dall’esilio che gli impediva di ritornare nella sua città e spinto dall’amicizia per Tito, decise di diventare romano.
A Roma ,con la sua Fulvia, con Tito e la sua Sofronia, vissero a lungo e lietamente nella stessa casa, divenendo ogni giorno sempre più amici.
La narratrice concluse che grandissima cosa era l’amicizia, massimamente degna di rispetto e di lode, madre di ogni magnificenza e onestà, nemica dell’odio e dell’avarizia, senza aspettare preghiere, pronta a fare per gli altri ciò che avrebbe voluto fosse fatto verso di sé.
Gli effetti dell’amicizia molto raramente in quei luoghi si vedevano, per colpa della cupidigia dei mortali, che guardavano soltanto alla propria utilità, e l’avevano relegata ai confini estremi della terra ,in esilio perpetuo.
Solo l’amicizia, infatti, aveva spinto Gisippo ad astenersi dagli abbracci della bella giovane, senza curarsi di perdere i suoi parenti e quelli di Sofronia e di esporsi ai mormorii, alle beffe e allo scherno del popolazzo.
Solo l’amicizia, d’altra parte, aveva subito spinto Tito, che poteva fingere di non vedere, a procurarsi la morte per liberare Gisippo dalla croce, alla quale egli stesso si condannava.
Solo l’amicizia aveva spinto Tito, senza che nessuno l’obbligasse, a dividere il suo grandissimo patrimonio con Gisippo, dopo che la fortuna gli aveva tolto il suo.
Solo l’amicizia aveva, infine, spinto Tito a dare in sposa la propria sorella a Gisippo, divenuto poverissimo e
miserabile.
Gli uomini pensavano soltanto ad accrescere con il loro denaro il numero dei servitori, temendo per sé ogni minimo pericolo, e non guardavano se potevano alleviare le difficoltà del padre, del fratello o del signore, mentre gli amici facevano tutto il contrario.









Nessun commento:

Posta un commento