giovedì 29 maggio 2014

QUARTA GIORNATA – NOVELLA N.4

Gerbino, contro la parola data da re Guglielmo, suo nonno, assalta una nave del re di Tunisi, per prendere una sua figlia; ella viene uccisa da coloro che erano sulla nave e Gerbino uccide loro, poi a lui viene tagliata la testa.

La Lauretta, terminata la sua novella, tacque, mentre tutti commentavano.
Il re, alzato il viso, fece segno ad Elissa di continuare. Ed ella incominciò il suo racconto considerando che molti credevano che Amore colpisse solo attraverso gli occhi. Invece era possibile innamorarsi per fama, senza essersi mai visti.
Così era appunto successo nella novella che avrebbe raccontato. I protagonisti di essa si erano innamorati per fama ,senza conoscersi, e il loro amore li aveva condotti entrambi ad una misera morte.
Guglielmo II, re di Sicilia, ebbe due figli: un maschio, chiamato Ruggieri e una donna, chiamata Costanza.
Ruggieri, morendo prima del padre, lasciò un figlio di nome Gerbino, il quale, allevato con attenzione dal nonno, divenne un giovane bellissimo, famoso per il suo valore e la cortesia.
La sua fama superò i confini della Sicilia e giunse in Tunisia, che ,a quel tempo, era tributaria del re di Sicilia.
La figlia del re di Tunisi, che era una delle più belle creature del tempo, udendo raccontare da uomini valorosi le imprese compiute da Gerbino, immaginando come doveva essere, si innamorò appassionatamente di lui.
D’altra parte era giunta in Sicilia la fama della bellezza e del valore della figlia del re di Tunisi e aveva toccato gli orecchi di Gerbino, che , dal canto suo, a sua volta se ne era innamorato.
Dunque ,attendendo dal nonno il permesso di recarsi a Tunisi per vederla, affidò ad un amico, che si recava colà, l’incarico di rivelarle l’amore che aveva per lei.
La fanciulla ricevette l’ambasciatore e l’ambasciata con viso lieto e gli rispose che ella ardeva di pari per Gerbino, al quale mandò un gioiello a lei molto caro ,come testimonianza del suo amore.
Tramite l’amico i due giovani si scambiarono, in seguito, molti doni e molte lettere prendendo accordi su come incontrarsi.
Mentre così andavano le cose, ardendo da una parte la giovane, dall’altra il Gerbino, il re di Tunisi promise in sposa la figlia al re di Granata.
Ella, addolorata, meditava di fuggire per andare da Gerbino. Ugualmente il giovane, avendo saputo della promessa, pensava al modo di sottrarla al marito, se fosse stata imbarcata per raggiungere Tunisi.
Il re di Tunisi, venuto a conoscenza dell’amore del Gerbino, del suo valore e delle sue intenzioni, preoccupato, informò re Guglielmo del viaggio che la figlia doveva compiere e chiese garanzia che né lui, né Gerbino l’avrebbero impedito.
Il vecchio re, non conoscendo l’amore del nipote, non immaginando che per questo era stata chiesta tale garanzia, la concesse senza problemi. Inviò ,inoltre, al re di Tunisi un guanto, come pegno della parola data.
 Immediatamente il re preparò una grandissima e sontuosa nave nel porto di Cartagine, per mandare la figlia a Granata.
La giovane donna inviò a Palermo un servitore per informare l’amato della sua partenza, precisando che in tale circostanza avrebbe valutato il valore di lui.
Gerbino, udendo ciò, pur sapendo della parola data dal nonno al re, spinto dall’amore, andò a Messina.
Colà fece armare due sottili galee e si diresse in Sardegna, dove doveva passare la nave tunisina.
Dopo un certo tempo, poco lontano dal luogo dove si era fermato, giunse la nave.
Gerbino promise ai suoi marinai un ricco bottino, se l’avessero assaltata;  per lui, spinto dall’amore, chiedeva soltanto la donna.
I siciliani, desiderosi di bottino, rapidamente misero i remi in barca e giunsero alla nave.
Il bel Gerbino comandò che i marinai della nave andassero sulle galee, se non volevano combattere.
I saraceni mostrarono ,come lasciapassare, il guanto di re Guglielmo e si rifiutarono di arrendersi.
Frattanto il giovane vide, sopra la poppa della nave, la donna che gli sembrò ancora più bella di come aveva immaginato e si infiammò maggiormente.
Rispose, allora, con ironia che egli non aveva falconi per cui servisse il guanto e che si preparassero a combattere se non volevano dargli la donna.
Iniziò ,dunque, la battaglia.
I saraceni, comprendendo che o dovevano arrendersi o morire, portata la figlia del re sulla prora, chiamato Gerbino, la svenarono davanti ai suoi occhi.
Gettandola in mare ,dissero “Prendila, te la diamo come noi possiamo e come la tua lealtà l’ha meritata”.
Gerbino, infuriato per la loro crudeltà, salito sulla nave ,come un lupo famelico che si getta su un armento di giovenchi, sbranandoli a destra e a manca con i denti e con le unghie, uccise crudelmente molti saraceni.
Poi lasciò la nave incendiata ai suoi marinai per trarne il bottino.
Infine, recuperato dal mare il corpo della bella donna, la pianse con molte lacrime.
Tornato in Sicilia, la fece seppellire con onore ad Ustica, un’isoletta vicino Trapani e se ne tornò a casa con grande tristezza.
Il re di Tunisi, saputa la notizia, mandò i suoi ambasciatori, vestiti a lutto, da re Guglielmo a riferirgli gli eventi.
Re Guglielmo, molto turbato, fece prendere Gerbino e, nonostante le preghiere dei suoi baroni, lo condannò alla decapitazione. In sua presenza gli fece tagliare la testa, preferendo rimanere senza nipote, piuttosto che essere ritenuto un re che non rispettava la parola data.
Così, in pochi giorni, i due amanti, senza aver goduto del proprio amore, morirono di una triste morte.




giovedì 22 maggio 2014

QUARTA GIORNATA - NOVELLA N.3

QUARTA GIORNATA – NOVELLA N. 3

Tre giovani amano tre sorelle e con loro fuggono a Creta: la maggiore, per gelosia, uccide l’amante; la seconda, concedendosi al duca di Creta, salva dalla morte la prima. L’amante della seconda sorella, l’uccide e scappa con la prima; viene incolpato il terzo amante con la terza sorella e, presi, confessano; per paura di morire corrompono una guardia con il denaro e fuggono ,poveri, a Rodi, dove muoiono in povertà.


Filostrato, udita la fine della novella di Pampinea, rimase sovrapensiero , poi, le disse che gli era piaciuta la fine della novella, ma la parte precedente aveva fatto troppo ridere.
Rivolto, subito dopo, alla Lauretta la invitò a continuare con un racconto più serio.
La Lauretta, ridendo, promise che avrebbe narrato la storia di tre amanti che finirono male, avendo poco goduto dei loro amori.
Rivolta alle donne, incominciò dicendo che il vizio più grande di tutti era l’ira, che accendeva l’animo degli uomini, ma soprattutto quello delle donne, che erano più mobili e più leggere e, perciò, più inclini a lasciarsi prendere da essa.
Siccome l’ira e il furore erano molto fastidiosi e pericolosi, per evitarli e guardarsi da essi, Lauretta avrebbe raccontato l’amore di tre giovani per tre donne e come, per l’ira di una di esse, la loro felicità si fosse trasformata in infelicità.
La storia era ambientata a Marsiglia, antica e nobile città della Provenza , posta sul mare, ricchissima di uomini facoltosi e di mercanti. Tra questi ce ne era uno chiamato Don Armando Civada, uomo di umilissima origine ma mercante di grande lealtà, straordinariamente ricco di possedimenti e di denaro.
Costui aveva molti figli, tra i quali tre erano femmine ed erano maggiori dei maschi.. Due erano gemelle, avevano quindici anni e si chiamavano Ninetta e Magdalena; la terza aveva quattordici anni e si chiamava Beretta.
Della Ninetta era molto innamorato un gentiluomo, che era povero, di nome Restagnone, anche la giovane lo amava e, di nascosto, essi godevano del loro amore.
Già da tempo facevano l’amore ,quando due giovani compagni, l’uno chiamato Folco e l’altro Ughetto, morti i genitori ed essendo rimasti ricchissimi, si innamorarono l’uno della Magdalena e l’altro della Beretta.
Restagnone, informato da Ninetta, pensò di poter alleviare un po’ i suoi bisogni, grazie all’amore dei due.
Divenuto amico dei giovani, andava insieme a loro a vedere le tre donne.
Quando gli sembrò di essere diventato molto amico , li invitò a casa sua e propose loro, per il grandissimo amore che portavano alle tre donne, di unire tutte le ricchezze che Folco e Ughetto avevano, di dividerle per tre, facendo di lui il terzo possessore. Avendo diviso per tre le ricchezze, dovevano decidere in quale parte del mondo andare per vivere una vita felice con le tre sorelle. Assicurò che esse, con gran parte delle ricchezze del padre, sarebbero andate volentieri con loro; nel luogo prescelto, ciascuno con la sua donna, come tre fratelli, avrebbero vissuto come i più felici degli uomini. Aggiunse che dovevano decidere rapidamente.
I due giovani, udendo che le donne li avrebbero seguiti, si dichiararono pronti ad accettare la proposta.
Restagnone, dopo pochi giorni, si incontrò con la Ninetta e le spiegò il suo progetto.
Ella rispose che la cosa le piaceva e le sue sorelle, che facevano tutto quello che lei voleva, avrebbero sicuramente accettato.; gli diede istruzioni precise su ciò che doveva fare.
L’uomo, tornato dai due amici, assicurò che le donne stavano preparando la cosa.
Avendo deciso di andare a Creta, venduti alcuni possedimenti, dicendo che volevano commerciare, vendute tutte le cose loro per procurarsi denari, comprarono una nave veloce e leggera, la armarono e aspettarono il giorno della partenza.
Anche le donne, accese dalle dolci parole di Ninetta, attendevano con ansia di partire.
Venuta la notte in cui dovevano imbarcarsi, le tre sorelle, aperto un cassone del padre, presero da esso una grandissima quantità di denari e di gioielli e, con essi, uscite di casa di nascosto, raggiunsero i tre amanti che le aspettavano.
Senza indugio salirono sulla nave e partirono.
Remando vigorosamente, senza mai fermarsi, la sera seguente giunsero a Genova, dove gli amanti festeggiarono allegramente. Rinfrescatisi , andarono via e, di porto in porto, prima di otto giorni, senza alcun impedimento, giunsero a Creta.
Nell’isola vicino a Candia comprarono grandi e bei possedimenti, in cui costruirono bellissime abitazioni
dove, con molti servitori, cani, uccelli e cavalli, tra feste e banchetti, con le loro donne, come gran signori, cominciarono felicemente a vivere.
Come spesso succedeva, anche le cose che piacevano molto, se se ne  aveva in grande abbondanza, stancavano e non piacevano più.
Restagnone che aveva, nelle difficoltà, molto amato Ninetta, potendola avere senza difficoltà, cominciò a non amarla più.
Avendo conosciuto ad una festa una giovane bella e gentile del paese, cominciò a corteggiarla e a fare per lei molte feste. Ninetta si accorse di ciò e provò una gelosia così grande che egli non si poteva muovere senza che la donna non lo sapesse e se ne crucciasse.
Ma come l’abbondanza delle cose provocava fastidio, così il rifiuto delle stesse aumentava il desiderio, nello stesso modo i lamenti di Ninetta accrescevano il nuovo amore di Restagnone.
Ben presto Ninetta, chiunque fosse stato a riferirglielo, fu sicura che Restagnone amava un’altra donna.
Per questo fu presa da una grandissima ira e da un gran furore, trasformatosi l’amore in violento odio.
Decise, dunque, di uccidere Restagnone per vendicare l’offesa ricevuta.
Fatta venire una vecchia greca molto abile nel preparare veleni, le fece preparare un’acqua avvelenata, promettendole ricchi doni.
Una sera, senza più contatti con la vecchia, fece bere l’intruglio a Restagnone, che non sospettava nulla.
La potenza del veleno fu tale che prima dell’alba l’uccise.
Le sorelle ,insieme a Folco e ad Ughetto, piansero con lei e seppellirono onorevolmente l’uomo, non sapendo che era stato avvelenato.
Dopo alcuni giorni, per un altro misfatto, fu catturata la vecchia che aveva preparato il veleno, la quale, sotto tortura, confessò come erano andate le cose.
Il duca di Creta, senza dir nulla, di nascosto, fece catturare Ninetta, che senza alcun martirio, raccontò come era morto Restaglione.
Folco e Ughetto, informati dal duca, riferirono alle loro donne perché Ninetta era stata catturata.
Esse se ne rattristarono molto e cercarono in tutti i modi di evitare il rogo alla donna.
La Magdalena, che era giovane e bella, era stata molto desiderata dal duca di Creta, ma l’aveva sempre rifiutato. Pensando di poter salvare dal rogo la sorella, mandò un ambasciatore fidato e si offrì a lui a due condizioni: una che dovesse riavere la sorella sana e libera, l’altra che la cosa dovesse rimanere segreta.
Dopo aver lungamente pensato ,il duca si accordò in tal senso.
Fatti trattenere dalla Polizia Folco e Ughetto per una notte, come se volesse informarli del fatto, si incontrò segretamente con Magdalena.
Fece portare  Ninetta, chiusa in un sacco, come se volesse farla gettare nel fiume, legata con delle grosse pietre, per farla annegare, e gliela donò , come prezzo per quella notte.
La mattina dopo, nell’allontanarsi, la pregò che quella notte non fosse l’ultima e che mandasse via Ninetta, colpevole, perché egli non fosse biasimato e non dovesse nuovamente infierire contro di lei.
Frattanto Folco e Ughetto furono informati che Ninetta era stata affogata e furono liberati.
Giunsero a casa e consolarono le due sorelle per la morte della primogenita.
Pure Folco si accorse che Ninetta era viva, sospettando su come erano andate le cose, costrinse Magdalena a confessargli tutta la verità. Vinto dal dolore e dall’ira, Folco, tirata fuori la spada, uccise Magdalena che implorava pietà. Poi, temendo l’ira del duca, lasciata la donna morta nella camera, andò a prendere Ninetta. Sorridendole per darle fiducia, la indusse a partire con lui, portando con sé quei pochi soldi che riuscì a racimolare. Giunti alla marina, montarono sulla barca e partirono e non si seppe mai dove fossero arrivati.
Il giorno seguente Magdalena fu trovata morta. Alcuni che odiavano Ughetto fecero sapere al duca che il giovane aveva ucciso la donna.
Il duca, che amava molto Magdalena, infuriato, corse alla casa e costrinse Ughetto e la sua donna, che non sapevano nulla della fuga  dei due, a confessare che avevano ucciso Magdalena.
Dopo la confessione, con una grande quantità di denaro, che avevano nascosto in caso di bisogno, corruppero i carcerieri e, montati sopra una barca, di notte, se ne fuggirono a Rodi. Colà vissero in miseria non molto a lungo.
A tale sventura per sé e per gli altri portarono il folle amore di Restaglione e l’ira di Ninetta.




giovedì 15 maggio 2014

QUARTA GIORNATA - NOVELLA N.2

QUARTA GIORNATA –NOVELLA N.2

Frate Alberto fa credere ad una donna che è innamorato di lei l’Arcangelo Gabriele, sotto le cui spoglie più volte giace con lei; poi, per paura dei parenti di lei, fuggito dalla casa, si rifugia nella casa di un pover’uomo, il quale il giorno dopo lo conduce in piazza, travestito da uomo selvatico, dove ,riconosciuto e preso dai suoi frati, è incarcerato.

Le lacrime per la novella raccontata dalla Fiammetta avevano riempito gli occhi delle compagne; Filostrato commentò che egli sarebbe morto volentieri pur di provare solo una piccola parte del piacere provato da Ghismunda con Guiscardo.
 Fece ,poi, segno di proseguire a Pampinea, che, per rallegrare l’animo commosso delle compagne, decise di raccontare una novella un po’ più allegra, senza allontanarsi dal tema proposto.
Iniziò, dunque, il racconto citando un proverbio popolare “ chi è reo ,e buono è creduto, può fare il male e non è creduto”, a testimonianza dell’ipocrisia dei religiosi. Essi, con cappe larghe e lunghe, con visi pallidi, usano voci umili e mansuete nel chiedere agli altri, invece voci aspre e fiere nel rimproverare agli altri i loro stessi vizi. Assegnando ,come se fossero i padroni del paradiso, a chi muore posti più o meno eccellenti, secondo la quantità di danaro lasciata loro, ingannano i fedeli.
Pampinea si augurava che, col piacere di Dio, potessero essere svelate le loro menzogne, come capitò ad un frate minore, non giovane, che era ritenuto a Venezia uno fra i più autorevoli sacerdoti.
Di quello voleva raccontare per rallegrare gli spiriti, rattristati per la morte di Ghismunda.
Visse, dunque, ad Imola, in uomo scellerato e corrotto, chiamato Berto della Massa, le cui opere malvagie erano conosciute da tutti e gli imolesi non gli credevano sia che dicesse la bugia che la verità.
Non potendo più vivere ad Imola, si trasferì a Venezia, che accoglieva tutti gli scarti umani. Qui, pentito di tutte le cattive azioni commesse, pervaso da grande umiltà, divenuto religioso, si fece frate minore col nome di Alberto da Imola, facendo penitenza e astinenza e né mangiava carne ,né beveva vino, quando non ne aveva di buono. Da falsario, ladrone, ruffiano, omicida, divenne gran predicatore, e, fattosi prete, quando celebrava la messa sull’altare piangeva per la passione di Cristo.
In breve, seppe conquistare così bene la fiducia dei veneziani che tutti , quando dovevano fare testamento, gli chiedevano consiglio, gli affidavano i loro denari, si confessavano e si fidavano di lui.
Così facendo da lupo era diventato pastore e la sua fama era maggiore di quella di San Francesco d’Assisi.
Un giorno una donna sciocca e scema, di nome madonna Lisetta, della famiglia dei Quirini, si andò a confessare da lui e gli raccontò tutti i fatti suoi, da veneziana chiacchierona qual’era.
Frate Alberto le chiese se aveva un amante. Ella rispose ,in malo modo, che ,se avesse voluto, ne avrebbe trovati troppi di amanti, perché era bella come una del Paradiso. Continuò poi, a dire tante altre cose sulla sua bellezza. Il frate capì che era scema e adatta a lui e se ne innamorò. Dopo averla rimproverata per la sua vanità ed averla confessata, la lasciò andar via con le altre donne.
Dopo alcuni giorni, con un fedele compagno, si recò a casa di madonna Lisetta e le disse che si era molto rammaricato per averla rimproverata per la sua vanità. Continuò dicendo che la notte era venuto presso di lui un giovane bellissimo che, con un grosso bastone, presolo per la cappa e gettatolo ai suoi piedi, gli aveva dato un sacco di bastonate.
Il frate, dolorante, gli aveva chiesto chi era e perché lo aveva bastonato. Il giovane aveva risposto che era l’angelo Gabriele, che amava madonna Lisetta sopra ogni altra cosa, al di fuori di Dio. Aveva aggiunto che Lisetta era di una bellezza celestiale e che non meritava il rimprovero del frate.  
L’angelo gli aveva imposto di andare dalla donna per chiederle scusa e ottenere il suo perdono.
La donna, con poco sale in zucca, godeva tutta di quelle parole e credeva di essere veramente di una bellezza celestiale. Perdonò volentieri il frate e gli chiese che altro aveva detto l’angelo.
Frate Alberto, in gran segreto, le riferì che l’Angelo Gabriele voleva che le dicesse che gli piaceva tanto e che sarebbe andato spesse volte, di notte, a stare con lei ,se non avesse temuto di spaventarla.
L’angelo le chiedeva, tramite il frate, se poteva andare una notte, per stare per lungo tempo con lei.
Precisò che ,poiché sotto l’aspetto di angelo non avrebbe potuto essere toccato da lei, avrebbe assunto le sembianze umane. La donna doveva fissargli un appuntamento e dirgli sotto quale aspetto si doveva presentare.
La stupida rispose che le piaceva molto l’angelo Gabriele e gli accendeva sempre una candela in chiesa dove c’era un suo dipinto, Aggiunse che, quando voleva venire, era il benvenuto ed ella l’avrebbe aspettato, tutta sola, nella sua camera, a patto che non avesse lasciato lei per la Vergine Maria, cui era molto legato ; poteva venire da lei in qualsiasi forma.
Allora frate Alberto le chiese, come una gran grazia, di consentire che l’angelo assumesse il suo corpo per andare da lei.. E precisò che per tutto il tempo che l’angelo Gabriele sarebbe nel corpo suo con lei, l’anima del frate sarebbe stata in Paradiso. La sciocca acconsentì.
Il furbastro, che non stava più in sé dalla gioia, se ne andò, attendendo con ansia il momento dell’incontro.
Cominciò a mangiare cose buone e dolci, in modo da mettersi bene in forze.
Come si fece notte, con un compagno fidato, entrò nella casa di un’amica, sua complice, per organizzare il tutto.
Dopo un po’ di tempo portò nella casa della complice alcuni attrezzi , con i quali si trasformò in angelo ed entrò nella camera della donna.
Come Lisetta lo vide, così bianco, gli si inginocchiò ai piedi. Egli la benedì, le fece segno di andare a letto e si coricò accanto alla sua devota.
Frate Alberto era un uomo bello e forte, la donna, fresca e morbida, trovò molto più piacevole giacere con lui che con il marito. E , quella notte, volarono senz’ali molte volte.
Avvicinandosi l’alba , l’imbroglione se ne tornò dal compagno ,al quale la femmina complice aveva fatto buona compagnia.
Madonna Lisetta, dopo pranzo, andò dal frate e gli raccontò tutte le novità dell’angelo Gabriele, aggiungendo molti particolari.
Il frate rispose che mentre l’angelo era con lei, era stato , con l’anima in un luogo bellissimo fino al mattino, mentre non sapeva dove era stato il suo corpo.
Prontamente la donna rispose che era stato con lei insieme all’angelo, e, a riprova di ciò, doveva guardare sotto il braccio destro, dove aveva dato all’angelo un bacio così forte che gli sarebbero rimasti i segni per molti giorni. Il frate rispose che avrebbe controllato.
La donna se ne ritornò a casa e ricevette per molti giorni frate Alberto , convinta che fosse l’angelo.
Un giorno madonna Lisetta, per vantare la sua bellezza con una comare, le rivelò che ella era amata , nientemeno che, dall’angelo Gabriele, il quale le diceva che era la donna più bella del mondo e della maremma.
La comare, incredula, affermò che non le risultava che gli angeli amassero come gli uomini e facessero del sesso. Ma Lisetta rispose che l’angelo, con la pace di Dio, lo faceva meglio che suo marito, che era innamorato e veniva spesso a stare con lei.
La pettegola, allontanatasi, raccontò la cosa ad una gran brigata di donne, che la raccontarono ai loro mariti e ad altre donne. Così, rapidamente, tutta Venezia ne fu piena.
Ben presto ne furono informati anche i cognati di Lisetta, che per scoprire l’angelo, si appostarono per molte
notti.
Di questo fatto arrivò notizia anche a frate Alberto, che, una notte, appena giunto nella camera della donna, sentì battere dai cognati alla porta per aprirla. Subito scavalcò la finestra e si buttò nell’acqua del Canal Grande, che scorreva di sotto. Il canale era profondo e non si fece alcun male. Nuotando giunse alla casa di un buon uomo, che lo accolse, lo mise a letto, chiuse la porta e se ne andò per i fatti suoi.
I cognati di Lisetta ,entrati nella camera, videro che l’angelo Gabriele, lasciate le ali ,se ne era volato via. Presero tutti gli arnesi e se ne andarono, lasciando la donna sola e sconsolata.
Il buonuomo che aveva accolto il frate fuggiasco, essendo a Rialto, udì come l’angelo Gabriele era andato ,di notte, a giacere con madonna Lisetta e che i cognati lo cercavano.
Ritornato a casa, chiese al frate cinquanta ducati, altrimenti l’avrebbe consegnato ai cognati di lei. Ciò fu fatto.
Per uscire dalla casa il buon uomo consigliò al frate un travestimento o da orso o da selvaggio, per recarsi alla festa del cinghiale in piazza San Marco, dove l’avrebbe condotto, mascherato.
Disse che era l’unico modo per sfuggire ai cognati che lo stavano cercando e che l’avrebbero subito riconosciuto.
Frate Alberto, malvolentieri, accettò, non vedendo altra soluzione.
L’uomo unse di miele il frate e poi ci gettò sopra piume di uccello, gli mise una corda al collo e una maschera sul capo, gli diede un bastone e gli pose al guinzaglio due cani feroci.
Poi mandò uno al Rialto a dire che bisognava che tutti andassero in piazza San Marco a vedere l’angelo Gabriele.
Subito tutti si riversarono in piazza, dove l’uomo legò il selvaggio ad una colonna, mentre mosche e tafani, attratti dal miele, gli davano gran fastidio.
Quando l’uomo vide che la piazza era ben piena, tolse la maschera a frate Alberto e disse “Signori, poiché il cinghiale non arriva e la festa non si fa, perché non siate venuti inutilmente, voglio farvi vedere l’angelo Gabriele ,il quale la notte scende dal cielo in terra per consolare le donne veneziane”.
Immediatamente frate Albero, riconosciuto da tutti, fu ingiuriato e colpito con avanzi di cibo e sporcizia di ogni genere.
La notizia giunse ai frati minori, sei dei quali vennero a Venezia, lo sciolsero, lo coprirono con un mantello e lo portarono al convento, dove fu tenuto in prigione fino alla morte.
Così costui, essendo ritenuto buono mentre era malvagio, osò farsi credere l’angelo Gabriele.
Trasformato, poi, in selvaggio, a lungo andare, accusato come meritava, invano pianse per i peccati commessi.
La narratrice si augurò che ,col volere di Dio, così potesse capitare a tutti gli altri.




giovedì 8 maggio 2014

QUARTA GIORNATA – NOVELLA N.1

 Tancredi ,principe di Salerno, uccide l’amante della figlia e le manda il cuore in una coppa d’oro; messa sul cuore dell’acqua avvelenata, la figlia beve dalla coppa e muore.

Fiammetta considerò che il compito della quarta giornata di narrare storie di amori infelici, che facevano compassione a chi li ascoltava, era stato voluto per temperare la letizia dei giorni passati.
Ella avrebbe raccontato una storia triste ,degna delle lacrime dei presenti.
Tancredi, principe di Salerno, fu un signore umano e di indole buona, se non si fosse macchiato, nella vecchiaia, le mani di sangue. Egli ebbe una sola figlia e meglio sarebbe stato se non l’avesse avuta. Costei fu amata dal padre più di qualsiasi altra figlia. Non volendo allontanarla da sé, fino ad età avanzata non l’aveva maritata. Alla fine la diede in sposa ad un figlio del duca di Padova, che ,poco dopo, morì. Ella, rimasta vedova, ritornò dal padre.
La nobildonna era bellissima, giovane, ardente e saggia più di quanto si richiedeva ad una donna. Avendo compreso che il padre non aveva intenzione di risposarla, pensò di procurarsi, di nascosto, un valoroso amante. Tra gli uomini della corte di suo padre vi era un giovane valletto, di nome Guiscardo, di umili origini, ma nobile per costumi e indole. La donna si innamorò ardentemente ed anche il giovane, essendosene accorto, la ricambiò appassionatamente, non riuscendo più a pensare ad altro che a lei.
Amandosi, dunque, l’un l’altro segretamente e non potendosi fidare di nessuno, la giovane, desiderando incontrarsi con Guiscardo, pensò ad un insolito stratagemma. Gli scrisse una lettera, fissandogli un appuntamento per il giorno seguente, e la nascose nel foro di una canna che serviva per soffiare il fuoco. La diede al giovane, consigliandogli di soffiarla per accendere il fuoco. Guiscardo, tornato a casa, guardò nella canna, vide il foro e la lettera, e , come l'uomo più felice del mondo, eseguì tutto quello che vi era scritto.
Al lato del palazzo del principe, c’era una grotta scavata nel monte, nella quale entrava ,a stento, un po’ di luce da uno spiraglio fatto artificialmente , tutto coperto di sterpi di pruni e di erbe, perché la grotta era abbandonata. In quella grotta si poteva scendere per una scala segreta, che era in una delle camere occupate dalla donna, sebbene fosse chiusa da una porta fortissima. Nessuno se ne ricordava più, perché non era stata usata da moltissimi anni. Ma Amore acuì l’ingegno della donna che riuscì ad aprire l’uscio, vide lo spiraglio, avvisò Guiscardo , gli indicò l’altezza di quello da terra.
Il giovane preparò una fune con nodi e cappi per poter salire e scendere, indossò un vestito di cuoio per potersi difendere dai rovi, senza dire niente a nessuno.
La notte seguente, legato bene il cappio ad un albero resistente che era nato davanti allo spiraglio, si calò con una fune nella grotta ed attese la donna. Ella, il giorno dopo, fingendo di voler dormire, licenziò le sue damigelle, si chiuse in camera da sola, aprì l’uscio e discese nella grotta.
Lì trovò Guiscardo ed insieme fecero una meravigliosa festa. Da quel passaggio si trasferirono nella camera di lei, dove rimasero per gran parte del giorno. Poi Guiscardo se ne tornò nella grotta e la donna , chiusa la porta, chiamò le sue damigelle. Il giovane , venuta la notte, salendo con la fune, per lo spiraglio da dove era venuto se ne ritornò a casa .
Questo percorso, in seguito ,fu ripetuto molte volte. Ma la fortuna, invidiosa, trasformò la loro gioia in pianto doloroso.
Di solito Tancredi se ne andava, tutto solo, nella camera della figlia per trattenersi a discutere con lei. Un giorno, dopo pranzo, andò nella camera mentre la figlia era in giardino con le sue damigelle, senza che nessuno lo vedesse.
Decise di attenderla, senza chiamarla, avendo trovando le finestre chiuse e le tende del letto abbassate, si sedette sopra uno sgabello, in un angolo, come se si fosse nascosto apposta ,e si addormentò.
Mentre il principe dormiva, Ghismonda (quello era il nome della giovane) che per sventura aveva detto a Guiscardo di andare da lei, lasciate le damigelle in giardino, entrò nella sua camera.
Senza accorgersi del padre, aprì la porta a Guiscardo e se ne andò con lui sul letto, scherzando e ridendo, come facevano di solito.
Frattanto Tancredi si svegliò e vide ciò che il giovane e la figlia facevano. Il principe rimase nascosto, pensando al modo di vendicarsi dell’offesa, con minore vergogna da parte sua.I due amanti, per lungo tempo, come facevano di solito, stettero insieme, senza accorgersi di Tancredi: Alla fine scesero dal letto, il giovane se ne tornò nella grotta e la donna uscì dalla camera.
Il principe, benché  vecchio, si calò nel giardino da una finestra e, enormemente addolorato, se ne tornò nelle sue stanze.La notte seguente, per ordine del sovrano, Guiscardo fu catturato da due uomini mentre usciva dallo spiraglio. Condotto alla presenza di Tancredi, il giovane si giustificò incolpando Amore, che poteva più del principe e di sé stesso. Fu ,immediatamente ,imprigionato.
Come al solito, dopo pranzo, il padre si recò nella camera della figlia, ignara di tutto. Piangendo egli la rimproverò aspramente perché si era unita ad un uomo senza averlo sposato, per di più aveva scelto un uomo di umilissime origini che era stato accolto per carità da bambino alla sua corte. Le disse ,ancora, che aveva deciso quale punizione dare a Guiscardo , che aveva fatto catturare la sera prima, mentre usciva dalla grotta, ma non sapeva che cosa fare con lei. Era sua figlia ,l’aveva sempre amata più di ogni cosa al mondo ed era sdegnato per la sua follia. Da un lato avrebbe voluto perdonarla, dall’altro punirla crudelmente. Ma prima di decidere le chiese cosa aveva da dire a sua discolpa.Ghismonda udendo il padre , comprendendo che il suo amore segreto era stato scoperto e che Guiscardo era stato catturato, provò un dolore immenso. Non ricorse alle lacrime per impietosire il padre, ma, con animo fiero, decise di non vivere più, ritenendo che il suo Guiscardo fosse morto. Quindi , non come una femmina piangente, ma come una donna orgogliosa confessò al padre tutto l’amore che aveva provato e che continuava a provare per il giovane e che avrebbe provato anche dopo la morte.
Accusò ,poi, Tancredi di essere stato poco sollecito a maritarla, dimenticando che era fatta di carne e non di pietra o di ferro. Egli ,essendo vecchio, aveva dimenticato quanto fossero forti le leggi della gioventù.
Gli rimproverò aspramente di aver trascurato il fatto che ella era ancora giovane, fatta di carne ,e, che essendo stata sposata, aveva già conosciuto il piacere del sesso.
E continuò dicendo che non aveva potuto resistere al richiamo dell’amore e si era innamorata del giovane valletto, pur avendo tentato in tutti i modi di evitarlo per non recare vergogna a sé stessa e al padre. Aveva scelto Guiscardo non per caso ma per amore. Il giovane, sebbene fosse di umili origini, era nobile per costumi e per indole. Aggiunse che se il principe avesse giudicato senza animosità, l’avrebbe ritenuto nobilissimo a differenza dei suoi nobili, tutti villani. Infine Ghismonda supplicò il padre di usare la sua crudeltà senile contro di lei, e, se aveva intenzione di punire con la morte il giovane, di uccidere anche lei con lo stesso colpo.
Tancredi prese atto della grandezza d’animo della figlia, ma non credette nella sua determinazione.
Per raffreddare l’ardente amore della donna, allontanatosi da lei, ordinò ai due sorveglianti di strangolare Guiscardo la notte seguente, di strappargli il cuore e di portarglielo. I due così fecero.
Il giorno seguente il principe si fece portare una bella coppa d’oro, vi mise il cuore di Guiscardo e lo mandò alla figlia come consolazione.
Frattanto Ghismunda, decisa ad attuare il suo proponimento, quando il padre si allontanò si fece portare delle erbe e delle radici velenose e le mise a macerare nell’acqua per tenerle pronte in caso di bisogno.
Appena scoperchiata la coppa portatale dal servo, capì che si trattava del cuore dell’amato. Lo avvicinò alla bocca e lo baciò, provando ancora più forte l’amore che aveva per il giovane. Rivolse al cuore, guardandolo, tenerissime parole d’amore, maledicendo la malvagità del padre che le aveva mandato un dono così crudele.
Promise che la sua anima si sarebbe presto ricongiunta all’anima del giovane. Così detto cominciò a piangere sul morto cuore come una fontana, baciandolo  infinite volte. Le damigelle ,non comprendendo le sue parole, cercarono inutilmente di consolarla.
Dopo aver pianto per molto tempo, alzato il capo e asciugatisi gli occhi, disse “ O mio amato cuore ,ora non mi resta nient’altro da fare che venire con la mia anima a fare compagnia alla tua”. Ciò detto si fece portare la brocca, dove era l’intruglio che prima aveva preparato, lo versò nella coppa dove era il cuore. Senza paura vi pose la bocca e bevve il veleno. Poi, con la coppa in mano, si pose sul letto, accostando il suo cuore a quello dell’amante e attese la morte.
Tancredi, temendo quello che poteva succedere, scese nella camera della figlia e si mise accanto al letto. Resosi conto della sventura, cominciò a piangere. La figlia aspramente gli  disse che non doveva piangere per lei, che non desiderava quelle lacrime. Se, comunque, provava ancora un po’ di affetto per lei, poiché non aveva voluto che vivesse di nascosto con Guiscardo ,gli chiese di seppellire il suo corpo accanto a quello dell’amante in un posto dove tutti potessero vederlo.  Poco dopo morì.
Così ebbe tragica fine l’amore di Guiscardo e di Ghismunda.
Tancredi, pentito, ahimè tardi, della sua crudeltà, con grande dolore di tutti i salernitani, onorevolmente fece seppellire i due giovani in una stessa tomba.




giovedì 1 maggio 2014

FINE TERZA GIORNATA - QUARTA GIORNATA - INTRODUZIONE

 Finisce qui la Terza giornata e incomincia la Quarta, nella quale, essendo re Filostrato, si tratta di coloro i cui amori ebbero infelice fine.




















 QUARTA GIORNATA – INTRODUZIONE

(La quarta giornata ha come introduzione la difesa che il Boccaccio fa della sua opera. Infatti quando sono state pubblicate le prime novelle, senza che l’opera fosse stata ancora compiuta, si è sollevato un vero vespaio di critiche).
Carissime donne, protagoniste indiscusse del mio lavoro, mi rivolgo a voi, affermando che non mi sarei mai aspettato di provocare tanta invidia. Essa, di solito, colpiva solo le alte torri e le alte cime degli alberi (gli autori di opere importanti). Le mie sono soltanto “novellette” , da me scritte non solo in fiorentino volgare e in prosa, ma anche in uno stile assai umile e dimesso, che non avrebbero dovuto, assolutamente, suscitare tanto scalpore. Invece hanno ragione i saggi quando dicono che solo la miseria è senza invidia sulla terra.
Alcuni hanno criticato le “novellette” dicendo che a me piacciono troppo le donne e non è onesto che voglia rallegrarle; altri, ancor peggio, che voglio addirittura lodarle ; altri, ancora, hanno trovato sconveniente che, a quarant’anni, io vada dietro a sciocchezze come il ragionar di donne o rendermi loro gradito, mentre sarebbe più saggio dedicarmi alla poesia e cercare di guadagnarmi il pane. Infine, altri mi hanno accusato di aver detto menzogne, perché le cose da me raccontate sono andate diversamente. Tutto ciò viene detto per danneggiare la mia fatica.
Attaccato e lacerato da ogni parte dai morsi dell’invidia, intendo rispondere in maniera leggera e garbata ai miei denigratori per togliermeli dalle orecchie e voglio farlo subito. Infatti sono solo alla terza giornata, ad un terzo della mia fatica ,ed ho già tanti oppositori che  quando giungerò alla fine saranno moltiplicati, in modo che non potrò sconfiggerli assolutamente.
Ma ,prima di rispondere a coloro che mi criticano, in mia difesa, voglio raccontare non una novella intera, per non mescolarmi con i narratori del gruppo, ma una piccola parte di un racconto incompiuto e , perciò, di gran lunga inferiore a quelli raccontati dall’allegra brigata.
Viveva a Firenze, diverso tempo addietro, un uomo chiamato Filippo Balducci, di umili origini, ma ricco e ben avviato, che aveva una moglie che molto amava, ricambiato.
Avvenne che la donna morì, lasciandolo con un figlioletto di due anni.
Filippo, non riuscendo a consolarsi per la morte della moglie, decise di allontanarsi dal mondo e di dedicarsi al servizio di Dio, insieme col figlio.
Date tutte le ricchezze in elemosina, se ne andò sopra il monte Asinaio (Senario). Lì si mise col figlio in una piccola grotta, vivendo di elemosine, di preghiere e di digiuni.
Cresceva il figlio senza fargli vedere alcuna cosa mondana che potesse distrarlo e gli parlava sempre di Dio e dei Santi, insegnandogli soltanto le preghiere. In tal modo lo tenne per molti anni nella grotta senza farlo mai uscire.
Qualche volta Filippo andava a Firenze per incontrarsi con i suoi benefattori.
Un giorno il figlio, che aveva ormai diciotto anni, gli chiese di condurlo a Firenze per fargli conoscere gli amici suoi e di Dio. Disse anche che, essendo giovane, in caso di necessità, poteva ,in seguito ,andare lui a Firenze, mentre il padre, anziano, poteva rimanere nella cella.
L’uomo, pensando che il figlio era ormai grande e abituato a servire Dio, lo condusse con sé.
Giunti a Firenze, il giovane, vedendo i palazzi, le case, le chiese, molto si meravigliò e fu preso da una grande curiosità. Mentre camminavano, si imbatterono in un gruppo di donne giovani e belle che venivano da una festa di nozze. Il giovane chiese al padre chi fossero e il padre rispose che erano una cosa cattiva.
Alla domanda del figlio “Come si chiamano” ,rispose “Elle si chiamano papere”. La curiosità del giovane non si placò, anzi egli chiese ,insistentemente, al padre di portarsi nella loro cella quelle papere. Aggiunse che le avrebbe imbeccate, che non aveva mia visto una cosa così piacevole e che quelle erano belle come gli angeli dei dipinti che, poco prima , gli aveva mostrato.
Il vecchio rispose “Non voglio; tu non sai come si imbeccano” e si pentì amaramente di averlo condotto a Firenze.
A questo punto, lascio sospesa la novella e continuo la mia difesa affermando che i miei denigratori ritengono che  mi dia troppo da fare per piacere alle donne e che le donne mi piacciono.
Confesso apertamente che ciò è vero e, se la loro bellezza e la loro leggiadria colpì un giovane eremita che non le aveva mai viste, come ciò non doveva avvenire a me che ,fin da fanciullo, avevo provato la dolcezza degli amori giovanili.
Mi possono rimproverare solo coloro che non provano gli stimoli naturali dell’amore e di questi mi curo poco. Quelli che mi criticano non sanno che anche gli anziani, con i capelli bianchi, sentono ancora gli impulsi amorosi. Ne sono testimoni Guido Cavalcanti, Dante Alighieri, Cino da Pistoia che, anche da vecchi, desiderarono essere graditi alle donne. E ,se non mi allontanassi troppo dall’argomento da trattare, potrei portare ancora molti esempi di uomini antichi e valorosi che nell’antichità vollero compiacere alle donne.
E se devo stare con le Muse del Parnaso, anche le Muse sono donne e mi hanno aiutato a comporre quei mille versi, scritti in gioventù. Inoltre, pur scrivendo cose umilissime, non mi allontano né dal monte Parnaso, né dalle Muse. E, nel passato, con le loro favole, i poeti vissero fino a tarda età, mentre molti, che cercavano le ricchezze, morirono giovani.
Riguardo, poi , a quelli che mi accusano di alterare la realtà,  li invito a portare prove concrete ,e ,se ho mentito, mi correggerò, in caso contrario, continuerò senza curarmi di loro.
Avendo già risposto abbastanza, procederò volgendo le spalle al vento che soffia, con l’aiuto di Dio e delle gentilissime donne.
Il vento della calunnia, a volte, spirando come un turbine, non smuove la polvere, altre, se la smuove e la porta in alto sopra le teste degli uomini, sulle corone dei re e degli imperatori, sopra i palazzi e le alte torri, aumenta la fama di chi è calunniato.
Se già ero intenzionato a compiacere le donne, dopo le calunnie lo sarò ancora di più, perché opero seguendo le leggi della natura. Perciò tacciano gli invidiosi e i calunniatori, che, se non si sanno riscaldare muoiano assiderati e mi lascino in pace.
Ma, poiché abbiamo molto divagato, ormai è tempo di ritornare al punto da cui siamo partiti e riprendere l’ordine della narrazione già cominciato.

Già era giorno e le stelle erano scomparse, quando Filostrato fece andare tutta la brigata in giardino, poi pranzarono, si riposarono ed, infine ,si posero tutti a sedere vicino alla bella fontana, e ,su suo ordine , Fiammetta cominciò a raccontare.