giovedì 28 maggio 2015

OTTAVA GIORNATA - CONCLUSIONE

OTTAVA GIORNATA – CONCLUSIONE

Appena Dioneo ebbe finita la sua novella, Lauretta, perché era terminato il periodo del suo regno, dopo aver commentato il consiglio di Pietro Canigiano e la sagacità di Salabaetto, si tolse la corona e la pose in testa ad Emilia. Elogiò la di lei bellezza e si augurò che le sue opere fossero pari alla sua bellezza.
Emilia, sentendosi elogiare pubblicamente , cosa che le donne desideravano sommamente, si vergognò un poco ed il suo viso si colorì come le rose appena sbocciate, sul far dell’aurora.
Quando il rossore scomparve dal viso, chiamò il siniscalco e gli diede i suoi ordini.
Poi, rivolgendosi alle donne,  disse loro che, come i buoi, i quali, dopo aver lavorato sotto il giogo per buona parte del giorno, venivano lasciati liberi di andare al pascolo per i boschi, come i giardini ricchi di varie piante erano belli al pari dei boschi di querce, così , dopo che per tanti giorni erano stati costretti a narrare rispettando un tema prestabilito, ella riteneva che fosse giusto ed opportuno vagare con la fantasia per riprendere forza.
Aggiunse che l’indomani ognuno avrebbe narrato novelle a tema libero, come gli sarebbe piaciuto. Era sicura che le novelle sarebbero state ugualmente graziose. In quel modo il suo successore nel reame avrebbe potuto più facilmente riportare la narrazione nelle leggi stabilite.
Detto ciò, liberò ognuno fino all’ora di cena.
La decisione della regina piacque a tutti. Poi si alzarono e chi si dedicò ad una cosa, chi ad un’altra: le donne a fare ghirlande e a scherzare, i giovani a giocare e a cantare, così impegnati fino ad ora di cena.
Alla fine la regina, secondo le abitudini, comandò a Panfilo di cantare una canzone.
Panfilo cominciò cantando una canzone che celebrava l’amore appagato e gioioso.
Il giovane si rivolgeva ad Amore e diceva :
 “ Amore, sono felice di ardere nel tuo fuoco,
 tanti sono il piacere e l’allegrezza che sento.
 L’allegria che sento nel cuore,
 per la gioia che Amore mi ha recato,
 è tanta che, non potendovi più entrare,
 esce da fuori.
Nel viso sereno
 mostro il mio lieto stato,
 perché, essendo innamorato,
 sto volentieri dove brucio.
 Io non so dimostrare col canto,
 né col disegno, o Amore,
 quello che sento,
 e se pure lo sapessi, è meglio celarlo,
 perché se fosse conosciuto,
 si trasformerebbe in tormento:
 ma sono contento così,
perché ogni parola sarebbe  insufficiente
ad esprimerne anche una minima parte.
Chi avrebbe potuto credere che le mie braccia
giungessero mai
dove le ho tenute,
 e la mia faccia si potesse accostare
 là dove si è accostata
per ottenere grazia e salvezza?
Nessuno avrebbe creduto
 alla mia fortuna; perciò io mi infoco
 e mi rallegro,nascondendo il mio amore”.
La canzone di Panfilo finì, dopo che tutti avevano fatto coro.
Tutti notarono le parole della canzone e, pur cercando di indovinare ciò che egli voleva nascondere, pur immaginando varie cose, nessuno giunse alla verità.
La regina, visto che era finita la canzone e le donne e i giovani volevano riposarsi, comandò a ciascuno di andare a dormire.



                                                        






















Finisce l’Ottava giornata del decameron; incomincia la Nona, nella quale, sotto il reggimento di Emilia, ognuno ragiona di ciò che più gli piace e più gli aggrada.






giovedì 21 maggio 2015

OTTAVA GIORNATA - NOVELLA N.10

OTTAVA GIORNATA – NOVELLA N.10

Una siciliana abilmente toglie a un mercante ciò che egli ha portato in Palermo; costui ,fingendo di essere tornato con molta più mercanzia di prima, ripresi i suoi soldi, la lascia ad acqua e capecchio.

La novella della regina fece tanto ridere che tutti ben presto ebbero le lacrime agli occhi.
Come ebbe finito, Dioneo, ultimo a raccontare, disse che le beffe piacciono di più quando ad essere beffato è un maestro delle burle.
Egli intendeva, appunto, raccontare una novella in cui rimase beffata la più grande maestra del beffare altrui.
Soleva esservi nel passato e vi era al tempo loro un’usanza nei paesi di mare che avevano un porto, secondo la quale tutti i mercanti che approdavano lì dovevano scaricare le loro mercanzie in un fondaco (magazzino), che era chiamato dogana. Esso apparteneva al Comune o al signore di quelle terre, agli addetti i mercanti davano un elenco delle mercanzie lì depositate, con il loro valore; chiudevano ,poi, la porta a chiave.
I doganieri scrivevano sul libro della dogana tutta la mercanzia, riservandosi il diritto di pagare al mercante tutto o parte di essa. Dal libro della dogana i sensali traevano informazioni circa la qualità e la quantità delle mercanzie che vi erano depositate ed anche su chi erano i mercanti. Con tali mercanti, poi, se volevano, trattavano di baratti, di vendite e di altri affari.
Tale usanza c’era anche a Palermo, in Sicilia, dove c’erano anticamente ed anche in quei tempi, femmine bellissime di corpo, ma nemiche dell’onestà, le quali da chi non le conosceva erano ritenute donne onestissime.
Esse, dedite non a rodere ma a scorticare gli uomini, come vedevano un mercante forestiero, si informavano alla dogana di ciò che aveva e di quanto poteva fare. Poi, con atti piacevoli e amorosi, li adescavano e li facevano innamorare. Già ne avevano attirati molti, ai quali avevano tolto buona parte della mercanzia, talvolta anche tutta. Altri, ancora, c’avevano rimesso non solo la mercanzia, ma anche la nave e vi avevano lasciato la carne e le ossa, tanto la barbiera aveva saputo usare il rasoio.
Non molto tempo prima arrivò, mandato dai suoi capi, un giovane fiorentino, chiamato Niccolò da Cignano, soprannominato Salabaetto, con tanti panni di lana che erano avanzati alla fiera di Salerno, che potevano valere cinquecento fiorini d’oro.
Pagata la tassa per quelli ai doganieri, li mise in un magazzino e ,senza fretta di venderli, cominciò ad andare in giro nella città, per divertirsi.
Egli era un bel giovane biondo e in forma, lo vide una di quelle barbiere, che si faceva chiamare madama Biancofiore, e, avendone sentito parlare, gli mise gli occhi addosso.
Il giovane se ne accorse e, ritenendola una gran bella donna, pensò di potersi menare, prudentemente, in quell’amore. Senza farne parola con nessuno, cominciò a passare davanti alla casa di lei.
Biancofiore, fingendo di essersi innamorata, gli mandò una sua femmina esperta nell’arte del ruffianesimo, la quale, con le lacrime agli occhi, gli disse che la sua bellezza aveva conquistato la sua padrona, che non trovava pace né notte, né giorno e voleva incontrarsi con lui ad un bagno, in segreto. Detto ciò, prese un anello della padrona dalla borsa e glielo donò.
Salabaetto, udendo quelle parole, fu l’uomo più lieto del mondo. Preso l’anello, se lo fregò sugli occhi, lo baciò, se lo mise al dito e rispose che se madonna Biancofiore l’amava ne era ben ricompensata, perché egli l’amava più della sua vita ed era disposto ad andare dovunque volesse, a qualsiasi ora.
La messaggera portò alla padrona la risposta e ben presto riferì a Salabaetto in quale bagno si doveva trovare il giorno seguente, dopo il vespro.
Il giovane, senza dire niente a nessuno, si recò all’ora stabilita al bagno che la donna aveva preso.
Poco dopo arrivarono due schiave ben cariche; una portava sul capo un morbido materasso e l’altra un grandissimo paniere pieno di ogni ben di Dio. Steso il materasso su una lettiera, vi mise sopra delle morbidissime lenzuola di seta e un coperta di lino di Cipro bianchissima ,meravigliosamente ricamata.
Poi, entrambe, svestitesi, entrarono nel bagno e lo pulirono alla perfezione.
Poco dopo la donna ,con altre due schiave, venne al bagno. Lì fece gran festa a Salabaetto, lo abbracciò, lo baciò e gli disse che le aveva messo il fuoco nell’anima. Poi, entrambi nudi, entrarono nel bagno con le due schiave. Qui, senza che altri lo toccassero, ella stessa, con sapone profumato di muschio e di garofano, lavò delicatamente Salabaetto, poi si fece lavare dalle schiave.
Fatto ciò, le schiave portarono due lenzuola bianchissime e sottili, profumate di rosa; una vi avvolse il giovane, l’altra la donna. Poi condussero entrambi sul letto, dove, dopo che smisero di sudare,  tolsero loro i teli, lasciandoli nudi. Tratti dal paniere vasetti di argento bellissimi, alcuni pieni di acqua di rosa, altri di acqua di fiori d’arancio, altri di acqua di fiori di gelsomino, li spruzzarono tutti. Infine li rallegrarono con dolciumi e preziosissimi vini.
A Salabaetto sembrava di essere in Paradiso, guardava estasiato la donna e non vedeva l’ora che le schiave se ne andassero per poterla prendere tra le braccia.
Appena le schiave, al comando della donna, lasciata una piccola torcia nella camera, se ne andarono, Biancofiore abbracciò il giovane ed egli lei, con grandissimo piacere di Salabaetto, al quale sembrava che la donna si struggesse d’amore per lui.
Rimasero insieme per molto tempo, poi la donna si alzò, chiamò le schiave, si vestirono e, bevendo e mangiando, si rifocillarono. Infine ,la donna, prima di andarsene, lo invitò a cena a casa sua per quella sera.
Salabaetto, molto preso dalla bellezza di lei, credendo di essere da lei amato, accettò ben volentieri l’invito, promettendole di fare tutto ciò che volesse.
Ella, ritornatasene a casa, fece ornare splendidamente la sua camera e fece preparare un’ottima cena, attendendo il giovane. Appena si fece buio Salabaetto arrivò e ,con grande festa e ben servito, cenò.
Dopo cena, entrati in camera, sentì un profumo di legno di aloe e di varie essenze cipriane e vide un bellissimo letto decorato,che gli fece pensare che la donna doveva essere ricca e importante. E, sebbene da informazioni prese aveva sentito mormorii sulla donna, si volle fidare e giacque con lei tutta la notte, molto piacevolmente.
Al mattino ella gli mise nelle mani una cintura d’argento con una bella borsa, dicendogli che gli affidava tutto quello che aveva. Salabaetto lieto l’abbracciò, la baciò e, uscito dalla casa di lei, se ne andò al mercato, dove si recavano i mercanti.
In seguito si incontrò spesso con lei, invischiandosi sempre di più.
Un bel giorno egli vendette tutti i suoi panni in contanti, ottenendo un buon guadagno.
Subito la buona donna ne fu informata, non da lui ma da altri.
Quando Salabaetto si recò da lei, lo accolse abbracciandolo e baciandolo, tanto infiammata che pareva volesse morire d’amore tra le sue braccia. Gli voleva donare due bellissime coppe d’argento che il giovane non volle accettare, ben sapendo che ognuna valeva almeno trenta fiorini d’oro, senza che ella avesse accettato nemmeno un soldo. Alla fine, mentre si fingeva molto innamorata e disinteressata, una sua schiava, come le era stato ordinato, la chiamò. Si trattenne un po’ fuori dalla camera, ritornò piangendo e, gettatasi sul letto, cominciò a lamentarsi dolorosamente.
Salabaetto ,meravigliato, le chiese il motivo del suo dolore. Ella, dopo essersi fatta molto pregare, gli disse che aveva ricevuto lettere da Messina in cui il fratello le chiedeva di vendere ed impegnare tutto ciò che avevano a Palermo e di mandargli, entro otto giorni, mille fiorini d’oro, altrimenti gli sarebbe stata tagliata la testa. Continuò dicendo che non sapeva come fare per poter avere quella somma in così poco tempo. Infatti, se avesse avuto almeno quindici giorni, avrebbe potuto procurarsene molti di più, anche se avesse dovuto vendere dei suoi possedimenti. Ma purtroppo non poteva e avrebbe voluto morire. Detto ciò, fortemente rattristata, continuò a piangere.
Salabaetto, cui l’amore aveva tolto ogni senno, credendo alle lacrime a alle parole ,disse “ Madonna, io vi potrei dare non mille ma cinquecento fiorini d’oro, se vi sta bene, se voi credete di potermeli restituire fra quindici giorni; per fortuna ,proprio ieri, ho venduto i miei panni, altrimenti non avrei potuto prestarvi nemmeno un soldo".
La donna, sentendo che il giovane era stato per tanto tempo senza soldi, disse ,con falsità, che ,se l’avesse saputo, glieli avrebbe prestati volentieri, non mille, ma certamente cento o duecento.
Salabaetto rispose che poteva aiutarla e l’avrebbe fatto volentieri.
Biancofiore, tutta moine e lacrime, rispose che ella era già sua senza quel prestito di denaro e lo sarebbe stata ancora di più per la gratitudine di aver salvato la testa del fratello. Aggiunse che prendeva quei soldi malvolentieri, avendone bisogno, con la speranza di renderglieli al più presto, impegnando, in caso di necessità, tutte le sue cose.
Salabaetto cominciò a confortarla e rimase tutta la notte con lei. Al mattino, senza aspettare da lei alcuna richiesta, le portò bei cinquecento fiorini d’oro, che ella, sorridendo nel cuore e piangendo con gli occhi, accettò, con una semplice promessa verbale di restituzione.
Come la donna ebbe i denari, cominciarono a mutare i suoi atteggiamenti. Mentre prima il giovane andava a casa della donna ogni volta che voleva, poi incominciarono a sopraggiungere mille scuse, per cui doveva presentarsi sette volte per poter entrare una sola. Non gli erano più fatte le feste e le carezze di prima.
Essendo passati più di due mesi dal termine fissato per la restituzione dei denari, gli venivano date solo parole in pagamento.
Salabaetto, compresi l’inganno della donna e la propria stupidità, perché non poteva pretendere nulla, non avendo alcuna prova scritta né alcun testimone, piangeva per la sciocchezza commessa, più triste che mai.
Avendo ricevuto dai suoi maestri numerose lettere di richiesta dei denari ricavati dalla vendita dei panni, decise di partire, temendo di essere scoperto. Salito su una piccola nave, se ne andò non a Pisa ma a Napoli.
A Napoli, in quel tempo, si trovava il loro compare Pietro del Canigiano, tesoriere dell’imperatrice di Costantinopoli, uomo di grandissima intelligenza e di sottile ingegno, grandissimo amico di Salabaetto e della sua famiglia. A lui il giovane raccontò tutto ciò che gli era successo, chiedendogli aiuto e consiglio per poter vivere decorosamente, affermando che non intendeva ritornare a Firenze mai più.
Il Canigiano lo rimproverò dicendogli “ Hai fatto male, non hai obbedito ai tuoi maestri ed hai speso troppi denari in dolcezze, ma ormai è fatto, bisogna trovare un rimedio”, E. da uomo saggio, disse che cosa doveva fare al giovane, che subito decise di obbedire.
Avendo ancora qualche denaro ed avendonegliene prestati altri il Canigiano, fece molte balle ben legate, comprò ancora 20 botti di olio ,le riempì e, caricata ogni cosa, se ne tornò a Palermo.
Affidate le balle e le botti ai doganieri e fatta scrivere ogni cosa, le fece mettere nei magazzini, dicendo che non si doveva toccare niente, finchè non fosse arrivata l’altra mercanzia, che attendeva.
Biancofiore ne ebbe subito notizia, seppe che la merce valeva circa duemila fiorini d’oro, mentre quella che doveva arrivare ne valeva circa tremila.
La donna pensò di aver ricavato poco, perciò decise di restituirgli i cinquecento fiorini per poter avere la maggior parte dei 5.000, perciò lo mandò a chiamare.
Salabaetto, divenuto furbo, vi andò.
Ella, fingendo di non sapere niente di ciò che aveva portato, gli fece una gran festa e gli chiese se si era preoccupato perché non gli aveva restituito i suoi denari alla data prevista.
Il giovane, ridendo, disse “ Madonna, in verità mi dispiacqui un poco, come colui che si sarebbe tolto il cuore per darvelo, se l’aveste gradito. Vi voglio dire che è tanto l’amore che ho per voi che ho fatto vendere la maggior parte dei miei possedimenti ed ho portata qui tanta mercanzia del valore di oltre 2.000 fiorini e ne aspetto da Ponente tanta altra che ne varrà almeno 3.000. Intendo fare qui un’azienda e di fermarmi qui per esservi sempre vicino “.
E la donna gli rispose “ Vedi, Salabaetto, mi piace moltissimo la tua decisione di fermarti qui, perché ti amo più della mia vita, e spero di stare ancora molto tempo con te. Ma mi voglio scusare perché, prima che te ne andassi, alcune volte volevi venire da me e non potesti, alcune volte venisti e non fosti accolto lietamente, come solevi e, oltre a ciò, non ti resi i tuoi denari al termine promesso. Devi sapere che, in quel periodo, ero in gran dolore e afflizione e chi si trova in quella condizione, sebbene ami molto un altro, non può dedicare molti pensieri a chi vorrebbe. Inoltre, devi sapere che è molto difficile per una donna trovare 1.000 fiorini d’oro.
Ogni giorno le si dicono un sacco di bugie senza che ella ottenga ciò che le è stato promesso, perciò è costretta a mentire ad altri. Per quel motivo, non per altro, non ti rendei i tuoi denari  Poco dopo seppi della tua partenza. Se avessi saputo dove mandarteli te li avrei mandati, ma , poiché non lo sapevo ,te li ho conservati “.
E, fattasi portare una borsa, dove erano i denari, gliela consegnò ,dicendogli di contare se c’erano tutti i 500 fiorini d’oro.
Salabaetto fu lietissimo, li contò, trovò che erano 500 e li ripose. Poi la ringraziò e le disse che, incassati gli altri denari, sarebbe stato disponibile per ogni altra di lei necessità.
Confermando di essere ancora innamorato, il giovane riprese la relazione amorosa con Biancofiore, accolto con grande amore e grandi onori.
Ma Salabaetto voleva punire l’inganno subito, ingannando egli stesso la donna.
Un giorno ella lo mandò ad invitare a cena a casa sua ed egli andò con un volto così malinconico e triste che pareva in punto di morte.
Biancofiore l’accolse abbracciandolo e baciandolo e gli domandò il perché di tale malinconia.
Dopo essersi fatto molto pregare, egli disse “ Sono distrutto perché la nave sulla quale è la mercanzia che aspettavo è stata presa dai corsari di Monaco, che chiedono un riscatto di 10.000 fiorini d’oro. A me tocca di pagarne 1.000 e non ho denari , perché i 500 che mi rendeste li ho mandati a Napoli per investimenti in tele, da portare qui. Se vorrò vendere adesso la mercanzia che ho qui, dovrò svenderla a poco prezzo e ne ricaverò poco e niente. Qui non sono ancora così conosciuto da trovare qualcuno che mi possa aiutare, perciò non so che fare e dire. Se non mando i denari, la mercanzia sarà portata a Monaco e non riavrò più nulla”.
La donna, tutta addolorata per la notizia, poiché le sembrava di perdere tutto, pensando a cosa poteva fare perché la mercanzia non andasse a Monaco, disse “ Dio sa come sono rammaricata, se avessi i denari che ti servono, te li presterei immediatamente, ma non li ho. E’ vero che c’è una persona che pochi giorni fa mi ha prestato i 500 fiorini da restituirti, ma presta ad usura e vuole il trenta per cento di interesse. Se ti volessi rivolgere a lei, dovresti dare un buon pegno ed io sono pronta ad impegnare tutti i miei averi e me stessa per poterti servire, ma il rimanente, come te lo procurerai ?”.
Salabaetto comprese subito che l’usuraio era la donna stessa e suoi dovevano essere i denari prestati, la ringraziò e disse che non avrebbe mai pagato un interesse tanto alto, stretto dal bisogno. Voleva, invece, lasciare in garanzia la mercanzia che aveva in dogana, facendola registrare a nome di chi gli avrebbe prestato i denari. Ma voleva avere la chiave del magazzino, per poter mostrare la mercanzia ,se fosse richiesto, e per essere sicuro che nessuna cosa fosse cambiata o rubata.
La donna convenne che era giusto.
Nel giorno stabilito ella mandò un sensale di sua fiducia, gli diede 1.000 fiorini d’oro, che il sensale prestò a Salabaetto. Il sensale fece scrivere a suo nome  la merce che il giovane aveva nel magazzino; furono completati i contratti, che furono controfirmati in perfetto accordo, e ognuno se ne andò per i fatti suoi.
Salabaetto, appena potè, su una navicella, se ne tornò a Napoli da Pietro del Canigiano con 1.500 fiorini d’oro. Di lì mandò a Firenze ai suoi maestri un rendiconto dei panni che gli avevano affidato.
Pagato Pietro e tutti quelli cui doveva qualcosa, per più giorni col Canigiano rise dell’inganno fatto alla siciliana.
In seguito, smise di fare il mercante e se ne andò a Ferrara.
Biancofiore, non trovando Salabaetto a Palermo, divenne sospettosa. Dopo aver aspettato ben due mesi, visto che non veniva, chiamò il sensale e fece aprire i magazzini. Fece aprire prima le botti, che si credeva fossero piene di olio, e, invece, le trovò piene di acqua marina, avendo ciascuna sull’apertura ,una certa quantità di olio.
Poi, sciogliendo le balle, ne trovò soltanto due piene di panni, mentre tutte le altre le trovò piene di capecchio (sfilacciatura). In breve, tutto ciò che c’era non valeva più di 200 fiorini.
Biancofiore, ritenendosi fregata, pianse i 500 fiorini, ma ancora di più i mille prestati, dicendo spesso “ Chi ha a che fare con un tosco non può essere losco”. Cioè “ Chi ha a che fare con un toscano non può essere cieco”.
E così rimase con il danno e con le beffe, perché trovò uno che ne sapeva quanto lei.





giovedì 14 maggio 2015

OTTAVA GIORNATA - NOVELLA N.9

OTTAVA GIORNATA – NOVELLA N.9

Maestro Simone ,medico, per diventare componente di una brigata che va in corso, mandato una notte in un luogo, viene gettato da Buffalmacco in una fogna e lasciato lì.

Dopo che le donne ebbero commentato il mettere in comune le mogli, fatto dai due senesi, la regina, che sola doveva narrare prima di Dioneo, incominciò dicendo che Spinelloccio aveva tratto un buon guadagno dalla beffa fattagli dal Zeppa. Ella intendeva parlare di uno che se l’andò a cercare e riteneva che quelli che lo beffarono fossero più da elogiare che da biasimare.
La beffa fu fatta ad un medico che tornò a Firenze da Bologna; essendo una bestia, tornò tutto coperto da pelli di scoiattolo (un pellicione).
Come accadeva ancora ai loro tempi, i cittadini di Firenze andavano all’Università di Bologna e ritornavano chi giudice, chi medico e chi notaio, con abiti lunghi, larghi, scarlatti, con pellicce, di grande apparenza.
Tra questi, non molto tempo prima, un maestro ,Simone da Villa, più ricco di beni paterni che di intelligenza, ritornò vestito di scarlatto, con un gran cappuccio, dottore in medicina, come egli stesso diceva, e prese casa in quella che era chiamata via del Cocomero.
Il maestro Simone aveva l’abitudine di chiedere a chi l’accompagnava notizie su tutti gli uomini che passavano davanti a lui. Tra questi volse l’attenzione su due pittori di cui si era già parlato nelle giornate precedenti: Bruno e Buffalmacco, che stavano sempre insieme ed erano suoi vicini. Gli sembrava che essi non si curassero degli altri e vivessero più lieti.
Chiese ,allora, informazioni su di loro. Gli venne riferito che erano poveri uomini e pittori.
Si convinse che, essendo uomini astuti, dovevano trarre grandissimi profitti da qualche cosa non conosciuta da nessuno, perché non era possibile vivere così lietamente nella povertà.
Gli venne, dunque, il desiderio di diventare amico di entrambi o almeno di uno dei due.
Ebbe l’opportunità di diventare amico di Bruno che, dopo poche volte che era stato con lui, comprese che era un animale e cominciò a divertirsi alle sue stupidate.
Il medico ebbe gran piacere di quella amicizia , lo invitò alcune volte a pranzo e, credendo di essergli diventato amico, gli disse che si meravigliava che egli e Buffalmacco ,pur essendo poveri, vivessero lietamente e lo pregò di insegnargli come facessero.
A Bruno la domanda del medico sembrò sciocca, come tutte le cose che quello diceva; cominciò a ridere , pensò di rispondergli come conveniva alla sua stupidità e disse “ Maestro,posso dirlo solo a voi perché mi siete amico e a nessun altro. E’ vero che io e il mio amico viviamo il più lietamente possibile, né ricaviamo alcun profitto dalla nostra arte, e da ciò che traiamo da alcuni nostri possedimenti non potremmo ricavare neanche l’acqua che consumiamo. Neppure voglio dire che andiamo a rubare, ma noi andiamo in corso, da ciò ricaviamo tutto ciò che ci dà diletto e ciò di cui abbiamo bisogno, senza danneggiare nessuno. Da questo viene il nostro vivere lieto, che voi vedete”.
Il medico, incuriosito, credendo alle parole di Bruno, fu preso da un grandissimo desiderio di sapere che cosa fosse l’andare in corso e promise che non l’avrebbe detto a nessuno.
Bruno disse “ Oimè, maestro, che cosa mi chiedete ? E’ un segreto troppo grande, se altri lo sapessero, io potrei morire, essere cacciato dal mondo e finire nella bocca del lucifero del San Gallo. Ma, per l’amore che porto alla vostra credulità, come un melone da Legnaia, e alla fiducia che ho in voi, non posso negarvi nulla. Ve lo dirò, a patto che mi giuriate sulla croce del monastero di Montesone che non lo direte mai a nessuno”.
Il maestro promise.
Disse Bruno “ Mio dolce maestro, dovete sapere che , non molto tempo fa, visse in questa città un gran maestro di negromazia, di nome Michele Scotto, perché proveniva dalla Scozia, e ricevette grandi onori da molti gentiluomini, di cui pochi sono ancora vivi. Egli decise di partire, ma, su loro richiesta, lasciò a Firenze due discepoli molto esperti, ai quali ordinò di fare tutti ciò che i gentiluomini fiorentini avessero chiesto.
Costoro facevano per loro certi incantesimi per gli innamoramenti ed altre cosette.
Poi, trovandosi bene in città, decisero di volervi rimanere per sempre..
Per questo strinsero grandi amicizie con alcuni che avevano costumi simili a loro, senza guardare se fossero nobili o non nobili, ricchi o poveri. Per compiacere questi amici formarono una brigata di circa venticinque uomini, i quali si dovevano incontrare almeno due volte al mese, in un luogo prestabilto. Stando lì, ognuno esprimeva un desiderio ed essi lo esaudivano rapidamente nella notte.
Essendo molto amici di due di loro, Buffalmacco ed io fummo introdotti in tale brigata e ci siamo tuttora.
E vi posso dire che quando ci incontriamo è una cosa meravigliosa vedere i tendaggi della sala dove mangiamo e le tavole regalmente apparecchiate e la grande quantità di servitori, sia maschi che femmine, pronti ad obbedire, e le brocche, i fiaschi, le coppe e tutto l’altro vasellame d’oro e d’argento, in cui mangiamo e beviamo. Non vi dico le bevande sopraffine che ci vengono servite e le musiche e i canti che si odono e la cera che si arde e i dolciumi e i vini pregiati che si consumano. E, mio caro zuccone, non dovete credere che noi siamo vestiti con questi abiti, ma ognuno è vestito in maniera così raffinata che pare un imperatore.
Ma sopra tutti i piaceri vi è quello delle belle donne, le quali, come un uomo vuole, sono condotte lì da tutto il mondo. Potreste vedere lì la donna dei barbanicchi, la regina dei baschi, la moglie del sultano, l’imperatrice d’Osbech, la ciancianfera di Norrueca, la semistante di Berlinzone e la scalpedera di Narsia. E che vi sto elencando, vi sono tutte le regine del mondo, fino alla schinchimurra del Prete Giovanni .Vedi un po’ che cosa straordinaria.
Dopo che hanno bevuto e mangiato dolciumi, fatte una o due danze, ciascuna se ne va nella sua camera, con colui che l’ha richiesta. E quelle camere sono così belle che sembrano un paradiso, profumate di spezie più della vostra bottega. E i letti dove vanno a riposare sono più belli di quelli del doge di Venezia.
Vi lascio immaginare come tessono bene le loro trame.
Tra quelli che stanno meglio ci siamo io e Buffalmacco, perché egli fa venire spesso per sé la regina di Francia, ed io per me quella d’Inghilterra, che sono le donne più belle del mondo. E abbiamo saputo fare così bene che hanno occhi soltanto per noi. Potete pensare come dobbiamo essere lieti noi che abbiamo l’amore di due regine. Qesta cosa noi la chiamiamo volgarmente andare in corso, perché noi facciamo come i corsari, che prendono la roba di ogni uomo. Ma siamo differenti da loro in quanto essi non la restituiscono, mentre noi la restituiamo dopo che l’abbiamo adoperata.
Ora ,mio caro maestro, avete ben capito cosa significa andare in corso ed anche perché ciò che vi dico deve rimanere segreto”.
Il maestro che era tanto ignorante che sapeva medicare solo i fanciulli con la crosta lattea, credette a tutto ciò che Bruno aveva detto e gli venne il desiderio fortissimo di entrare a far parte di quella brigata. 
A Bruno, dunque, rispose che non c’era da meravigliarsi se erano così lieti e si ripromise di chiedergli di farlo entrare nella brigata, dopo aver aumentato l’amicizia.
Cominciò, quindi, ad invitarlo a casa sua ,a pranzo e a cena, di sera e di mattina ,e a mostrargli grande amore. Tanta era la loro familiarità che sembrava che il maestro non potesse ,né sapesse vivere senza Bruno.
Bruno, per non sembrare ingrato, aveva dipinto nella sala del medico un’immagine della Quaresima e un agnusdei (agnello di Dio) all’ingresso della sua camera e, sopra l’uscio della casa, un orinale, affinchè chiunque avesse bisogno di cure potesse distinguere la casa del medico dalle altre.
Su un terrazzino aveva dipinto la battaglia dei topi e delle gatte, che era piaciuta molto al maestro.
Spesso, dopo aver cenato con lui, gli diceva che la notte precedente era stato con la brigata e , non desiderando troppo stare con la regina d’Inghilterra, si era fatto chiamare la gumedra del gran can d’Altarisi.
Il maestro chiedeva che voleva dire gumedra e precisava che non si intendeva di quei nomi.
E Bruno diceva che non si meravigliava affatto perché aveva sentito che a lui Porcograsso (Ippocrate) e Vannaccena (Avicenna) non dicevano nulla.
Il maestro lo correggeva “ Tu vuoi dire Ipocrasso e Avicena”. E Bruno rispondeva che non conosceva bene i nomi da lui usati e viceversa. Ad esempio nella lingua del gran can gumedra voleva dire imperatrice nella loro. E, sicuramente, quella bella donnaccia gli avrebbe fatto dimenticare medicine, rimedi e impiastri.
 Una sera ,mentre reggeva il lume a Bruno che dipingeva la battaglia dei topi e delle gatte, il maestro gli disse che, avendogli parlato della brigata, gli aveva fatto nascere un così grande desiderio di far parte di essa, che non aveva mai tanto desiderato nessun’altra cosa. Voleva che andasse lì la più bella fanciulla che aveva visto l’anno prima a Cacavincigli, alla quale voleva un gran bene, e le voleva dare dieci monete d’argento, affinchè acconsentisse a stare con lui; ma lei non aveva accettato.
Lo pregava d’insegnargli che cosa doveva fare per poter far parte della brigata e di impegnarsi a inserirlo nella compagnia, perché sarebbe stato un compagno onorevole. Infatti era un bell’uomo, con gambe salde e un viso che pareva una rosa e, oltre a ciò, era un dottore in medicina , non ce ne era nessuno nella brigata, e sapeva raccontare storie e cantare canzonette e, per dimostrarlo, cominciò a cantare. Terminata la canzone, chiese a Bruno che gliene pareva. Bruno aveva una gran voglia di ridere, udendo il goffo canto .
Il maestro continuò con le sue vanterie dicendo che il padre era stato un gentiluomo, sebbene stesse in campagna, e per parte di madre proveniva da Vallecchio. Aveva libri ed altre cose più belle di ogni altro medico di Firenze. Aveva roba che era costata circa cento monete d’argento, da più di dieci anni.
Lo pregava, dunque, di farlo entrare nella brigata e gli prometteva che se si fosse ammalato l’avrebbe curato, senza chiedergli denaro.
Bruno, udendo ciò, pensò che fosse un lavaceci, stupidone, e ribattè che gli avrebbe risposto dopo aver dipinto le code dei topi.
Dipinte le code, fingendo che la richiesta gli pesasse molto, disse “ Maestro mio, so che fareste per me tutte le cose che mi avete detto. La cosa che mi chiedete, se a voi pare di poco conto, per me è grandissima ed io non la farei per nessuno al mondo. Ma l’amore che ho per voi, che mi parete saggio, e le vostre parole piene di senno mi inducono ad accontentarvi, anche se non posso fare tutte le cose che immaginate. Se mi credete vi darò il modo di ottenere ciò che desiderate, e sono sicuro che ci riuscirete, avendo bei libri ed altre cose , come mi avete detto”.
Il maestro garantì che avrebbe saputo mantenere il segreto e precisò che era stato l’uomo di fiducia di messer Gasparuolo da Saliceto, giudice del podestà di Forlimpopoli. Ed era stato il primo uomo a cui il giudice aveva detto che stava per sposare la Bergamina.
Bruno rispose che, se si era fidato Guasparuolo, si poteva fidare anch’egli. Gli spiegò che la loro brigata aveva sempre un capitano e due consiglieri che cambiavano ogni sei mesi. Senza dubbio il primo del mese successivo sarebbe diventato capitano Buffalmacco ed egli consigliere. Chi era capitano poteva mettere nella brigata chi volesse, perciò era opportuno che il medico diventasse amico di Buffalmacco e lo onorasse. Poi poteva chiedergli quello che desiderava, chè sicuramente Buffalmacco l’avrebbe accontentato.
Il maestro assicurò che avrebbe fatto tutto ciò che Bruno gli aveva consigliato ed avrebbe usato tutto il suo senno, che ne aveva tanto da poterne fornire a tutta la città.
Bruno riferì ogni cosa a Buffalmacco che non vedeva l’ora di fare ciò che il maestro chiedeva.
Il medico ,che desiderava oltremodo di andare in corso, divenne amico di Buffalmacco, cominciò a fargli delle belle cene e dei bei pranzi.
I due bricconi si divertivano un mondo e mangiavano ottimamente e bevevano ottimi vini, stando sempre a casa del maestro.
Dopo un po’ di tempo lo stupidone fece a Buffalmacco le richieste che aveva già fatto a Bruno. Al che il giovane si mostrò molto turbato e gridò molto contro Bruno che aveva riferito al maestro cose che dovevano rimanere segrete. Dopo molte discussioni si rappacificarono.
Buffalmacco, rivolto al maestro, disse “ Maestro mio, stando a Bologna avete imparato a mantenere i segreti , ed avete imparato ad insegnare l’abicì ai fanciulli, scrivendo le lettere non su una mela, come fanno gli sciocchi, ma su un melone, che è più lungo, e siete stato battezzato di domenica senza sale, se non sbaglio. Come Bruno mi ha detto, studiando medicina a Bologna, imparaste a conquistare gli uomini col vostro senno e le vostre novelle”.
Il medico, interrompendolo, si complimentò con lui perché aveva subito compreso ciò che voleva. Continuò dicendo che se Buffalmacco fosse stato con lui a Bologna, avrebbe visto che non c’era nessuno,né grande, né piccolo, né dottore, né studente, che non fosse stato soddisfatto del suo modo di ragionare e del suo senno.
Tutti si divertivano udendolo e, quando se ne partì, piangevano e non volevano lasciarlo andare. Volevano che egli solo facesse lezione agli studenti della facoltà di medicina. Ma era voluto ritornare a Firenze per le grandi ricchezze che la sua famiglia possedeva.
Bruno, rivolgendosi all’amico, disse “ Che te ne pare? Per il Vangelo, hai mai visto tu ,da qui a Parigi, uno che si intenda di orina d’asino più di costui? Devi fare oggi tutto ciò che ti chiede”.
Buffalmacco, fingendosi meravigliato per la grande sapienza del medico, garantì che avrebbe fatto tutto ciò che era in suo potere per farlo entrare nella loro brigata.
Dopo quella promessa il medico moltiplicò le attenzioni e gli onori verso i due che, divertendosi, gli facevano credere tutte le sciocchezze del mondo.
Gli promisero di dargli come donna la contessa di Civillari, che era la più bella donna che si trovasse in tutti i cacatoi del mondo.
Il maestro domandò chi fosse quella contessa e Buffalmacco gli rispose “Cetriolo mio da seme, ella è una gran donna, che ha il comando di molte case per il mondo e persino i frati minori, a suon di nacchere, la festeggiano.
Sta quasi sempre rinchiusa, ma l’altra notte passò davanti all’uscio per andare all’Arno a lavarsi i piedi e a prendere un po’ d’aria, però la sua dimora abituale è il Laterino. Lo sanno bene i suoi sergenti che vanno in giro ,portando la verga e il piombino. I suoi baroni si vedono in giro come il Tamagnin della Porta, don Meta, Manico di Scopa, lo Squacchera (tutte le forme di sterco che esce dal ventre), che sono vostri conoscenti e ora non ve li ricordate. Nelle braccia di questa grande donna vi metteremo,facendovi dimenticare quella di Cacavincigli”.
Il medico ,che era nato e cresciuto a Bologna, non conosceva il significato delle loro parole per cui fu contento della donna che i due gli volevano dare.
Poco dopo i pittori gli comunicarono che era stato accolto nella brigata.
Venuto il giorno la cui notte seguente si dovevano riunire, il maestro tenne i due a pranzo. Dopo pranzo chiese che atteggiamento doveva tenere nella brigata.
Buffalmacco gli disse che doveva essere molto sicuro di sé, altrimenti avrebbe recato loro molto danno.
Aggiunse che la sera seguente doveva andare in una di quelle tombe rialzate che erano state fatte poco tempo prima fuori Santa Maria Novella, con uno dei suoi abiti più belli, per sembrare importante e perché, dato che era un gentiluomo, la contessa lo nominasse cavaliere a sue spese.
Lì giunto ,doveva aspettare che arrivasse un uomo mandato da loro.
Lo informavano, inoltre, che sarebbe arrivata una bestia nera e cornuta, non molto grande, che avrebbe fatto un gran rumore e molti salti per spaventarlo, ma, vedendo che non si spaventava, si sarebbe calmata e si sarebbe accostata a lui. Allora egli doveva scendere dalla tomba senza paura e sistemarsi sopra la bestia, senza invocare Dio e i santi, e mettersi con le mani sul petto, senza toccare la bestia. Ella, allora, muovendosi dolcemente, l’avrebbe condotto da loro; ma precisarono che doveva stare molto attento a non chiamare Iddio e i santi e non doveva avere paura, altrimenti la bestia avrebbe potuto gettarlo da qualche parte o percuoterlo.
Infine gli raccomandarono di non andare se non si sentiva sicuro.
Il medico, ostentando una gran sicurezza, rispose che essi non sapevano che cosa aveva fatto di notte a Bologna, quando andava a femmine con i suoi compagni.
Giurò su Dio che una notte, poichè una non voleva andare con loro (eppure era secca e brutta, non più alta di un pollice), egli le aveva dato molti pugni, poi, presala in braccio, l’aveva portata per un bel tratto, finchè non si era convinta a seguirli. Si ricordava, ancora , un’altra volta in cui insieme ad un suo servitore, poco dopo l’Ave Maria, era passato a fianco del cimitero dei frati minori, dove , poco prima, era stata sotterrata una donna e non aveva avuto paura alcuna. Potevano star tranquilli, perché era fin troppo coraggioso.
Poi, per presentarsi onorevolmente, disse che avrebbe indossato lo scarlatto, che aveva indossato quando era diventato dottore,e, sicuramente, la brigata, quando l’avesse visto, l’avrebbe fatto al più presto capitano e anche la contessa si sarebbe innamorata di lui e l’avrebbe nominato cavaliere.
Buffalmacco gli raccomandò di non beffarli, di andare quella sera e di farsi trovare, perché faceva freddo e i medici si guardavano molto dal freddo.
Il medico lo rassicurò che non temeva il freddo e raramente indossava il suo pellicciotto sopra il gilet, perciò sarebbe sicuramente andato.
Dopo di ciò ,i tre si lasciarono.
Avvicinandosi la notte, il maestro trovò mille scuse con la moglie. Portati fuori di casa i suoi abiti migliori, al momento opportuno li indossò e se ne andò su una di quelle tombe. Si sistemò su uno di quei marmi e cominciò ad aspettare la bestia, pur facendo un gran freddo..
Buffalmacco, che era grande e grosso, si procurò una di quelle maschere che si usavano nel passato per le feste, che erano state poi vietate. Si mise indosso un pelliccione nero al rovescio, si sistemò in modo da sembrare un orso, se non fosse stato per la maschera del diavolo ,che aveva sul viso, e le corna.
Così combinato, con Bruno che lo seguiva per vedere come andasse a finire, se ne andò nella piazza nuova di Santa Maria Novella. Come si accorse che messer maestro era lì, cominciò a saltellare e a gridare all’impazzata, urlando e dibattendosi come un invasato.
Come il maestro lo vide, gli si drizzarono tutti i peli addosso e cominciò a tremare, più pauroso di una femmina.
Desiderò di essere davanti a casa sua. Pure ,visto che era lì e desiderava vedere tutte quelle meraviglie che i due birboni gli avevano raccontato, cercò di calmarsi.
Buffalmacco, dopo che ebbe imperversato per un po’ di tempo, si avvicinò alla tomba, sulla quale era il maestro, fingendo di calmarsi.
Il maestro, che tremava tutto di paura, non sapeva che fare, se salire sulla bestia o rimanere fermo. Poi, temendo che se non fosse salito, la bestia gli avrebbe fatto del male, vinse la paura e salì, sistemandosi per bene.
Poi, sempre tremando, mise le mani come gli era stato detto.
Allora Buffalmacco lentamente si diresse verso Santa Maria della Scala e , procedendo carpone, lo condusse fino al convento delle monache di Ripoli. In quella contrada, allora, c’erano delle fosse dove i contadini di quelle terre vuotavano la contessa di Civillari ( la merda) per concimare i loro campi.
Come Buffalmacco fu vicino, accostandosi ad una di esse, messa la mano sotto uno dei piedi del medico, con essa lo sollevò di dosso e lo spinse di netto, a testa in giù, nella fossa. Poi cominciò a ringhiare, a saltare e ad impazzare, andandosene lungo Santa Maria della Scala verso il prato di Ogni Santi, dove ritrovò Bruno, che era fuggito perché non poteva più trattenersi dalle risate.
Entrambi ,da lontano, si misero a vedere che cosa facesse il medico, tutto insozzato.
Il signor medico si sforzò di uscire da un posto così abominevole in tutti i modi, ricadendo qua e là.
Tutto sporco dalla testa ai piedi, sventurato, ingozzate alcune dracme , alla fine uscì fuori dalla fossa e vi lasciò il cappuccio. Con le mani, come meglio poteva, si tolse di dosso la maggior parte della schifezza e, non sapendo che altro fare, se ne tornò a casa sua e picchiò finchè non gli fu aperto.
La porta, poiché era così puzzolente, non si chiuse prima che Bruno e Buffalmacco non potessero sentire ciò che disse la moglie. La donna gli disse “ Ben ti sta, te ne volevi andare da un’altra donna e sembrare molto importante con lo scarlatto. Non ti bastavo io? Io che potevo soddisfare un intero paese ,non solo te. Volesse il cielo che ti avessero affogato, dopo averti gettato dove eri degno d’essere gettato. Ecco il medico onorato, avendo una moglie, andare in giro di notte a cercare le donne altrui”.
E la donna non smise di tormentare il pover’uomo, fino a mezzanotte, mentre egli si faceva lavare.
La mattina dopo, Bruno e Buffalmacco si presentarono a casa del medico pieni di lividure, come se avessero preso un sacco di botte. Lo trovarono già alzato e sentirono in tutta la casa un gran puzzo.
Il medico si fece incontro, augurando loro buon giorno, essi risposero con viso turbato e dissero che gli auguravano ogni male possibile perché quella notte ,per colpa sua, avevano preso un sacco di botte, come un asino che andasse a Roma, e avevano corso il rischio di essere cacciati dalla compagnia. Se non ci credeva poteva vedere le loro carni. Così dicendo ,si aprirono gli abiti davanti, mostrarono le pelle dipinta , e subito li richiusero.
Il medico non sapeva più come scusarsi e raccontava dove era stato gettato.
Buffalmacco allora gli disse che avrebbe voluto che fosse stato gettato dal ponte dell’Arno, perché aveva invocato Dio e i Santi.
Il medico rispose che non ricordava di averlo fatto , e, ancora, Buffalmacco aggiunse che il messo gli aveva detto che egli tremava come una foglia e non sapeva dove fosse. Dopo di ciò non lo avrebbero fatto entrare mai più nella brigata.
Il maestro cominciò a chiedere perdono e fece di tutto per riappacificarsi con loro.
Se prima li aveva onorati, poi li onorò ancora di più con banchetti e altre cose.
La narratrice concluse che ,come tutti avevano udito, si insegnava il senno a chi non l’aveva imparato a Bologna.











giovedì 7 maggio 2015

OTTAVA GIORNATA - NOVELLA N.8

OTTAVA GIORNATA – NOVELLA N.8

Due son amici: l’uno giace con la moglie dell’altro; l’altro ,accortosene, con sua moglie, fa in modo di chiudere l’uno in una cassa, sopra la quale, mentre l’uno è dentro ,l’altro giace con la di lui moglie.

Le vicende di Elena erano state tristi da ascoltare. Tutti ritenevano giusta la punizione, anche se pensavano che lo studente era stato troppo rigido, anzi crudele.
Terminata la novella, la regina impose alla Fiammetta di continuare.
Ella, desiderosa di ubbidire, disse che , poiché la severità dello studente offeso le aveva alquanto turbate, riteneva opportuno addolcire gli animi con qualcosa di più amabile. Voleva raccontare di un giovane, il quale, con animo più mite, ricevè un’ingiuria della quale si vendicò con maggiore moderazione. Dovevano capire che ad ognuno deve bastare una vendetta pari all’offesa ricevuta.
Continuò dicendo che vivevano in Siena, nel passato, due giovani assai agiati e di buone famiglie popolane, dei quali uno si chiamava Spinelloccio Tavena e l’altro Zeppa di Mino; erano vicini di casa in contrada Camollia.
 I due giovani stavano sempre insieme e si volevano bene come fratelli. Ciascuno aveva per moglie una donna assai bella.
Spinelloccio, frequentando spesso la casa di Zeppa, in assenza dell’amico, divenne intimo della moglie di Zeppa , cominciò a giacersi con lei e continuarono per molto tempo ,senza che nessuno se ne accorgesse.
Dopo un lungo periodo, essendo Zeppa in casa senza che la moglie lo sapesse, Spinnelloccio andò a chiamarlo.
La donna gli disse che il marito non era in casa.
Spinelloccio subito salì in sala e, vedendo che era sola, cominciò ad abbracciarla e a baciarla, ricambiato.
Il Zeppa, che aveva visto tutto, non disse una parola, ma se ne stette nascosto, per vedere come andava a finire. Dopo poco vide i due , abbracciati, andarsene in camera e chiudersi dentro. Si turbò molto ma considerò che se avesse gridato o altro la sua ingiuria non sarebbe divenuta minore, anzi sarebbe aumentata la vergogna. Meditò, invece, su come potesse vendicarsi, senza che si sapesse intorno, in modo da rimanerne contento.
Dopo aver pensato a lungo, gli sembrò di aver trovato il modo.
Rimase nascosto fino a che l’amico non se ne fu andato, poi entrò nella camera da letto, dove la donna stava ancora aggiustandosi sul capo i veli che Spinelloccio, scherzando, aveva fatto cadere.
Chiese alla moglie che stava facendo, la donna ,non potendo negare l’evidenza, cominciò a piangere e a chiedere perdono. Zeppa le disse “ Vedi, donna, tu hai sbagliato, se vuoi che ti perdoni, devi fare tutto quello che ti dirò. Voglio che al mattino, verso le nove, tu dica a Spinelloccio di lasciare me e di venire qui da te. Quando egli sarà giunto, io tornerò. Come tu mi avrai sentito, lo farai entrare in questa cassa e lo chiuderai dentro. Di tutto questo non devi dire niente a nessuno, perché ti prometto che non gli farò del male”.
La donna promise e fece come le era stato detto.
L’indomani, verso le nove, mentre il Zeppa e Spinelloccio erano insieme, Spinelloccio, che aveva promesso alla donna di andare da lei, salutò l’altro dicendo che doveva andare a desinare da un amico e non voleva farlo aspettare, perciò si metteva in cammino di buon’ ora.
Spinelloccio si allontanò e, dopo aver fatto un bel giro, arrivò in casa della moglie dell’amico ed entrò nella camera di lei.
Dopo poco ritornò il Zeppa. La donna ,fingendosi spaventata, fece entrare l’amante nella cassa, come aveva detto il marito, lo chiuse dentro ed uscì dalla camera.
Zeppa, salito in camera, disse alla donna che Spinelloccio era andato a pranzo da un suo amico e aveva lasciato sola la moglie. Si doveva, dunque, affacciare alla finestra, chiamarla ed invitarla a pranzo da loro.
La donna, temendo per sé stessa, obbediente, fece ciò che il marito le aveva imposto.
La moglie di Spinelloccio accettò l’invito e venne ,pur sapendo che il marito non avrebbe pranzato con loro. Quando arrivò , il Zeppa le fece molte carezze e la prese confidenzialmente per mano. Ordinò alla moglie di andarsene in cucina, condusse l’altra in camera e serrò la porta.
Quando la donna vide serrare la porta si lagnò con l’uomo che l’aveva fatta venire per importunarla e gli chiese se quello era l’affetto e la lealtà che portava a Spinelloccio.
Udito ciò, il Zeppa si accostò alla cassa dov’era chiuso il marito di lei e le disse “ Donna, prima di rammaricarti, ascolta ciò che ti sto per dire. Ho amato ed amo Spinelloccio come un fratello. Ma ieri trovai che la fiducia che avevo avuto in lui lo aveva portato a giacersi con mia moglie, come si giace con te. Ora, poiché gli voglio bene, voglio avere da lui soltanto ciò per cui mi ha offeso. Egli ha avuta la mia donna e io voglio avere te. Se non vuoi, aspetterò di coglierlo sul fatto e, poiché non intendo lasciare questa offesa impunita, gli farò un servizio di cui tu e lui vi pentirete amaramente”.
La donna, udendo ciò, rispose che ,per evitare che si vendicasse e rompesse l’amicizia, era disposta a fare tutto quello che egli volesse.
Zeppa rispose che avrebbe conservato l’amicizia, inoltre, le avrebbe regalato un gioiello molto prezioso.
Così detto, cominciò a baciarla e la distese sopra la cassa dov’era rinchiuso il marito. E lì sopra si divertì con lei ed ella con lui, finché gli piacque.
Spinelloccio, che stava nella cassa ,udì le parole del Zeppa e la risposta della moglie, sentì la danza che i due avevano fatto sulla cassa, e provò un dolore da morire. Se non avesse avuto timore del Zeppa, avrebbe rivolto molte ingiurie alla moglie.
Poi, ripensando a come erano cominciate le cose, dovette ammettere che il Zeppa aveva ragione di fare ciò che aveva fatto e si ritenne ancor più suo amico.
Il Zeppa, quando fu soddisfatto, scese dalla cassa e, chiedendogli la donna il gioiello promessole, aprì la porta, fece entrare la moglie e le disse “ Madonna, vi ho reso pan per focaccia”.
Poi ordinò alla moglie di aprire la cassa ed ella lo fece. Dalla cassa fece uscire Spinelloccio.
Non si poteva dire chi si vergognò di più, se Spinelloccio, vedendo il Zeppa e sapendo che egli sapeva tutto ciò che aveva fatto, o la donna, vedendo il marito e sapendo che egli aveva udito tutto ciò che aveva fatto sopra il suo capo.
Il Zeppa, a lei rivoltosi, disse “ Ecco il gioiello ,il quale ti dono”.
Spinelloccio, uscito dalla cassa, senza troppe storie, disse “ Zeppa, siamo pari e perciò è cosa buona, come tu dicevi prima alla mia donna, che noi siamo amici come eravamo prima, e mentre prima l’unica cosa che ci divideva erano le mogli, adesso abbiamo in comune anche quelle”.
Il Zeppa fu contento e, tutti felici e in pace, pranzarono insieme.
Da quel momento in poi ciascuna delle due donne ebbe due mariti e ciascuno di loro due mogli, senza che sorgesse mai una questione.  



venerdì 1 maggio 2015

OTTAVA GIORNATA - NOVELLA N.7

 OTTAVA GIORNATA – NOVELLA N.7

        Uno studente ama una donna vedova, la quale, innamorata di un altro, una notte d’inverno lo fa stare sopra la neve ad aspettarla; egli, poi, con un suo consiglio, fa stare la donna, a metà luglio, nuda, tutto un giorno, su una torre al sole alla mercè di mosche e tafani.

 Le donne avevano molto riso di quello stupidone di Calandrino e avrebbero riso ancora se non si fossero rammaricate, perché coloro che gli avevano rubato il porco gli avevano tolto anche i capponi.
 Finita la novella, la regina ordinò a Pampinea di raccontare la sua.
 E Pampinea cominciò dicendo che spesse volte avveniva che ci si beffava l’uno con l’altro.
 Nelle novelle narrate fino a quel momento si era parlato delle beffe fatte, ma non si era mai parlato della vendetta di chi era stato beffato.
Ella voleva raccontare di una loro concittadina, la quale per una beffa da lei fatta, ricevette sul capo,di  ritorno,un’altra beffa che quasi le causò la morte.
L’udire quella novella sarebbe stato loro molto utile perché si sarebbero guardate dal fare brutti scherzi agli altri e sarebbero state più prudenti.
Non molti anni prima era vissuta a Firenze una giovane bella di corpo, superba d’animo, di stirpe assai nobile, ricca di tutti i doni della fortuna, di nome Elena. Ella, rimasta vedova, non si volle più maritare, essendosi innamorata di un giovinetto bello e garbato, che la ricambiava. Libera da ogni vincolo, grazie ad una sua fantesca di fiducia, spesse volte s’incontrava con lui, molto piacevolmente. Un bel giorno un giovane, chiamato Rinieri, nobile di Firenze, che aveva studiato a Parigi, non per procurarsi un lavoro, come facevano molti, ma per conoscere la ragione e la causa delle cose, come si addice ad ogni gentiluomo, ritornò da Parigi a Firenze. Qui viveva molto onorato per la sua nobiltà e per la sua cultura.
Ma, come spesso avveniva, Rinieri fu incastrato da Amore, nonostante fosse così intelligente e colto.
Un giorno, essendo andato, per divertimento, ad una festa , incontrò quella Elena, tutta vestita di nero, come si conveniva ad una vedova, ma tanto bella e piacevole quanto nessun altra, a parer suo.
 Egli ritenne beato colui che l’avesse potuta tenere nuda tra le braccia. Dopo averla guardata a lungo, sapendo che le belle cose non si possono ottenere senza fatica, decise di compiere uno sforzo per conquistarla e poter godere in abbondanza di lei.
 La giovane donna che non teneva gli occhi fissi a terra, ma si guardava intorno e si accorgeva di chi la guardava con ammirazione, si accorse degli sguardi di Rinieri . Pensò di non essere andata invano a quella festa ,perché avrebbe trovato presto un pollastro. Lo cominciò, quindi, ad adescare, lanciandogli sguardi seducenti per dimostrargli il suo interesse, pensando che quanti più uomini avesse adescato, tanto più sarebbe stata apprezzata la sua bellezza, soprattutto dal giovane di cui era innamorata.
 Lo studente, lasciati da parte i pensieri filosofici, rivolse tutta la sua attenzIone a lei ,pensando di piacerle. Cominciò a passeggiare sotto la casa di lei, trovando mille ragioni.
 La donna mostrava di vederlo assai volentieri, per cui lo studente avvicinò la fantesca della donna e la pregò di convincere la padrona ad accettare il suo amore. La fantesca promise e raccontò tutto alla donna che, ridendo, disse che il giovane era andato a perdere a Firenze il senno che aveva portato da Parigi. Disse alla domestica di riferirgli che ella l’amava più di lui, ma doveva proteggere la propria onestà, per poter andare a testa alta insieme alle altre donne. Voleva, quindi, una prova del suo grande amore. La cattivella era piuttosto imprudente, perché non sapeva che non bisognava stuzzicare gli studenti. La fantesca, incontrandolo, gli riferì le parole della padrona. Il giovane ,lieto, insistette con più calde preghiere, scrivendo lettere e mandando doni. Per ogni cosa ricevuta gli venivano restituite solo vaghe risposte.
Così la donna lo tenne per molto tempo in sospeso.
Infine ella disse ogni cosa al suo amante, che era molto geloso. Per mostrargli che sospettava a torto di lei, mandò la serva dallo studente a dirgli che per le feste di Natale, ormai vicine, sperava di poter essere con lui. Perciò la sera dopo Natale, di notte, se gli faceva piacere, poteva andare nel cortile di lei, dove ella l’avrebbe raggiunto, appena possibile.
Lo studente, felice più di ogni altro uomo, andò. La fantesca lo fece entrare e lo chiuse dentro il cortile ,in attesa della donna. La donna ,quella sera, aveva fatto andare da lei il suo amante, aveva cenato con lui lietamente e gli aveva raccontato quello che intendeva fare, dicendogli che avrebbe potuto vedere quanto amore aveva per lo studente e dissipare così la sua gelosia.
L’amante ascoltò volentieri le parole di lei, desideroso di vedere che cosa aveva escogitato.
Il giorno precedente aveva nevicato molto ed ogni cosa era ricoperta di neve. Perciò lo studente, dopo essere stato un po’ in cortile, cominciò a sentire molto freddo, pure sopportava pazientemente, aspettando di ristorarsi.
La donna, dopo un po’, invitò l’amante ad andare nella sua camera ,a guardare da una finestrella che cosa faceva colui di cui era geloso e ad ascoltare quello che avrebbe risposto alla fantesca.
Andati, dunque, alla finestrella, vedendo senza essere veduti, sentirono la domestica dire allo studente che la padrona era dolente perché quella sera era andato da lei suo fratello, che aveva voluto cenare con lei ed ancora non se ne era andato, ma sperava che se ne andasse presto. Per quel motivo non aveva potuto raggiungerlo,ma contava di farlo e lo pregava di attenderla.
Lo studente, credendole, rispose che l’avrebbe attesa, ma che facesse il più presto possibile.
La servetta ritornò a casa e se ne andò a dormire, mentre la donna disse al suo amante “ Credi tu che se io gli volessi veramente bene, come temi, lo lascerei lì a ghiacciare? ”.
Così detto, se ne andò a letto con il suo amante, facendo l’amore a lungo, ridendo del misero giovane.
Lo sventurato andava avanti e dietro nel cortile per riscaldarsi, senza potersi sedere, né ripararsi dal freddo e malediceva la lunga permanenza del fratello della donna.
Ad ogni rumore che sentiva credeva che fosse l’uscio che si apriva per far entrare la donna ,ma sperava invano.
Ella, ormai quasi a mezzanotte, scherzando , chiese all’amante se si era liberato dalla gelosia, visto il freddo che aveva fatto patire allo studente.
Trascorsero ancora un bel po’ di tempo nei trastulli d’amore, poi si alzarono ed andarono a vedere se si era spento il fuoco del quale il giovane innamorato bruciava, come le aveva scritto.
Dalla finestrella poterono vedere lo studente ballare la carola a piccoli passi sulla neve,al suono del batter di denti che egli faceva per il troppo freddo, così rapidamente come non l’avevano mai vista danzare.
Aperta la porta ,la donna condusse poi l’amante fino all’uscio e, senza aprire, con voce sommessa, attraverso un buchetto, che c’era, chiamò. Lo studente, sentendosi chiamare, ringraziò Dio e pregò la donna di aprirgli perché moriva dal freddo. In risposta ella disse che c’era solo un po’ di neve, mentre a Parigi ce  n’era molta di più. Purtroppo non poteva ancora aprire perché quel suo maledetto fratello, che era andato a cenare da lei, non se ne era ancora andato, ma l’avrebbe fatto presto. Ella, a gran fatica, si era liberata per un attimo per andare a confortarlo e a pregarlo di attendere.
Lo studente le chiese, allora, di aprire la porta per permettergli di entrare e di stare al coperto, perché aveva ripreso a nevicare abbondantemente; al coperto avrebbe atteso tutto il tempo necessario.
Ma la donna, senza pietà, rispose che non era possibile aprire quell’uscio perché faceva un rumore tanto grande che facilmente poteva essere udito dal fratello, se l’avesse aperto. Voleva andare subito dal fratello per invitarlo ad andarsene e poi sarebbe ritornata.
Il malcapitato le raccomandò di fare presto ritorno e di accendere un bel fuoco in modo da potersi riscaldare, una volta entrato, perché  era diventato un pezzo di ghiaccio.
La donna finse di non credergli, rispondendogli che egli ardeva d’amore per lei, perciò non doveva beffarla.
L’amante, che udiva tutto, ne provava grande piacere.
Tornata a letto, la donna trascorse tutta la notte amoreggiando e deridendo il misero studente.
Lo sventurato, che sembrava una cicogna tanto batteva i denti, accortosi finalmente di essere stato beffato, più volte tentò di aprire l’uscio e cercò di uscire. Non vedendo come fare, andava avanti e dietro come un leone, maledicendo il tempo, la malvagità delle donne, la lunghezza della notte e la sua ingenuità.
Sdegnato contro la donna trasformò il lungo e fervente amore in crudo e violento odio, meditando propositi di vendetta.
Finalmente passò la nottata e apparve l’alba. La fantesca, su comando della donna, scese ed aprì il cortile. Mostrando compassione per lui, gli disse che era stato sfortunato ,perché si era ghiacciato, ma quello che non era successo quella notte poteva accadere un’altra volta e che la sua padrona era molto dispiaciuta.
Lo studente, saggiamente, nascose nel suo petto ciò che una volontà non frenata avrebbe mandato fuori. Con voce calma, senza mostrarsi per niente rattristato, rispose che quella era sicuramente stata la peggiore notte che avesse mai avuto, ma sapeva bene che la donna non aveva alcuna colpa. Infatti aveva provato tanta pietà di lui, che era scesa a scusarsi e a confortarlo. Ciò che non era stato quella notte sarebbe stato un’altra volta.
La salutò e se ne andò, tutto rattrappito, a casa sua, dove, stanco e morto di sonno, si gettò sul letto a dormire.
Si svegliò che non poteva quasi muovere le braccia e le gambe. Chiamò alcuni medici ai quali disse del gran freddo che aveva avuto e si fece curare.
I medici, con opportuni interventi, dopo un po’ di tempo lo guarirono.
Egli era giovane e arrivava il caldo, ritornò ,dunque, sano, conservando dentro di sé il suo orgoglio, continuando, comunque, a dimostrarsi più che mai innamorato della sua vedova.
Dopo un certo tempo la fortuna dette allo studente la possibilità di soddisfare il suo desiderio di vendetta.
Infatti il giovane amato dalla vedova, senza riguardo per l’amore di lei, si innamorò di un’altra donna e la poverina si consumava in lacrime e amarezze.
La fantesca, provando compassione per la padrona, per consolare la donna per il perduto amore, vedendo lo studente passare come al solito, ebbe un’idea sciocca. Pensò di poter indurre l’amante ad amare la donna come faceva prima con un incantesimo; pensando che lo studente fosse in ciò maestro ,lo disse alla padrona.
La donna, poco savia, senza pensare che se il giovane avesse conosciuto la negromazia l’avrebbe adoperata per sé stesso, mandò la serva a chiedergli se volesse fare un incantesimo per lei. Per ricompensa promise che avrebbe fatto tutto ciò che a lui piacesse.
La domestica riferì la richiesta al giovane che, ben lieto, pensò che era giunta l’occasione per far pagare alla malvagia femmina l’ingiuria fattagli.. Disse ,dunque, alla fantesca di riferire alla donna di star tranquilla che, anche se il suo amante fosse andato in India, rapidamente l’avrebbe riportato a chiederle perdono. Ma voleva spiegare a lei, di persona, che cosa doveva fare, quando e dove volesse.
La donna e lo studente decisero di incontrarsi nella chiesa di Santa Lucia di Prato.
 Lì giunti, la donna, dimenticatasi di averlo quasi condotto alla morte, gli raccontò ogni sua vicenda, gli spiegò che cosa desiderava e lo pregò di aiutarla per la sua salvezza.
Il giovane la rassicurò, spiegandole che egli era divenuto esperto di negromazia a Parigi ,anche se aveva giurato che mai l’avrebbe adoperata né per sé, né per altri. Ma l’amore che aveva per lei era tanto forte che sarebbe andato pure a casa del diavolo, per farle piacere. Le ricordava, comunque, che era la cosa più difficile di tutte che una donna volesse riconquistare l’amore di un uomo o un uomo quello di una donna. Ella doveva essere coraggiosa perché l’incantesimo si doveva fare di notte, in luoghi solitari e senza compagnia. Doveva vedere se se la sentiva.
La donna ,più innamorata che saggia, rispose che avrebbe fatto qualunque cosa per riavere colui che a torto l’aveva abbandonata. Lo studente poteva ,dunque, mostrarle cosa doveva fare.
Lo studente, più furbo del diavolo, disse che doveva fare un’immagine di stagno con il nome dell’uomo che ella voleva riconquistare. Dopo avergliela mandata, la donna doveva andare, in una notte di luna calante, nuda in un fiume, tutta sola, e bagnarsi, tenendo l’immagine in mano, per sette volte nelle acque. Poi, così nuda, doveva andare sopra un albero o sopra una casa disabitata e, rivolta a Nord, con l’immagine in mano, per sette volte doveva dire certe parole che egli avrebbe scritte. Dette le quali, sarebbero andate da lei due damigelle bellissime, l’avrebbero salutata e le avrebbero domandato cosa voleva che facessero. A loro la donna doveva esporre con chiarezza i suoi desideri, evitando di confondersi. Detto ciò ,esse sarebbero andate via ed ella sarebbe potuta scendere al luogo dove aveva lasciato i panni, rivestirsi e tornarsene a casa. Sicuramente, non oltre la metà della notte seguente, il suo amante sarebbe andato da lei, piangendo e chiedendo perdono. Da quel momento in poi non l’avrebbe più lasciata per nessun altra.
La donna, udendo quelle parole, ebbe l’impressione di riavere già il suo amante tra le braccia e più lieta disse
“ Non dubitare, farò ciò che hai detto, nella maniera migliore. Ho un podere verso Valdarno Superiore, che è vicino alla riva del fiume; ed è il mese di luglio, sarà piacevole bagnarsi. Ricordo che non lontana dal fiume vi era uuna piccola torre disabitata. Raramente, da alcune scale di castagno, salgono, talvolta, i pastori su un terrazzo per cercare le pecore smarrite. E’ un luogo molto solitario e fuori mano sul quale salirò per fare quello che mi ordinerai”.
Lo studente, che conosceva benissimo il luogo e la piccola torre, finse di non conoscere bene la zona e di fidarsi delle parole della donna. Promise di mandarle al momento opportuno l’immagine e l’orazione. La pregò, infine, di ricordarsi di lui e di mantenere le sue promesse.
La donna lo rassicurò e, preso commiato da lui, se ne ritornò a casa.
Lo studente, tutto soddisfatto, fece un’immagine con alcuni segni e scrisse una favola come orazione e, quando gli sembrò il momento, la mandò alla donna, dicendole che la notte seguente doveva fare ciò che le aveva detto,  senza più indugiare. Poi, di nascosto, con un suo servitore, andò a casa di un amico, che abitava assai vicino alla torricella, per vedere come andassero le cose.
Anche la donna, con la sua fantesca, si mise in cammino e se ne andò al suo podere.
Venuta la notte, fingendo di andare a letto, mandò la domestica a dormire e, uscita silenziosamente di casa, andò vicino alla torricella, che era sopra la riva dell’Arno.
Dopo aver guardato attentamente, non vedendo né sentendo nessuno, si spogliò e nascose i panni sotto un cespuglio. Poi si bagnò sette volte con l’immagine e, nuda, con l’immagine in mano, si diresse verso la piccola torre.
Lo studente, che si era nascosto col suo servitore nei pressi della torre, vedendola passare così nuda, con il petto e le altre parti del corpo belle, delicate e bianche, tanto che vincevano l’oscurità della notte, pensando a come sarebbero diventate di lì a poco, provò compassione per lei. Spinto dal desiderio, fu tentato di uscire allo scoperto e di farla sua. Ma il ricordo dell’ingiuria ricevuta riaccese lo sdegno e ,scacciati la compassione e il desiderio della carne,confermò il suo proposito di vendetta e la lasciò andare.
La donna, salita sulla torre, rivolta a Nord, cominciò a dire le parole datele dallo studente, il quale, entrato di nascosto nella torre, levò la scala che saliva sulla terrazza dov’era la donna e attese.
La donna, detta sette volte la sua orazione,cominciò ad aspettare le due damigelle.
L’attesa fu così lunga che, senza subire troppo il freddo, ella vide giungere l’aurora.
Addolorata perché non era accaduto ciò che le aveva detto lo studente, disse tra sé “Credo che costui mi abbia voluto dare una notte come quella che io detti a lui; se ha fatto ciò, non ha saputo vendicarsi bene perché questa notte non è stata lunga come la sua e il freddo non è stato così intenso”.
Per non farsi cogliere dalla luce del giorno, volle scendere dalla torre, ma non trovò la scala. Allora, come se le fosse mancato il mondo sotto i piedi, svenne e cadde sulla terrazza della torre. Quando le forze le ritornarono, miseramente cominciò a piangere e a lamentarsi. Ben comprendendo che era stata opera dello studente, si rammaricò di averlo offeso e di essersi fidata troppo di lui; e così rimase per moltissimo tempo.
Cercò di trovare un’altra via per scendere, ma, non vedendola, ricominciò a piangere. Pensò di essere sventurata perché i suoi fratelli, i suoi parenti e tutti i fiorentini, trovandola lì nuda, avrebbero riconosciuto che la sua onestà era falsa e lo studente ,che conosceva tutti i fatti suoi, l’avrebbe confermato.Ella in una sola ora aveva perduto il suo amore e il suo onore. Per il dolore fu sul punto di gettarsi dalla torre.
Essendosi già alzato il sole, mentre guardava se arrivava qualche pastorello,che potesse chiamare la domestica,vide lo studente che usciva da un cespuglio ed egli vide lei.
Il giovane le chiese se erano venute le damigelle. La donna, vedendolo, lo pregò di avvicinarsi alla torre affinchè potesse parlargli. Lo studente si avvicinò.
Ella, postasi con il capo sull’apertura della terrazza, piangendo disse “ Rinieri, ti sei vendicato della brutta notte che ti feci passare perché, sebbene sia luglio, stanotte, nuda, ho creduto di morire assiderata ed ho pianto tanto per l’inganno che mi meraviglio che ancora mi sono rimasti gli occhi. Ti prego, non per amor mio, ma per amor tuo, che sei un gentiluomo, che ti basti come vendetta quello che hai fatto finora. Ridammi i miei vestiti e fammi scendere di quassù. Non mi togliere il mio onore. Se non volli stare con te quella notte, ora ti posso rendere molte notti per quella sola. Non voler esercitare le tue forze contro una donna. Non c’è nessuna gloria per un’aquila nell’aver vinto una colomba”.
Lo studente, vedendola piangere e pregare, era combattuto tra il piacere della vendetta ,tanto desiderata, e la compassione per la misera.
Ma non potendo la pietà vincere il desiderio di vendetta , rispose “ Madonna Elena, se le mie preghiere, che non furono così dolci come le tue ora, mi avessero, nella notte in cui io nella corte piena di neve morivo di freddo, consentito di stare un po’ al coperto, mi sembrerebbe facile ora esaudire i tuoi desideri.
Ma se ti preoccupi tanto del tuo onore e di stare qui ignuda, rivolgi codeste preghiere a colui nelle cui braccia, ignuda, stesti quella notte, sentendo me andare avanti e dietro nel cortile, battendo i denti. E fatti aiutare da lui a ritrovare i tuoi panni e a cercare la scala per farti scendere. Perché non lo chiami affinchè venga ad aiutarti? Tu appartieni a lui. Sei sua, chiamalo, stupida che sei, e prova se l’amore che tu provi per lui e il suo per te ti possano liberare da questa mia sciocchezza, della quale ridesti a lungo con lui. Non offrirmi ciò che ora non desidero più e potrei prendermi se lo desiderassi. Riserva le tue notti al tuo amante, se uscirai viva di qui. A me ne è bastata una ,di notti, e mi basta essere stato schernito una volta. E ancora con la tua astuzia cerchi di acquistare la mia benevolenza; ma le tue lusinghe non offuscheranno il mio intelletto, come fecero le tue sleali promesse. Mi conosco bene, non imparai tante cose a Parigi, quante me ne facesti conoscere tu in una sola notte. Seppure volessi essere magnanimo e porre fine alla penitenza e alla vendetta ,per le fiere selvatiche, quale tu sei, la fine di esse deve essere la morte. Io non sono un’aquila e tu non sei una colomba, ma una serpe velenosa, antico nemico, che intendo persequire con tutte le mie forze, anche se quello che ti sto facendo non si può chiamare vendetta, ma castigo. Infatti la vendetta deve superare l’offesa. Se volessi vendicarmi la tua vita non basterebbe, ma cento altre, ripensando a come mi trattasti. E che danno può fare il toglier di mezzo questo tuo bel visetto, che fra poco gli anni guasteranno, riempendolo di rughe. Mentre tu volevi far morire un uomo valoroso che può essere più utile al mondo che centomila tue pari. Ti insegnerò con questo castigo che cosa sia schernire gli uomini sapienti e che cosa sia schernire gli studenti. Farò in modo che, finché campi, non commetterai più una simile follia. Ma ,se hai tanta voglia di scendere, perché non ti butti giù? E subito, con l’aiuto di Dio, rompendoti il collo, uscirai da questa pena e mi farai l’uomo più felice del mondo.
Non ti voglio dire di più. Io seppi fare così bene a farti salire lassù, tu sappi ora fare per scendere così bene, come facesti per beffarmi”.
Mentre lo studente diceva tutte quelle cose ,la sventurata piangeva, il tempo passava e il sole saliva sempre più in alto. Come tacque, la donna disse “ O uomo crudele, se non ti impietosiscono la mia bellezza, le mie lacrime e le mie preghiere, ti renda più mite la fiducia che ho riposto in te, mettendoti a conoscenza del mio segreto.
Se tu lasci la tua ira e mi perdoni, io ti prometto di abbandonare il giovane sleale e di avere solo te per amante e signore, mostrandoti tutta la mia bellezza, sebbene la ritieni breve e di scarso valore. Benchè sono trattata da te così crudelmente, non credo che voglia vedermi morire, gettandomi disperata dalla torre, davanti ai tuoi occhi, ai quali piacqui tanto. Per amor di Dio e per pietà aiutami, perché il sole comincia ad essere troppo caldo e mi dà grandissimo fastidio, come il freddo di stanotte”.
Lo studente rispose “ Madonna ,tu avesti fiducia in me non per amor mio, ma per riconquistare quello che avevi perduto e pensi che questa sia stata l’unica via per la mia vendetta, ma sbagli. Avevo preparato mille altri modi per vendicarmi, molto,peggiori di questo che ho scelto. Se tutti fossero falliti, mi sarei servito della penna ed avrei scritto di te cose così tremende che, quando le avresti sapute, avresti desiderato mille volte non essere mai nata. Le forze della penna sono tanto maggiori di quanto non credono coloro che non le hanno provate. Giuro su Dio ( se continuerà ad aiutarmi come ha fatto finora)  che avrei scritto di te cose di cui ti saresti vergognata tanto da cavarti gli occhi. Non mi importa più del tuo amore e che tu sia mia. Sii pure di colui di cui sei stata, se puoi, il quale ,come prima odiai, ora amo, vedendo come si è comportato verso di te.
Voi donne vi innamorate desiderando l’amore dei giovani con le carni più vive e le barbe più nere, tronfi e impettiti, mentre vanno a cantare e a giostrare. Li ritenete migliori cavalieri degli uomini attempati e più maturi. Devo ammettere che essi, certamente, con maggior forza scuotono i pelliccioni, ma gli attempati, più esperti, conoscono meglio i posti dove stanno le pulci, ed è preferibile scegliere il poco e saporito che il molto e insipido. Il trottare velocemente stanca chiunque, sebbene sia giovane, mentre l’andare dolcemente fa procedere più riposati. Non vi accorgete, animali senza intelletto, della malvagità che è nascosta sotto la vostra bellezza.
I giovani non sono contenti di una donna sola, ma quante ne vedono tante ne desiderano, perciò il loro amore non può essere duraturo, come tu puoi testimoniare.Essi vogliono essere riveriti e corteggiati dalle loro donne, e si vantano di quelle che hanno avuto,la qual cosa spinse molte donne a concedersi ai frati, che non se ne possono vantare.
Non ti illudere che i tuoi amori li conosciamo solo io e la tua fantesca, la contrada del tuo amante non parla d’altro ed anche la tua, ma spesso il diretto interessato è l’ultimo a saperlo. I giovani, inoltre, vi rubano mentre gli attempati vi donano.
Lascia perdere me, perché ha trovato una donna molto più bella di te, che mi ha conosciuto meglio di te. Buttati giù e l’anima tua, ricevuta nelle braccia del diavolo, vedrà che ,vedendoti precipitare, non ho battuto ciglio.
Ma credo che non mi vorrà fare questo favore, perciò, visto che il sole si comincia a riscaldare, mescola il caldo con il freddo che hai provato stanotte e il sole ti sembrerà meno ardente”.
La misera donna, vedendo che non riusciva ad impietosirlo, lo pregò, allora, in nome di quella donna più saggia di lei che aveva detto di amare ricambiato, di perdonarla e di riportarle i vestiti, affinchè si potesse rivestire e scendere di lì.
La studente cominciò a ridere e rispose che non sapeva dire di no, visto che l’aveva pregato in nome della donna amata, ma gli doveva dire dov’erano i suoi vestiti, chè sarebbe andato a prenderli ,glieli avrebbe portati e l’avrebbe fatta scendere.
La donna gli credette e gli spiegò dove aveva messo i suoi vestiti.
La studente, uscito dalla torre, comandò al suo servo di non allontanarsi e di impedire l’ingresso alla torre a chiunque, finché non fosse tornato. Poi andò a casa dell’amico, mangiò con calma e se ne andò a dormire.
La donna, rimasta sulla torre, si mise a sedere vicino a un muro dove c’era un po’ di ombra, e cominciò ad aspettare, turbata da amarissimi pensieri. Saltando da un pensiero ad un altro, ora piangendo, ora sperando, vinta dal dolore e dalla stanchezza, si addormentò.
Il sole fortissimo, perché era ormai mezzogiorno, colpiva il tenero e delicato corpo di lei e la sua testa scoperta con tanta forza che non solo cosse tutte le carni, ma le screpolò tutte. E la scottatura fu tale che la costrinse a svegliarsi.
Come tentò di muoversi, le sembrò che tutta la pelle scottata si aprisse e si spaccasse, come la pelle cotta di una pecora bruciata, se qualcuno la tirasse. Oltre a ciò le doleva così forte la testa, che sembrava che le si spaccasse. La cosa non doveva meravigliare perché il terrazzo della torre era così ardente che ella non poteva trovare alcun riparo. Si spostava di qua e di là piangendo.
Oltre a ciò, poiché non c’era un alito di vento, erano arrivati, in gran quantità, mosche e tafani che, posandosi sulle lacerazioni ,la pungevano, che sembravano le punture di uno spillone. Ella ,continuamente, gettava le mani attorno, maledicendo sé ,il suo amante e lo studente. Tormentata dal sole ,dal caldo, dalle mosche e dai tafani, dalla fame e ancor più dalla sete, angosciata da mille pensieri molesti, si alzò per vedere se trovasse qualche persona lì vicino, cui potesse chiedere aiuto.
Ma anche in questo la natura le fu nemica.
I contadini si erano tutti allontanati dal campo per il caldo, perché quel giorno non si lavorava ,e quelli che abitavano lì vicino battevano le loro biade.
Udiva solo le cicale e vedeva l’Arno; la vista delle acque faceva accrescere la sua sete.
La povera vedova, per il sole, il calore della terrazza, i morsi delle mosche e dei tafani, mentre durante la notte era diventata tutta bianca per il freddo, allora era tutta rossa per la rabbia e per gli schizzi di sangue.
A chi l’avesse veduta, sarebbe sembrata la cosa più brutta del mondo.
Stando lì, senza speranza di aiuto, aspettava la morte.
Verso l’una e mezzo del pomeriggio lo studente si svegliò, si ricordò della donna, tornò alla torre per vedere come stava e mandò il suo servitore, che era ancora digiuno, a mangiare.
Come la donna sentì che stava arrivando, venne sopra l’apertura e, piangendo, gli disse “Rinieri, ti sei vendicato oltre misura, perché ti feci gelare la notte nel mio cortile, facendomi arrostire su questa torre e, oltre a ciò, facendomi morire di fame e di sete. Ti prego, in nome di Dio, di salire qui sopra e di darmi la morte, visto che non ci riesco da sola. Se non mi vuoi fare questa grazia, almeno fammi portare un bicchiere d’acqua per  bagnarmi la bocca, perché non bastano le mie lacrime, tanta è l’arsura”.
Lo studente sentì dalla voce la sua debolezza e vide il corpo di lei arso dal sole, per cui provò un po’ di compassione, ciononostante rispose “ Malvagia donna, non morrai per le mie mani, ma per le tue, se vorrai, e tanta acqua avrai da me, per alleviare il tuo caldo, quanto fuoco ebbi da te per alleviare il mio freddo. Come  curai il mio freddo col calore del letame puzzolente, così tu curerai il tuo caldo con il freddo della profumata acqua di rose; e come io stetti per perdere le forze e la vita, così tu, scorticata da questo caldo, resterai come la serpe ,quando cambia pelle”.
La donna disse “ O me sventurata, tu più crudele di una belva, come hai potuto straziarmi in tal maniera? Che mi sarei potuta aspettare di più da te se avessi ucciso tutti i tuoi parenti tra crudelissimi tormenti? Neanche un traditore, condannato da tutta la città, avrebbe avuto la condanna di arrostire al sole, mangiato dalle mosche. E, oltre a questo, non mi hai voluto dare nemmeno un bicchiere d’acqua, che non si nega neppure ai condannati, quando vanno a morte. Visto che tu stai fermo nella tua crudeltà, né ti può smuovere la mia sofferenza, mi disporrò a morire, pregando Dio di aver misericordia dell’anima mia e di guardare a questa tua impresa con occhi giusti”.
Detto ciò se ne andò verso il terrazzo, credendo di morire di sete, piangendo forte.
Essendo ormai al vespro, lo studente, soddisfatto, fatti prendere i vestiti di lei, andò verso la casa della donna, dove trovò la fantesca, triste e sconsolata, seduta sulla porta.
Le chiese se sapeva dov’era la padrona, ella rispose che non la trovava né lì, né altrove, né sapeva dov’era andata.
Lo studente, promettendo anche a lei di vendicarsi alla prima occasione, disse al suo servitore di darle i panni della padrona perché glieli portasse.
La serva, udendo le parole scambiate tra i due, temette che l’avessero uccisa e, rapidamente, piangendo, con il servitore corse verso la torre.
Un contadino della donna quel giorno aveva smarrito due porci, andandoli a cercare, poco dopo la partenza dello studente, giunse alla torre. Sentì il pianto sconsolato della misera donna e gridò “Chi piange lassù?”.
La donna riconobbe la voce del suo contadino, lo chiamò per nome e gli disse di fare andare da lei la sua fantesca.
Il lavoratore, prese le assi della scala ,cominciò a raddrizzarle e a sistemare i bastoni e le traverse.
Frattanto giunse la domestica, che, aiutata dal contadino, che aveva accomodato la scala, salì sul terrazzo.
Vedendo la padrona, non come un essere umano, ma come un ceppo di legno bruciato, giacere per terra nuda, cominciò a graffiarsi il viso e a piangere, come se la padrona fosse morta.
Ma la donna lo pregò di tacere, ché nessuno doveva sapere quello che era successo.
Il contadino, dopo molte chiacchiere, presa in braccio la donna che non poteva camminare, la portò in salvo, fuori dalla torre.
La fantesca, che era rimasta indietro, scendendo sbadatamente cadde dalla scala e si ruppe una coscia. Per il dolore si mise a mugghiar come un leone.
Il lavoratore, poggiata la donna sull’erba, andò a vedere che avesse la serva. Trovatala con una coscia rotta, la portò sull’erba accanto alla padrona, che sperava di avere aiuto da lei.
Il contadino, visto che il sole era tramontato, prima che sopraggiungesse la notte, andò a casa sua e chiamò i fratelli e la moglie per farsi aiutare.
Sistemata la domestica su una tavola, la portarono a casa. Poi, rifocillata la padrona con un poco d’acqua fresca, presala in braccio, la portò nella camera. La moglie del contadino la lavò, le diede da mangiare e, spogliatala, la mise a letto. Poi, durante la notte, l’uomo portò le due donne a Firenze.
Giunte a Firenze, la donna, molto esperta in menzogne, inventò tutta una storia, diversa da come erano andati i fatti, sia per sé che per la fantesca.
Raccontò ai fratelli, alle sorelle e a tutti che quelle cose erano accadute per malefici di demoni.
I medici curarono, con grandissima sofferenza di lei, che lasciò più volte la pelle attaccata alle lenzuola, sia la donna, che aveva avuto una fortissima febbre, sia la domestica che si era rotta la coscia.
La donna, dimenticato il suo amante, da quel giorno, saggiamente, si guardò dal fare beffe e dall’amare; lo studente, sentendo che alla fantesca si era rotta una coscia, si ritenne soddisfatto.
Così, dunque, capitò alla stolta giovane per le sue beffe rivolte ad un giovane studente. Non sapeva che gli studenti, non tutti ma la maggior parte, ne sapevano una più del diavolo.
Perciò le donne si dovevano guardare bene dal beffare gli uomini e soprattutto gli studenti.