sabato 4 aprile 2020

I PROMESSI SPOSI (Cap. XXXI e XXXII) di Alessandro Manzoni. Seconda settimana

04.04.2020
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Nella seconda settimana ci soffermeremo a considerare il diffondersi della peste nel milanese nel 1630. Esamineremo i capitoli XXXI e XXXII dei I Promessi sposi di Alessandro Manzoni.
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I PROMESSI SPOSI (Cap. XXXI e XXXII) – ALESSANDRO MANZONI

Vi si dice che nei primi giorni del 1630 le soldatesche alemanne dilagarono nel milanese e nella Lombardia, portando con sé la peste. Essa non si fermò lì ma invase buona parte dell’Italia (in particolare Piemonte, Liguria, Emilia, Repubblica Veneta). Le notizie fornite dagli storici sono confuse e contraddittorie, come anche quelle degli atti pubblici. Di certo risulta che, per tutto il territorio attraversato dalle bande alemanne, si trovarono cadaveri nelle case e per le strade.
Poco dopo nei vari paesi cominciarono ad ammalarsi e morire persone e famiglie con mali che avevano sintomi sconosciuti ai più. Solo il protofisico Lodovico Settala, che era stato uno dei curatori più attivi della peste di San Carlo, pochi anni prima, precisamente nel 1629, la riconobbe e fornì informazioni al Tribunale della Sanità di Lecco, confinante con il bergamasco. Come dice il Tadino, Commissario inviato a Lecco, il problema fu sottovalutato e non si prese alcun provvedimento, in quanto le preoccupazioni della guerra erano più pressanti. Frattanto furono emanate grida in cui il Governatore ordinava pubbliche feste per la nascita del figlio primogenito del re Filippo IV.

Se la condotta dei governanti fu deplorevole, quella della popolazione non fu da meno. Tutti, governanti e popolo, evidenziarono una totale cecità di fronte al pericolo. Il Tadino individuò nel soldato Pietro Antonio Todato il primo ad entrare in Milano, portandovi il contagio. Egli giunse recando con sé un gran fagotto di panni rubati o comprati dai soldati alemanni, si fermò a casa dei parenti e poi vicino al convento dei Cappuccini. Si ammalò e fu portato all’ospedale, dove gli scoprirono un bubbone sotto l’ascella, il quarto giorno morì. La sua famiglia fu sequestrata, i suoi vestiti e il letto furono bruciati. Ma le tante tracce da lui lasciate seminarono morte sia nel lazzaretto che nella città. Ma ancora si negava che vi fosse la peste.

Molti medici, seguendo la voce del popolo, deridevano gli auguri sinistri e parlavano di malattie comuni. Il terrore dell’abbandono e dell’isolamento aguzzavano gli ingegni. Si corrompevano i becchini, non si denunziavano gli ammalati, e i medici che visitavano gli ammalati venivano corrotti per fare falsi attestati. L’odio del popolo colpì soprattutto due medici convinti della realtà del contagio, il Tadino e Senatore Settala, figlio di Lodovico Settala. Essi, come dice il Ripamonti, furono considerati nemici della patria, e, quando attraversavano le piazze, venivano assaliti con parolacce e con sassi. Lodovico Settala, mentre si recava a visitare i suoi ammalati, fu aggredito dalla folla e i suoi portantini furono costretti a ricoverarlo in casa di amici. La situazione peggiorò sul finire del mese di Marzo. In ogni quartiere della città si ebbero malattie e morti con evidenti tracce di lividi, bubboni, febbri maligne e pestilenziali. Il tribunale della Sanità emanò editti che prescrivevano la quarantena e i Decurioni, su ordine del Governatore, raccoglievano danari con imposte per mantenere la popolazione cui erano mancati i lavori. Il Tribunale e i Decurioni, non sapendo dove battere il capo, pensarono di rivolgersi ai Cappuccini. Fu proposto dalle alte sfere religiose, per l’assistenza ai malati, padre Felice Casati, di età matura e molto caritatevole, a lui si unì padre Michele Pozzobonelli, giovane ma ugualmente caritatevole. Il 20 Marzo entrarono nel Lazzaretto. Man mano che gli ammalati aumentarono, accorsero altri Cappuccini che sopperivano a tutte le incombenze. Padre Felice prese inizialmente la peste, in seguito guarì e si dedicò, con nuovo vigore, alla cura degli ammalati. Il padre rimase in quel luogo per sette mesi, assistendo circa cinquantamila appestati con l’aiuto dei frati, grazie ai quali furono aiutati migliaia di poveri. Ormai diffusosi il male in ogni parte d’Europa, non si poté più negare che si trattava di peste.

Si sparse allora la voce di gente che con arti magiche spargeva la peste per mezzo “di veleni, di malie”. Si parlava di 4 francesi, sospettati di spargere unguenti velenosi, pestiferi, che sarebbero capitati a Milano. Questa diceria fece sorgere il sospetto di un attentato. Alcuni sostennero che fossero state unte le panche e perfino le corde delle campane del Duomo. Poco dopo, in ogni parte della città, si videro le porte e le mura delle case intrise di una pittura giallognola sparsa come con delle spugne. I padroni delle case tentarono di coprire le zone unte e tutti i forestieri sospettati, chiamati “Untori” venivano arrestati e condotti in prigione.

Il 4 Maggio il Consiglio dei Decurioni si rivolse per aiuto al Governatore. Tra le tante cose, i Decurioni chiesero al Cardinale di Milano che si facesse una processione solenne, portando per la città il corpo di San Carlo. Inizialmente il buon prelato rifiutò perché temeva che gli untori, se veramente ve ne erano, avrebbero avuto vita facile a spargere il veleno durante la processione; inoltre, il radunarsi di tanta gente poteva favorire il contagio. Si diceva che il veleno fosse composto di rospi, di serpenti, di bava e materie degli appestati. La gente stava all’erta per scoprire gli untori, come dice il Ripamonti.
Un giorno, nella chiesa di Sant’Antonio, un povero vecchio, prima di sedersi, spolverò la panca con il mantello. Alcune donne, vedendolo, cominciarono ad urlare, accusandolo di ungere le panche. La gente, presente in chiesa, fu addosso al vecchio, colpendolo con violenza e portandolo, semivivo, in prigione. Lo stesso accadde a tre giovani compagni francesi che studiavano le scritte sulla facciata del Duomo.

Il Cardinale Federico, dopo molte insistenze da parte del popolo, acconsentì che si portasse in processione la cassa con le reliquie del Santo e che essa rimanesse poi esposta per 8 giorni sull’Altare del Duomo. All’alba dell’11 Giugno la processione uscì dal Duomo in gran pompa. Erano rappresentate tutte le classi sociali. Dietro al venerato cadavere veniva l’Arcivescovo Federico, seguito dal clero, poi venivano i magistrati, poi i nobili ed infine il popolo misto. La processione passò per tutti i quartieri della città. Ed ecco che, il giorno seguente, le morti crebbero in ogni parte della città. Tutti furono d’accordo nel ritenere che ciò fosse dovuto alla processione e agli untori che, mescolati alla folla, avevano infettato molti col loro unguento. In poco tempo la popolazione del Lazzaretto passò da duemila a sedicimila. I Decurioni si trovarono in grandissime difficoltà, dovendo provvedere alle pubbliche necessità. Furono create nuove figure, quali i Monatti e gli Apparitori.

I Monatti svolgevano il servizio più pericoloso, cioè quello di togliere dalle case, dalle strade, dal lazzaretto, i cadaveri. Li portavano, poi, sui carri alle fosse comuni. Conducevano gli ammalati al lazzaretto e bruciavano la roba infetta e sospetta. Vi erano, poi, gli Apparitori che avevano il compito di precedere i carri, suonando con un campanello in modo che i passanti si ritirassero. Infine vi erano i Commissari che dovevano provvedere a fornire il Lazzaretto di Medici, di Chirurghi, di Infermieri, di medicine, di vitto.

Aumentando gli ammalati furono necessari nuovi alloggi. Furono, allora, costruite, in gran fretta, capanne di legno e di paglia e un nuovo Lazzaretto, poi, altri due che non furono finiti, perché, crescendo il fabbisogno, diminuiva il Personale idoneo.
Molti bambini, cui erano morte le madri di peste, furono abbandonati. La Sanità propose di disporre un ricovero per i bambini abbandonati e per le donne partorienti bisognose di assistenza. Ma niente di tutto ciò fu fatto. Quando l’enorme fossa comune fu piena di cadaveri, i nuovi rimasero insepolti in ogni angolo della città, aumentando di giorno in giorno. Alla fine il buon ed energico padre Michele Pozzobonelli, scongiurato dal presidente della Sanità, si impegnò a sgombrare la città dei cadaveri in 4 giorni. Egli, con la forza del suo abito e delle sue parole, andò fuori dalla città dai contadini e ne convinse circa 200 a scavare tre grandissime fosse. Spedì, poi, i Monatti a raccogliere i morti.

Nel quarto giorno la promessa fu mantenuta. Accanto alla misericordia degli ecclesiastici, in aiuto venne la misericordia privata. Infatti, accanto all’indifferenza di tanti, vi fu la carità di molti civili. Il Cardinale Federico dava a tutti incitamento ed esempio, seguito dai religiosi, visitava i Lazzaretti, portava soccorso ai poveri, sequestrati nelle case. Visse in mezzo alla pestilenza, meravigliato di esserne uscito illeso.

I Monatti, in tali drammatiche circostanze, divennero gli arbitri di ogni cosa. Entravano da padroni nelle case, derubavano i proprietari e mettevano le loro mani infette, che avevano toccato gli appestati, sui sani, favorendo il contagio.

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