sabato 11 aprile 2020

L’AMORE AI TEMPI DEL COLERA di Gabriel García Márquez. Terza settimana

11.04.2020
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L’AMORE AI TEMPI DEL COLERA di Gabriel García Márquez

Nella terza settimana ci soffermeremo sul romanzo L’amore ai tempi del colera di Gabriel García Márquez, il più noto autore sudamericano del ‘900. Protagonista è una violenta epidemia di colera. L’opera è ambientata a Cartagena de Indias tra la metà dell’800 e l’inizio del '900. Lo spettro del colera è sempre presente, come un filo sottile che accompagna la narrazione.
Mi soffermerò, in particolare, sul ritorno del Dott. Juvenal Urbino nei Caraibi, proveniente da Parigi. L’ambientazione è completamente diversa. Non siamo nelle città italiane, sconvolte dalla peste. Con il Boccaccio a Firenze e nel suo circondario, con il Manzoni a Milano e nel bergamasco.

Iuvenal Urbino, di ritorno da Parigi dove aveva vissuto per motivi di studio, è a bordo di una nave.
“La nave si fece strada nella baia, attraverso una coltre galleggiante di animali annegati, e la maggior parte dei passeggeri si rifugiò nelle cabine, per sottrarsi al fetore”.
Il giovane, perfetto nella sua eleganza parigina, riuscì a conservare il suo autocontrollo, anche se gli stringeva la gola un nodo che non era di tristezza ma di terrore.
Sul molo, quasi deserto, lo aspettavano la madre, le sorelle e gli amici più intimi. Li trovò smarriti e sparuti, con un tremito nella voce ed una incertezza nelle pupille. La vista della madre lo turbò moltissimo.
“Il mare sembrava di cenere, gli antichi palazzi di marchesi sembravano soccombere al proliferare dei mendicanti ed era impossibile cogliere la fragranza dei gelsomini dietro i suffumigi di morte delle fogne a cielo aperto”.
Nelle strade, simili a porcili, giravano un’infinità di topi affamati, che ostacolavano l’avanzare delle carrozze. Colto da un’infinita tristezza, nascose il volto alla madre e si mise a piangere in silenzio.

La vecchia dimora degli Urbino, un tempo palazzo nobiliare, era in pieno decadimento. Suo padre era morto nell’epidemia di colera che aveva decimato la popolazione sei anni prima e con lui era morto lo spirito della casa. A poco a poco si abituò all’afa e agli odori nauseanti, ripetendosi che quello era il suo mondo e doveva abituarsi.

Si gettò con vigore nel lavoro, rinnovando, in parte, lo studio del padre. Cercò di portare le innovazioni apprese a Parigi all’Ospedale della Misericordia, dovendo continuamente lottare con superstizioni ataviche.
“La sua ossessione erano le pericolose condizioni della sua città”.
Lottò in tutti i modi affinché fossero chiuse le fogne spagnole, abitate da un’infinità di topi, e si costruissero condutture chiuse che sfociassero in lontani canali e non nello spazio del mercato. La popolazione più umile che abitava nelle baracche faceva i propri bisogni all’aria aperta. Le feci si seccavano al sole, si trasformavano in polvere e venivano respirate da tutti.
Lottò invano perché i rifiuti non fossero gettati nelle lagune e non andassero in putrefazione, ma fossero inceneriti in un luogo appartato. Anche le acque da bere rappresentavano un pericolo mortale, perché in fondo agli orci proliferavano vermiciattoli invadenti.
Il dottore era seriamente preoccupato anche per le condizioni igieniche del mercato pubblico, un vasto spazio pubblico all’aperto davanti alla Baia di Las Animas, approdo per i velieri provenienti dalle Antille. Lì venivano buttati gli avanzi del mattatoio attiguo, teste macellate, visceri marce, residui di animali che rimanevano a galla, sotto il sole e la pioggia, in un pantano di sangue.
I suoi amici lo schernivano e, degni eredi degli hidalgos spagnoli, rivangavano i pregi storici della città, le loro origini gloriose, minimizzando il degrado del luogo.

Ad un tratto la situazione degenerò del tutto. L’epidemia di colera, le cui prime vittime caddero nelle pozzanghere del mercato, provocò in pochissimo tempo una grandissima mortalità.
In precedenza i morti venivano seppelliti sotto i pavimenti delle chiese o nei patii dei conventi, i poveri nel cimitero.
“Nelle prime due settimane di colera il cimitero traboccò, non rimase più un posto libero nelle chiese”.
Nell’orto della Comunità di Santa Chiara furono scavate fosse profonde per seppellire i cadaveri su tre livelli. Il suolo si impregnò di sangue come una spugna.
Dopo che fu dichiarato ufficialmente il colera, nella fortezza della guarnigione si sparò un colpo di cannone ogni quarto d’ora, perché una superstizione locale sosteneva che la polvere da sparo purificava l’aria.

Il colera cessò all’improvviso, come era cominciato, e non si seppero mai i danni che aveva arrecato. Esso aveva, comunque, dato una mano al destino, per un equivoco, come dice Marquez.
Infatti, perché sospettata di avere il colera, Fermina Daza, la più bella fanciulla dei Caraibi, venne visitata dal dottor Juvenal Urbino. Egli ne rimase folgorato e la sposò. Frattanto la vita scorreva e infinite vicende si susseguivano.

Florentino Ariza, l’eterno innamorato di Fermina, pur passando attraverso infinite avventure, che egli celò abilmente fingendosi omosessuale, non dimenticò il suo grande amore. Sempre col pensiero alla donna costruì la sua fortuna, diventando proprietario della compagnia fluviale dei Caraibi.
Morto Juvenal, ripresero i contatti tra Florentino e Fermina. La donna era ormai decisa a non perdere l’ultima occasione offertale dalla vita di vivere il suo amore. Nonostante le severe critiche di una componente della sua famiglia, si incontrò con l’uomo e ne accettò la corte.
“In una delle prime visite, parlando dei suoi battelli Florentino Ariza aveva rivolto un invito formale a Fermina Daza per fare un viaggio di riposo lungo il fiume… lei sentiva un’attrazione molto forte per il fiume”.
“Florentino portò mappe della rotta per entusiasmarla, cartoline di crepuscoli furibondi, poesie sul paradiso primitivo del fiume Magdalena, scritte da viaggiatori illustri”.
Nel viaggio sarebbe stata l’ospite d’onore ed avrebbe avuto una cabina tutta per lei, arredata come la sua casa.
Partirono il 7 Luglio del 1924, sulla nave dal nome “Nueva Fidelidad”, nome particolarmente appropriato.
All’imbarco fece gli onori di casa, con champagne e salmone affumicato, il Capitano Diego Sammartino, perfetto nella sua uniforme di lino bianco.
Il battello uscì dalla baia, avanzando per paludi e canali nell’aria libera del Grande Fiume della Magdalena.
Florentino conservava ricordi molto piacevoli, del suo viaggio di gioventù sul fiume. Proseguendo nella navigazione, rimase stupito dai cambiamenti.
Si accorse che il fiume Magdalena, uno dei più grandi del mondo, era solo un’illusione della memoria.
I giorni successivi furono caldi e interminabili. Il fiume divenne torrido e si fece sempre più stretto. Non arrivava il profumo dei gelsomini ma “la zaffata nauseabonda dei morti che passavano, galleggiando verso il mare. Non c’erano più guerre, né pesti ma i corpi gonfi continuavano a passare”.

C’erano pochi luoghi dove poter fare rifornimento di legna, per cui il battello rimase ormeggiato per una settimana. I taglialegna avevano abbandonato le terre, fuggendo dal colera invisibile e dalle guerre. La sosta forzata fu per i due innamorati un “contrattempo provvidenziale”. Immersi in un letargo irreale, vissero ore inimmaginabili, in una intimità struggente. “Uscivano dalla cabina quasi solo per mangiare”. Giunsero a La Dorada, porto finale, dopo undici giorni di viaggio. Uscirono dalla loro camera quando tutti i passeggeri furono sbarcati.

Ben presto cominciarono a salire sul battello i passeggeri del viaggio di ritorno. Fermina entrò in crisi perché tra i nuovi arrivati riconobbe molti suoi amici, che la conoscevano benissimo. Si rinchiuse di nuovo nella sua cabina, temendo le critiche. Ed ecco che, improvvisamente, mentre erano a cena nella sala riservata, Florentino ebbe l’idea che avrebbe trasformato la loro vita. Chiese al capitano «Sarebbe possibile fare un viaggio diretto, senza carico né passeggeri, senza toccare un solo porto, senza niente?». L’interrogato rispose che era possibile solo se vi era un caso di peste a bordo. Il battello si dichiarava in quarantena, si issava una bandiera gialla e si navigava in stato di emergenza. Aggiunse che lo aveva fatto diverse volte per molti casi di colera. Spesso si faceva per impedire perquisizioni inopportune. Con decisione Florentino disse «Bene, allora facciamo così». E firmò l’ordine scritto come gli era stato richiesto dal comandante.
Dalla riva i villaggi sparavano cannonate per scacciare il colera. Anche i battelli che incrociavano, mandavano segnali di condoglianze. Sulla nave Florentino suonò per ore il valzer “dea incoronata”. Ormai il solo pensiero del ritorno imminente toglieva il sonno ai due che, ormai, ritenevano la cabina del battello come la propria casa.

Rapidamente i passeggeri furono trasferiti su un altro battello. Il capitano chiese di fare un solo scalo a Puerto Nare per far salire una donna alta e robusta, Zenaida Neves, che egli affettuosamente chiamava “mia energumena”. E iniziò il viaggio più singolare del mondo.

L’ultimo giorno della traversata si alzarono già vestiti, pronti per sbarcare, quando una lancia della Sanità del porto ordinò di fermare la barca. Il Capitano rispose che vi erano a bordo tre passeggeri ammalati di colera che non avevano avuto contatti con l’equipaggio. Il comandante della pattuglia ordinò che uscissero dalla baia e si fermassero alla palude di Las Mercedes, in attesa di disposizioni per la quarantena.
Il battello uscì dalla baia e tornò alle paludi, mentre il capitano non sapeva come giustificare la bandiera del colera. Immediatamente Florentino disse «Andiamo a dritta, a dritta, a dritta, di nuovo verso La Dorada». Il capitano guardò l’uomo e Fermina e domandò «Fino a quando crede di poter proseguire questo andirivieni del cazzo?». E Florentino, senza un attimo d’incertezza, rispose «Per tutta la vita».
Il colera questa volta fu complice ed amico.

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