venerdì 26 luglio 2013

INTRODUZIONE ALL'OPERA

INTRODUZIONE


Tutte le volte che, graziosissime donne, penso a quanto voi siate, per natura, pietose, capisco che questa opera sarà, a vostro giudizio, pesante e noiosa, così come il doloroso ricordo della passata pestilenza, che tutti quelli che la vissero portano impressa nella memoria.
Non voglio ,perciò, che vi spaventi quello che leggerete più avanti, tanto da continuare a leggere tra sospiri e lacrime.
Questo orrido inizio sia per voi come per i viaggiatori che devono superare una montagna dura e ripida, nella quale si trovi una bellissima pianura, che sembra tanto più gradevole quanto più faticosa è stata la salita. E così, come il dolore segue l’allegria, così la letizia succede alle miserie.
A questo breve disagio seguirà ,poi, la dolcezza e il piacere che vi ho promesso.
In verità, se avessi potuto condurvi per un sentiero meno aspro di questo, lo avrei fatto volentieri, ma sono stato costretto a scrivere molte cose ,per spiegare perché esse avvenissero.
Dico, dunque, che si era giunti all’anno 1348 dalla nascita di Cristo, quando nella città di Firenze e nelle altre bellissime città d’Italia, giunse la terribile pestilenza, la quale ,per opera degli astri celesti o per la giusta ira di Dio, a causa delle nostre opere inique, fu mandata come punizione sui mortali.
Incominciata alcuni anni prima in Oriente, provocando la morte di innumerevoli esseri viventi, senza fermarsi, si spostò, ampliandosi, verso Occidente.
A nulla valsero la prudenza e i provvedimenti presi per motivi sanitari ,in base ai quali fu pulita dalle immondizie tutta la città ,ad opera di ufficiali all’uopo comandati, né il divieto per gli ammalati di entrare in città. A nulla valsero le preghiere rivolte a Dio da persone devote, né le processioni.
All’inizio della primavera la pestilenza cominciò a dimostrare i suoi terribili effetti.
Essa, mentre in Oriente si era manifestata con fuoriuscita di sangue dal naso, che portava irrimendiabilmente alla morte, in Occidente si manifestò diversamente.
Inizialmente, sia ai maschi che alle femmine, comparivano dei rigonfiamenti all’inquine e sotto le ascelle, alcuni crescevano come una comune mela, altri come un uovo, essi venivano chiamati “gavoccioli”.
In breve tempo questi gavoccioli mortiferi si diffondevano in tutte le parti del corpo, successivamente sopravvenivano macchie nere o livide ,alcune più grandi, altre più piccole.
Esse, come i gavoccioli, erano indizio di sicura morte.
Per queste infermità non valeva nessun consiglio di medico e nessuna medicina, sebbene il numero dei medici fosse grandissimo.
Solo pochissimi guarivano, anzi, quasi tutti al terzo giorno dalla comparsa di questi segni, con o senza febbre, morivano.
La peste passava dagli infermi ai sani ,come fa il fuoco con le cose secche o unte, che gli sono vicine.
Il contagio si diffondeva non solo se si parlava o si stava vicino agli infermi, ma anche se si toccavano i panni o qualsiasi cosa che era stata da loro usata.
 E devo dire un’altra cosa straordinaria di questa pestilenza, il fatto che essa attaccava non solo gli uomini tra loro, ma passava anche dagli uomini agli animali e li uccideva in brevissimo tempo.
Vidi con i miei occhi che, essendo stati gettati in mezzo alla strada gli stracci di un pover’uomo morto di tale infermità, due porci ,prima col muso e poi con i denti ,li afferrarono e vi si avvolsero. Dopo appena un’ora i porci caddero a terra morti.
Così i vivi pensarono bene di schifare e fuggire gli infermi e le loro cose, sperando, in tal modo, di acquistare salute.
Alcuni ritenevano che vivere con moderazione, senza cose superflue, li avrebbe protetti dalla peste e, costituita una brigata, vivevano isolati nelle case in cui non c’era alcun infermo, mangiando cibi delicatissimi, bevendo vini leggeri e profumati, evitando ogni lussuria e non parlando né di morti ,né di infermi.
 Altri, di opinione contraria, preferivano bere molto e godere, mangiare smodatamente, beffandosi di ogni cura e medicina, andando in giro per taverne, facendo solo ciò che arrecasse loro piacere, e, ritenendo di non dover più vivere a lungo, abbandonavano  le loro case. Per questo molte case erano state abbandonate ed occupate da estranei, a volte anche ammalati.
In tanta miseria, nella città le leggi non avevano più autorità perché i ministri o gli esecutori di esse o erano morti o giacevano infermi, per cui non potevano attendere ai propri doveri. Per questo tutti facevano quello che volevano, senza alcun rispetto delle leggi.
Altri , ancora, seguivano una via di mezzo tra i due estremi.
Bevevano e mangiavano moderatamente, usavano le cose, senza rinchiudersi, andavano in giro portando nelle mani fiori e spezie odorose ,avvicinandole continuamente al naso, per vincere il puzzo dei morti, dei malati e delle medicine.
Altri, ancora, ritenevano che la cosa migliore fosse abbandonare la propria città ed andare nel contado, in periferia, pensando che la pestilenza colpisse solo chi abitava in città.
Ormai ogni cittadino evitava l’altro non avendo cura dei parenti, sia gli uomini che le donne. Un fratello abbandonava l’altro e spesso la donna abbandonava il marito, e i padri e le madri, cosa terribile, abbandonavano i figli, quasi come se non fossero propri, e si rifiutavano di accudirli. Perciò quelli che si ammalavano non avevano alcun aiuto, se non la carità degli amici, in verità molto pochi, e l’avidità dei servitori.
Essi non facevano altro che porgere agli ammalati alcune cose da loro richieste o guardare quando morivano, e, anche così, spesso perdevano sé stessi insieme con il guadagno ,perché morivano per il contagio.
Per l’abbandono da parte dei parenti e degli amici, si diffuse un uso mai udito, per cui una donna, anche se leggiadra e bella, se si ammalava, prendeva a suo servizio un uomo a cui si affidava per tutte le cure e le incombenze, anche le più intime, che la sua malattia richiedeva, il che, in quelle che sopravvissero, fu causa di una minore onestà.
E poiché morirono tantissime persone, quelle che sopravvissero, fecero cose contrarie agli onesti costumi di prima.
Era usanza che le donne parenti o vicine di casa del morto si riunissero e piangessero, così pure i vicini e gli amici si radunassero davanti alla casa e poi veniva il clero che portava il morto nella Chiesa che egli aveva, precedentemente, indicato.
Man mano che la pestilenza divenne più feroce, queste usanze cambiarono.
Molti morivano da soli, senza alcun conforto o pianto dei congiunti e non potevano essere trasportati nella chiesa che avevano scelto. Venivano, invece, prelevati da persone prezzolate che venivano chiamate  “beccamorti” o “becchini”, di umile origine, che messili nella bara, li portavano nella chiesa più vicina ,dove c’erano pochi chierici che ,rapidamente, senza lunghi e solenni offici, con l’aiuto dei becchini, li seppellivano in qualche sepoltura ancora vuota.
La gente umile stava ancora peggio, perché non aveva potuto lasciare la propria casa, abitata da molte persone, dove il contagio si diffondeva molto più rapidamente, non aveva alcun aiuto e tutti morivano.
I vicini, temendo per sé, gettavano i corpi dei morti o degli infermi nella strada.
I vicini, da soli o con l’aiuto di alcuni portatori, tiravano fuori i morti, li ponevano davanti agli usci e facevano venire le bare. Ben presto le bare furono insufficienti. Allora misero molti cadaveri in una sola bara.
I preti, nel seppellirli ,sotto una sola croce misero sei o otto morti, senza che essi fossero onorati da alcuna lacrima, lume o compagnia.
I morti venivano trattati come capre.
Man mano che la moltitudine dei cadaveri aumentava, non fu possibile seppellirli in terra sacra, nelle chiese, secondo l’antica consuetudine, si scavarono, allora , delle grandissime fosse comuni dove si misero ,a centinaia, i morti , fino a quando ogni fossa non veniva riempita, poi si ricopriva con poca terra.
Anche nella periferia della città le cose non andarono meglio, anche lì i poveri ,con le loro famiglie, morivano come bestie, abbandonando i sani costumi antichi e i loro animali , buoi, asini, pecore, capre, porci, polli e cani, fedelissimi agli uomini.
Gli animali andavano in giro per la campagna, nutrendosi a sazietà ,senza controllo, e, a sera, ritornavano a casa spontaneamente.
Dunque, ritornando alla città di Firenze, si può dire che ,tra il marzo e il luglio del 1348, morirono più di centomila creature umane.
Ahimè, quanti palazzi e belle case, in precedenza pieni di nobili famiglie, rimasero vuoti.
In poco tempo la città divenne quasi vuota.
Un martedì mattina, come mi fu raccontato da una persona degna di fiducia, nella Chiesa di Santa Maria Novella, non essendovi quasi nessun altro, si ritrovarono sette donne, delle quali nessuna aveva superato i ventotto anni e nessuna era minore di diciotto, unite da amicizia o da parentela, di sangue nobile ,molto belle ed oneste.
Non posso dire i loro nomi perché le cose da loro raccontate, essendo oggi le leggi sulla morale molto ristrette, potrebbero arrecare loro critiche da parte degli invidiosi e diminuire la loro onestà.
Però, perchè si possa comprendere chi racconterà le novelle nei vari giorni, darò loro un nome fittizio.
Chiamerò la prima Pampinea, che è la più grande di età, la seconda Fiammetta, la terza Filomena, la quarta Emilia, la quinta Lauretta, la sesta Neifile , la settima , a ragione, Elissa ( le fanciulle sono sette come i giorni della settimana, come i pianeti, come le virtù teologali e cardinali, come le Arti Liberali. Sono le nuove Muse ,
ispiratrici di poesia).
Le sette fanciulle, portate lì dal caso, dopo aver pregato a lungo, cominciarono a ragionare.
Iniziò a parlare Pampinea “ Donne mie care” disse “ non si fa offesa a nessuno se si usa la ragione nel prendere i rimedi che noi possiamo per conservare la nostra vita.
Ogni volta che penso al nostro modo di comportarci stamattina, ai nostri sentimenti e al fatto che non facciamo altro che udire nomi di chi è morto o di chi sta per morire e pensare ai parenti che soffrono ,e dobbiamo ritornare nelle nostre case, dove mi sembra di vedere solo ombre di trapassati, sto male .
Vedo, ben chiara, l’inutilità di continuare a star qui, a piangere i morti e a correre il rischio di morire noi stesse per contagio.
Invece, penso che sarebbe opportuno che uscissimo dalla città e ce ne andassimo a stare in campagna (contado), dove prendessimo l’allegria e il piacere possibile, senza superare il buon senso.
In campagna si odono gli uccelli cantare, si vedono le verdi colline e le pianure e i campi di biada ondeggiare come il mare e alberi di vario genere e il cielo aperto, paesaggio molto più bello a guardare delle mura vuote della nostra città.
In campagna c’è un’aria più fresca e muoiono meno persone che in città, perché ci sono meno case e meno abitanti.
Noi non lasciamo nessuno, perché i nostri sono tutti morti, non arrechiamo dolore e noia a nessuno.
Perciò, quando vi sembrerà opportuno, credo che sia ben fatto prendere le nostre cose, le nostre fantesche e spostarci oggi in un luogo, domani in un altro, dove possiamo trovare allegria e festa, prendendo quello che questo tempo lugubre può offrire, prima che sopraggiunga la morte”.
Le altre donne lodarono e approvarono subito il consiglio di Pampinea e, desiderose di attuarlo, si misero a discutere.
Ma Filomena, molto prudente, disse “ Donne , ricordatevi che siamo tutte femmine e le femmine, senza l’aiuto e il consiglio di un uomo, non sanno regolarsi. Siamo volubili, litigiose, sospettose, paurose, per cui temo che, se non ci procuriamo altra guida che la nostra, la nostra compagnia si scioglierà presto, per questo  è opportuno attrezzarci ,prima di cominciare”.
Elissa, allora, disse “Veramente gli uomini sono a capo delle femmine. Senza la loro guida raramente le opere femminili giungono a buon fine. Ma come possiamo avere noi questi uomini? I nostri sono  morti o sono sparsi qua e là ,in diverse brigate, senza che si possano ritrovare. Prendere uomini sconosciuti non è opportuno sia per la nostra salute che per lo scandalo che ne seguirebbe”.
Mentre le donne così ragionavano, entrarono nella chiesa tre giovani, il più giovane dei quali non aveva meno di venticinque anni di età. Dei quali, uno era chiamato Panfilo, un altro Filostrato e il terzo Dioneo, tutti belli e garbati.
Essi provarono una grande consolazione nel vedere che le donne amate ,per fortuna, erano tutte e tre fra le sette donne ed alcune erano loro parenti.
Come le donne li videro, Pampinea ,sorridendo, disse “Ecco che la fortuna è favorevole ai nostri progetti e ci pone davanti giovani onesti e valorosi, che ,volentieri, ci faranno da guida”.
Neifile, arrossita fortemente, perché era una delle tre fanciulle da uno dei giovani amata, disse “ Pampinea, dobbiamo stare attente  perché, dato che si sa che i giovani sono innamorati di alcune di noi, senza che facciamo niente di male, potrebbero scaturirne critiche e infamia”.
Disse allora Filomena “Questo non importa; se viviamo onestamente e non abbiamo niente da rimproverarci, parli pure chi vuole, ci difenderanno Iddio e la verità. Se essi fossero disposti a venire, come ha detto Pampinea, sarebbe un colpo di fortuna “.
Le altre, alle parole di Filomena tacquero e assentirono e, tutte d’accordo, decisero di chiamare i giovani e di chiedere se volevano tener loro compagnia in quell’impresa.
Senza più parole, Pampinea, che era parente di uno dei giovani, si avvicinò con un sorriso, spiegando il programma e chiedendo loro di accompagnarle con animo puro e fraterno.
I giovani inizialmente credettero che si trattasse di uno scherzo, poi, vedendo che la donna parlava sul serio, risposero, lieti, di essere pronti per la partenza.
Preparata, dunque, ogni cosa, il giorno seguente, cioè il mercoledì, all’alba, le donne ,con alcune delle loro domestiche, e i tre giovani ,con i tre servi, si allontanarono dalla città per circa due miglia e giunsero al luogo prescelto.
Questo luogo era su una collinetta (Colle di Fiesole-sembra la casa abitata da Giovanni Boccaccio), lontano dalle strade, ricca di piante e di alberelli, sulla cima vi era un palazzo con un grande cortile nel mezzo, con logge, sale e camere, tutte bellissime e ornate di dipinti che raffiguravano prati e giardini, fonti di acqua, con cantine a volta piene di vini preziosi ,che si addicevano più ad esperti bevitori che a sobrie ed oneste fanciulle.
La casa, con grande piacere della brigata, era pulita, con i letti fatti , ed era piena di fiori di stagione.
Postisi a sedere, Dioneo, giovane pieno di spirito, disse “Donne, che, con tanto senno, ci avete guidati qui, non conoscendo le vostre intenzioni, vi dico subito le mie. Io voglio scherzare, ridere e cantare insieme con voi, se non siete d’accordo mi lascerete ritornare nella città piena di tribolazioni”.
Pampinea, lieta ,rispose “Dioneo, parli bene, noi qui vogliamo vivere festosamente, perciò abbiamo fuggito le tristezze della città. Ma , poiché le cose senza ordine non possono durare, io , che proposi il programma che fece nascere questa bella compagnia, ritengo necessario che ci sia un capo a cui noi tutti obbediamo. Perché ciascuno non provi il peso della responsabilità e non vi sia nessuno che provi invidia, propongo che a ciascuno di noi si attribuisca ,per un giorno, il comando della brigata e che chi comanderà per primo sia eletto da tutti noi. Il Capo dei giorni che seguiranno ,sarà scelto ogni giorno ,al tramonto, da colui che ha comandato in quella giornata”.
Queste parole piacquero molto a tutti, ed essi, ad una voce, elessero regina Pampinea.
Filomena corse a raccogliere un ramo di alloro, ne fece una ghirlanda e la pose in testa a Pampinea.
 La corona, poi, posta sul capo ,stette ad indicare chi deteneva il comando nelle varie giornate.
Pampinea, incoronata regina, comandò che tutti tacessero, poi assegnò alla servitù i vari incarichi.
Parmeno, servo di Dioneo, fu nominato siniscalco, con il compito di preoccuparsi delle esigenze di tutto il gruppo e del servizio della mensa. Sirisco, servo di Panfilo, fu nominato tesoriere e incaricato degli acquisti richiesti da Parmeno. A Tindaro, servo di Filostrato, fu affidato l’incarico di attendere alle camere dei tre giovani signori. Misia , fantesca di Pampinea, e Lisisca, domestica di Filomena, furono incaricate di provvedere alla cucina e alla preparazione delle vivande, secondo le disposizioni di Parmeno. A Cimera, di Lauretta, e a Stratilia, di Fiammetta, fu dato il compito della pulizia delle camere.
Tutti , infine, si allontanarono dal luogo e poi vi ritornarono. Ognuno aveva l’ordine di ascoltare, di vedere e di riferire agli altri solo buone notizie.
Dati questi ordini, Pampinea, lieta, si alzò e disse “ Qui ci sono giardini, prati e altri luoghi assai piacevoli, per i quali ciascuno può andare a suo piacere, all’ora terza, verso le undici  / mezzogiorno,  ci ritroveremo qui per mangiare al fresco”.
Sciolta la riunione , passeggiarono, con passo lento, in giardino, intrecciando ghirlande e cantando.
Quando tornarono all’ora stabilita e si sistemarono nello spazio assegnato dalla Regina , trovarono che Parmeno aveva iniziato il suo lavoro.
Infatti, entrati in una stanza a pianterreno, videro tavole ricoperte di tovaglie bianchissime, con bicchieri che parevano d’argento ed ogni cosa ricoperta di fiori di ginestra.
Dunque, lavatisi le mani, tutti occuparono i posti assegnati da Parmeno.
Furono portate delicatissime vivande e vini finissimi e silenziosamente i tre servi servirono le tavole.
Tutti mangiarono lietamente, scambiandosi piacevoli discorsi.
 Finito il pranzo ,la regina ordinò che fossero portati gli strumenti per suonare, ritenendo che le donne sapessero cantare ed anche gli uomini sapessero suonare e cantare.
Dioneo prese un liuto e Fiammetta una viola e cominciarono a suonare una musica, la Regina con le altre donne e i giovani, mandati i servi a mangiare, scelse una canzone e, con passo lento, cominciò a cantare.
Si continuò così fino all’ora di andare a dormire.
Allora, per ordine di Pampinea, i tre giovani si ritirarono nelle loro stanze, separate da quelle delle donne, e tutti si addormentarono in stanze piene di fiori.
Era appena passata l’ora nona (circa le diciotto) che la regina, svegliatasi, fece svegliare tutti dicendo che era nocivo il dormire troppo, di giorno.
Così se ne andarono in un praticello al riparo dal sole, mentre spirava un soave venticello.
Come ordinò la regina. Si posero a sedere in circolo.
Pampinea ,allora, disse “ Come vedete, qui è bello stare e fare qualsiasi gioco, perché ci sono  tavolette per giocare a dama o a scacchi.. Ma io vi propongo di non giocare, perché nel gioco c’è chi gioca e chi sta a guardare, annoiandosi, ma di raccontare novelle (novellare), il che può essere gradito a tutta la compagnia, in quanto uno racconta e tutti gli altri ascoltano. In questo modo trascorreremo la parte più calda della giornata. Ciascuno di voi non avrà ancora finito di narrare la sua novella, che il sole sarà declinato, il caldo sarà diminuito e potremo andare dove più desideriamo. Se il programma vi piace ,realizziamolo, altrimenti fino a sera (vespro) ciascuno faccia ciò che vuole”.
Tutti, uomini e donne ,approvarono “il novellare”.
La regina ,allora, stabilì che, nella prima giornata il tema delle novelle da raccontare fosse libero. E, rivolta a Panfilo, gli dette il comando di narrare lui la prima novella.
Immediatamente Panfilo, ascoltato da tutti, iniziò il racconto.
























21 commenti:

  1. Finalmente. Era ora che qualcuno si decidesse a intraprendere questa strada. Il Decameron è un'opera stupenda, deliziosa, critica verso costumi e culture che a distanza di 800 anni ancora persistono, audace, ironica. Un'opera grandissima che doveva essere riattualizzata, se non altro perchè tutti possano leggerla, e non soltanto gli studiosi e gli ostinati. Ma tutti tutti. Complimenti al "traduttore".

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  2. Grazie mille, questa parafrasi mi ha aiutata molto!

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  3. Complimenti, ottima parafrasi, mi è stata particolarmente utile.

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  4. Mi è servita parecchio questa parafrasi, fatta davvero molto bene, complimenti e grazie!

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  5. Aiuta a capire, anche se l'interpretazione spesso è discutibile

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  6. Parafrasi fatta molto bene e molto, molto utile! Invoglia moltissimo a proseguire la lettura... Grazie mille!

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  7. Volevo dire grazie alla persona che ha scritto questa parafrasi.

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  8. In questa introduzione Boccaccio prima di tutto parla in prima persona della peste e della condizione di Firenze. Boccaccio ci racconta quindi di questa pestilenza nata in Oriente e arrivata a Firenze solo nel 1348. Pochi infatti guariscono e la maggior parte muore a causa del contagio. Alcuni pensano che per guarire ci sia bisogno della moderazione e della sobrietà, altri al contrario pensavano che la cosa migliore fosse abbandonarsi agli eccessi. Boccaccio racconta inoltre che ormai non era rimasto quasi nessuno a far rispettare le leggi e tutti facevano ció che volevano, non era raro che i figli fossero abbandonati dai genitori che gli amici si abbandonassero tra loro o anche marito e moglie si evitassero per paura del contagio. Alcuni dice rimasero in città nonostante tutto e giravano per le strade con fiori e spezie profumate per coprire il puzzo dei morti, altri ancora pensavano di trasferirsi in periferia e molto invece decidevano di abbandonare completamente la città pr trasferirsi in campagna. Si perse l'usanza delle donne di riunirsi in casa per piangere il morto, anzi i becchino andavano in giro recuperando i cadaveri che venivano seppelliti insieme ad altre 7 o 8 persone senza nessuna celebrazione o compianto. Poi racconta anche della situazione nei borghi e nelle campagne, dove la gente moriva per strada senza nessuna assistenza, come animali. E molti si comportavano come se comunque sarebbero dovuti morire di lì a poco, abbandonarono i campi e cacciarono via tutti gli animali e pensarono solo a consumare quello che era rimasto.

    Questa cornice servì a Boccaccio come pretesto per inserire queste dieci novelle, ma anche perché questa descrizione così cupa della situazione in cui si trovavano la storia dei 10 ragazzi sembra più gioiosa e leggera per contrasto. Questo contrasto si riflette, se così possiamo dire, anche nel suo desiderio di ammenda al "peccato della fortuna".

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