giovedì 11 dicembre 2014

SESTA GIORNATA - NOVELLA N.10

SESTA GIORNATA – NOVELLA N.10

Frate Cipolla promette a certi contadini di mostrare loro la penna dell’Angelo Gabriele, al posto della quale trovando carboni, dice che quelli erano i carboni che arrostirono San Lorenzo.

Avendo tutti componenti della brigata finito di raccontare, era arrivato il turno di Dioneo che, senza aspettare alcun ordine, cominciò a parlare rivolgendosi alle vezzose donne.
Disse che, pur avendo libertà di scegliere l’argomento della sua novella, voleva rimanere nel tema del giorno.
Voleva ,infatti, mostrare come uno dei frati di Sant’Antonio, con spirito pronto, riuscì a sfuggire allo scorno che gli avevano preparato due giovinastri.
Non si dovevano infastidire perché la novella era un po’ più lunga; era ancora presto e il sole era a metà del cielo.
Continuò dicendo che Certaldo, come tutti sapevano, era un castello di Valdelsa, nella campagna fiorentina, che, sebbene piccolo, fu abitato da uomini nobili e ricchi.
Perché da quel castello si ricavavano buone offerte, vi si recava, una volta all’anno, per raccogliere le elemosine fatte dagli sciocchi abitanti, uno dei frati di Sant’Antonio, il cui nome era frate Cipolla, perché quel terreno produceva cipolle famose in tutta la Toscana.
Frate Cipolla era piccolo di persona, con i capelli rossi, sorridente, il miglior brigante del mondo. Oltretutto, pur essendo ignorante, era un grande e arguto parlatore, tanto che chi l’avesse conosciuto avrebbe pensato che fosse Cicerone stesso o Quintiliano. Era compare di quasi tutti gli abitanti della contrada.
Secondo la sua abitudine, nel mese di Agosto, il frate andò a Certaldo una domenica mattina, quando tutti gli uomini e le donne del circondario si erano recati nella canonica a sentir messa.
Quando gli sembrò opportuno, si fece avanti e ricordò ai parrocchiani che era loro usanza ogni anno mandare ai poveri di Sant’Antonio offerte di grano e di biade, chi poco e chi molto, secondo la grandezza della proprietà e della devozione; tanto offrivano perché Sant’Antonio custodisse i buoi, gli asini, i porci e le pecore loro.
Oltre a ciò, ricordò che essi pagavano, una volta all’anno, una piccola somma in denaro, soprattutto gli iscritti alla Compagnia di Sant’Antonio. Egli era stato incaricato dall’Abate della riscossione di tali cose, perciò circa alle tre del pomeriggio, quando avrebbero sentito suonare le campane, tutti dovevano uscire dalla chiesa nella strada dove, al solito modo, avrebbe fatto una predica e avrebbe fatto baciare loro la Croce.
Inoltre, poiché sapeva che erano devotissimi di Sant’Antonio, per concessione speciale avrebbe mostrato loro una santissima reliquia, che aveva portato con sé dall’Oriente. La reliquia era una delle penne dell’Angelo Gabriele, che era rimasta nella camera di Maria Vergine, quando l’angelo era andato a Nazareth per l’Annunciazione. Detto ciò tacque e ritornò a celebrare la Messa.
Quando frate Cipolla diceva tali cose vi erano in chiesa, insieme agli altri, due giovani molto astuti, l’uno chiamato Giovanni del Bragoniera e l’altro Biagio Pizzini. Essi ,dopo aver riso un po’ della storia della reliquia, sebbene fossero suoi amici, decisero di fargli un brutto scherzo.
Avendo saputo che il frate la mattina pranzava al castello con un suo amico, come sentirono che era a tavola, scesero in strada ed andarono all’albergo dove il frate era alloggiato. Biagio doveva intrattenere il servitore di frate Cipolla, mentre Giovanni doveva cercare tra le cose del frate la famosa penna e sottrargliela, per vedere che cosa poi  egli avrebbe detto al popolo.
Frate Cipolla aveva un servo ,da alcuni chiamato Guccio Balena, da altri Guccio Imbratta e da altri ancora Guccio Porco, che era così stupido che nemmeno Lippo Topo, che era così stupido, ne aveva combinate tante. Spesse volte ,con la sua brigata, lo prendeva in giro dicendo che quel suo servo aveva in sé nove cose, che se una sola di esse l’avesse avuta Salomone o Aristotele o Seneca, avrebbe guastato ogni loro virtù, ogni loro giudizio, ogni loro moralità.
Avendogli più volte domandato quali fossero queste nove cose, messele in rima, rispondeva “ Egli è lento, sporco e bugiardo; negligente, disobbediente e maldicente; trascurato, smemorato e scostumato. Inoltre ha altri piccoli difettucci che è meglio tacere. Infine, quello che fa ridere di più è che vuole, a tutti i costi, prender moglie e lasciare la casa a pigione. Poiché ha una barba grande, nera e unta, si sente tanto bello e gradevole che pensa che tutte le donne che lo vedono si innamorino di lui  e, se lo lasciano ,corre loro dietro a tutte, perdendo anche la cintura.   
In verità mi è di grande aiuto perché ,se c’è qualcuno che mi vuol parlare in segreto, egli vuol sentire tutto.
Se sono interrogato su qualche cosa, ha tanta paura che io non sappia rispondere, che subito risponde si o no, come gli sembra opportuno”.
A quel servo, lasciandolo in albergo, il frate aveva raccomandato di controllare che nessuno toccasse le sue cose, soprattutto, le bisacce, dove erano le cose sacre.
Ma Guccio Imbratta desiderava stare in cucina più che l’usignolo sui verdi rami, specialmente se c’era una serva. Nella cucina dell’oste ne aveva vista una grassa, grossa, piccola e sgraziata, con un paio di poppe che parevano due cestoni per il letame, con un viso bruttissimo come quelli dei Baronci, tutta sudata, unta, che puzzava di fumo..
Subito, come un avvoltoio si gettava di solito su una carogna, lasciata la camera di frate Cipolla aperta e tutte le sue cose abbandonate, inseguì la serva. E, sebbene fosse Agosto, si sedette accanto al fuoco e cominciò a chiacchierare con quella, che si chiamava Nuta.
Le disse che era un gentiluomo, che aveva un sacco di fiorini, esclusi quelli che aveva prestato, che erano più o meno tanti, e che sapeva fare e dire tante cose, quante il suo padrone.
Non tenne conto del suo cappuccio, il quale era così unto che avrebbe potuto condire il pentolone della minestra d’Altopascio, del suo giubetto rotto e rappezzato intorno al collo e sotto le ascelle, tutto sporco con più macchie e più colori delle stoffe tartare e turche, delle scarpette tutte rotte, delle calze bucate. E continuò dicendo, come se fosse stato il re di Castiglione, che voleva rivestirla, rimetterla in forma e toglierla da quella sventura di stare a servire presso altri, senza alcuna ricchezza..
Voleva, infine, darle la speranza di una vita più fortunata e tante altre cose. Tutto ciò ,sebbene fosse stato detto con grande affetto, si trasformava in niente, come se fosse stato vento.
I due giovani, dunque, trovarono Guccio Porco occupato a far la corte a Nuta. Contenti di ciò, perché si erano risparmiati metà della fatica, senza nessuna difficoltà entrarono nella camera di frate Cipolla, che era aperta.
Per prima cosa cercarono la bisaccia, in cui era la penna; apertala, trovarono una piccola cassettina avvolta in un gran telo di seta. Nella cassettina trovarono una penna come quelle della coda di un pappagallo, che ritennero fosse quella che il frate aveva promesso di mostrare ai certaldesi.
Certamente egli poteva farlo credere perché le raffinatezze d’Egitto erano, allora, poco conosciute in Toscana, mentre, in seguito, erano arrivate in grande abbondanza, corrompendo tutto. Se erano poco conosciute in Italia, gli abitanti di quella contrada, perdurando la rozza onestà degli antichi, non le conoscevano per niente e non avevano mai visti, né uditi i pappagalli.
Tutti contenti i due giovani presero la penna e, per non lasciare la cassetta vuota, la riempirono con dei carboni, che avevano trovato in un angolo della camera.
Chiusero la cassetta e sistemarono ogni cosa come l’avevano trovata, senza essere visti. Poi se ne ritornarono con la penna e cominciarono ad aspettare ciò che il frate avrebbe detto, trovando carboni al posto della penna.
Gli uomini e le donne di umili origini che erano in chiesa, dopo aver udito che avrebbero visto la penna dell’angelo Gabriele, verso le tre del pomeriggio, finita la messa se ne tornarono a casa.
Ognuno lo disse al suo vicino, una comare all’altra, per cui , come ebbero finito di pranzare, un gran numero di uomini e di femmine accorse al castello, che a stento ci entravano, in attesa ansiosa di vedere la penna.
Frate Cipolla, dopo aver mangiato a sazietà e poi avendo dormito un po’, alzatosi poco dopo le tre e sentendo che era venuta una moltitudine di contadini col desiderio di vedere la penna, mandò a dire a Guccio Imbratta che, quando avesse sentito suonare le campane, doveva portare lassù le bisacce.
Guccio, strappato di mala voglia dalla cucina e dalla Nuta, faticosamente andò su ,portando le cose richieste. Giunto sulla collina, ansando perché il bere l’aveva fatto ingrassare, andato sulla porta della chiesa su comando del frate, cominciò a suonare con forza le campane.
Radunato tutto il popolo ,frate Cipolla, non essendosi accorto che le sue cose erano state smosse, cominciò la predica e, tenendo presente il suo obiettivo, disse molte parole.
Dovendo mostrare la penna dell’angelo Gabriele, fatta prima la confessione con grande solennità, fece accendere due grosse candele e con delicatezza, aprendo il telo, dopo essersi tolto il cappuccio, ne tirò fuori la cassetta. Dette prima alcune parole in lode dell’Angelo, aprì la cassetta. Come la vide piena di carboni, non sospettò che quella cosa fosse opera di Guccio Balena, perché non lo conosceva capace di tanto, né lo maledisse perché non aveva controllato che altri non lo facessero.
Se la prese ,tacitamente, con sé stesso perché lo aveva messo a guardia delle sue cose, ben sapendo che era negligente, disobbediente, trascurato e smemorato.
Senza cambiare colore, alzate le mani, disse a voce alta per essere udito da tutti “ O Iddio, sia sempre lodata la tua potenza”.
Poi, richiusa la cassetta, si rivolse al popolo dicendo “ Signori e donne, dovete sapere che quando io ero ancora giovane, fui mandato dal mio superiore in Oriente, per cercarvi oggetti particolari che, anche se non costano niente, sono più utili agli altri che a noi. Mi misi in cammino ,partendo da Vinegia, poi ,cavalcando per il reame del Garbo e per Baldacca, giunsi in Parione da dove, dopo un certo tempo, arrivai nella località di Sardigna. Ma perché vi sto indicando tutti i paesi che visitai? Giunsi ,dopo aver passato il Braccio di San Giorgio, in Truffia e in Buffia, paesi molto popolosi , e di lì nella terra di Menzogna, dove trovai molti nostri frati ed altri, i quali tutti per amor di Dio, sfuggendo la povertà, inseguivano la loro utilità, poco curandosi delle fatiche altrui, spendendo niente altro che parole. Poi passai in Abruzzo, dove gli uomini e le femmine vanno con gli zoccoli su per i monti, facendo le salsicce con le loro stesse budella. Poco oltre trovai genti che portavano il pane sui bastoni e il vino negli otri. Di lì giunsi alle montagne dei bachi ,dove le acque scorrono all’ingiù. E, in breve, tanto camminai che arrivai in India Pastinaca, là dove, vi giuro sull’abito che porto indosso, vidi volare i pennuti, cosa incredibile. Infine trovai quel buffone di Maso del Saggio, gran mercante, che schiacciava noci e vendeva gusci. Non avendo trovato quello che cercavo, poiché bisognava proseguire per mare, tornai indietro e arrivai in quelle terre sante, dove d’estate il pane freddo costa quattro denari e il caldo non costa niente. Qui incontrai il venerabile padre messer Nonmiblasmete Sevoipiace, degno patriarca di Gerusalemme. Egli, per rispetto all’abito di Sant’Antonio, che io ho sempre portato, volle che vedessi tutte le sante reliquie che aveva con sé; erano veramente tante che non ve le potrei assolutamente descrivere tutte.
Pure, per rallegrarvi, ve ne citerò alcune. Dapprima mi mostrò il dito dello Spirito Santo, poi il ciuffetto del Serafino che apparve a San Francesco, poi una delle unghie dei cherubini , una delle costole del “Verbum” e una delle vesti della Santa Fede Cattolica. E ,ancora, mi fece vedere alcuni raggi della stella cometa che apparve ai tre Magi in Oriente e un’ampolla del sudore di San Michele, quando combatté col diavolo, e la mascella della Morte di San Lazzaro ed altre.
Per questo  io gli copiai alcuni passi di Monte Morello in volgare e alcuni capitoli del Crapezio, che aveva a lungo cercato. Poi mi donò uno dei denti del Crocifisso e, in una piccola ampolla, il suono   delle campane del tempio di Salomone e la penna dell’angelo Gabriele, della quale vi ho già parlato, e uno degli zoccoli di san Gherardo di Villamagna ( il quale donai in Firenze a Gherardo di Bonsi, poco tempo fa).
Infine mi diede alcuni carboni con i quali fu arso il beatissimo martire San Lorenzo. Ho conservato devotamente tutte queste cose e le ho tutte. Il mio superiore non ha voluto che ve le mostrassi fino a che non fosse stato certificato che erano autentiche. Ora, per certi miracoli che esse hanno fatto e per certe lettere ricevute dal Patriarca, è sicuro della loro autenticità, perciò ha acconsentito che ve le mostri. Le porto sempre con me, temendo di affidarle ad altri.
In verità porto sempre con me la penna dell’angelo Gabriele, perché non si guasti, in una cassetta, e i carboni con i quali fu arrostito San Lorenzo in un’altra. Le due cassette si assomigliano molto ,per cui spesso viene presa l’una per l’altra, come è avvenuto ora. Perciò, credendo di aver preso la cassetta dov’era la penna, ho portato quella dov’erano i carboni.
Ritengo, comunque, che non si tratti di un errore, ma della volontà di Dio. Dio, infatti, pose nelle mie mani la cassetta con i carboni, ricordandomi io, appena adesso, che fra soli due giorni ci sarà la festa di San Lorenzo. Dio vuole che io, mostrandovi i carboni con i quali il Santo fu arrostito, riaccenda in voi la devozione per San Lorenzo. Per questo mi fece prendere, non la penna come volevo, ma i benedetti carboni spenti dal sangue del Santo. Per questo, figliuoli benedetti, toglietevi i cappucci e avvicinatevi qui per vederli devotamente.
Ma voglio che sappiate che chiunque sarà toccato da questi carboni con il segno della croce può vivere sicuro che per tutto quest’anno non sarà bruciato dal fuoco, senza che se ne accorga”.
Dopo aver detto ciò ,cantando una laude di San Lorenzo, aprì la cassetta e mostrò i carboni.
La folla dei fedeli, credulona, dopo averli visti, si accalcò tutta intorno a frate Cipolla, dando molte più offerte del solito, pregando che il frate li segnasse tutti.
Frate Cipolla, presi in mano i carboni, sopra i camicioni bianchi dei contadini, sopra i corpetti e sopra i veli delle donne cominciò a fare grandi croci, dicendo che sebbene i carboni si consumavano nel fare le croci, poi ricrescevano nella cassetta, così come egli aveva molte volte constatato.
In tal modo segnò con la croce tutti i certaldesi, con suo grandissimo vantaggio. Con questo accorgimento fece rimanere beffati coloro che, togliendogli la penna, avevano creduto di beffare lui.
I due briganti, che erano stati presenti alla predica e avevano udito la soluzione da lui trovata e quanto da lontano era partito con le parole, si erano sganasciati dalle risate.
Dopo che il popolo si fu allontanato, andarono da lui, gli raccontarono, con grande allegria, ciò che avevano fatto e gli restituirono la sua penna, che egli utilizzò l’anno successivo con lo stesso profitto che, in quel giorno, gli avevano procurato i carboni.  







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