giovedì 28 agosto 2014

QUINTA GIORNATA - NOVELLA N.5

QUINTA GIORNATA – NOVELLA N.5

Guidotto da Cremona affida a Giacomino da Pavia una fanciulla e muore; Giannole di Severino e Minghino di Mignole in Faenza l’amano antrambi; litigano tra loro; si viene a sapere che la fanciulla è sorella di Giannole e viene data in sposa a Minghino.

Ogni donna rise molto ascoltando la novella dell’usignuolo, senza potersi trattenere, anche dopo che Filostrato aveva finito il racconto.
La regina elogiò il narratore che, se il giorno prima le aveva rattristate, le aveva poi rallegrate.
Neifile ,al comando della regina, cominciò col dire che avrebbe continuato a parlare di cose avvenute in Romagna , e precisamente nella città di Fano.
Colà abitavano due lombardi, uno chiamato Guidotto da Cremona e l’altro Giacomino da Pavia, entrambi anziani, che in gioventù erano stati soldati.
Guidotto prima di morire affidò all’amico Giacomino, il solo di cui si fidasse, la sua unica figlia, che aveva allora dieci anni, facendogli molte raccomandazioni.
In seguito Giacomino si trasferì nella città di Faenza, portando con sé la fanciulla lasciatagli da Guidotto, che egli amava come una figlia.
Ella ,crescendo, divenne bellissima, quanto nessun’altra in città, ed anche onesta, per cui era corteggiata da molti, e, soprattutto da due giovani belli e garbati, che, per gelosia ,cominciarono ad odiarsi. L’uno si chiamava Giannole di Severino e l’altro Minghino di Mingale. Ognuno l’avrebbe presa in moglie, avendo ormai la fanciulla quindici anni, se i suoi parenti avessero acconsentito. Ma, essendo stato rifiutato il consenso, ciascuno pensava a come poterla avere..
Giacomino aveva in casa una vecchia domestica ed un servitore , di nome Crivello, del quale Giannole divenne molto amico.
Un bel giorno Giannole rivelò al servitore il suo amore per la fanciulla e lo pregò di aiutarlo.
Crivello gli disse che, quando Giacomino sarebbe andato a cenare fuori, egli l’avrebbe condotto dove stava la ragazza, combinando un incontro.
Frattanto Minghino si era fatto amica la domestica, che aveva portato diverse ambasciate alla fanciulla, accendendola d’amore per il giovane. Gli aveva anche promesso di farlo incontrare con lei, appena Giacomino si fosse allontanato da casa.
Non molto tempo dopo, Giacomino andò da un suo amico a cenare, come aveva organizzato Crivello.
Il servo, avvisato Giannole, gli lasciò l’uscio di casa aperto.
Frattanto la serva, non sapendo nulla, fece sapere a Minghino che Giacomino non c’era e che, a un suo cenno, poteva entrare nella casa.
Venuta la sera, sia l’uno che l’altro innamorato, non sapendo le intenzioni dell’altro, ma sospettando, con alcuni compagni armati, si recarono nei pressi della casa, pronti ad entrare.
 Minghino si mise a casa di un amico, Giannole si pose ad una certa distanza da essa.
I due servitori cercavano di mandarsi via l’un l’altro, senza riuscirvi.
Crivello, non preoccupandosi della vecchia, diede a Giannole il segnale; costui entrò nella sala e tentò, con due compagni, di rapire la giovane, che si mise a gridare.
Udendo le urla, Minghino accorse con i suoi compagni e cominciò a combattere per impedire il rapimento.
Anche i vicini accorsero in aiuto , ne seguì una mischia in cui Giannole e Crivello furono catturati e menati in prigione.
Giacomino, tornato a casa, apprese la vicenda e decise che era tempo di maritare la giovane, che non aveva nessuna colpa.
Il mattino dopo i parenti dell’una e dell’altra parte, conosciuta la verità, sapendo bene il danno che poteva derivarne per i giovani, chiesero a Giacomino di perdonarli, offrendo sé stessi e i due giovani innamorati per pagare qualsiasi multa volesse.
Giacomino, che era un buon uomo e ne aveva vedute tante, precisò che la fanciulla  non era né di Cremona, né di Pavia, ma era di Faenza e né lui, né lei stessa, né colui che gliela aveva affidata sapevano chi fosse il padre. Per questo non poteva maritarla.
I parenti si meravigliarono udendo che la giovane era di Faenza e spinsero il vecchio a raccontare tutta la vicenda.
E Giacomino disse che Guidotto da Cremona, suo compagno e amico, in punto di morte ,gli aveva raccontato
che, quando Faenza era stata conquistata dall’imperatore Federico II, egli era entrato in una casa abbandonata.
Colà aveva trovato soltanto una bambina, di circa due anni, che, come lo aveva visto, l’aveva chiamato padre.
Per questo, commosso, insieme con le cose della casa, se l’era portata a Fano.
Quivi, morendo, l’aveva affidata a lui, imponendogli di maritarla , al momento giusto, dandole anche la dote.
Venuta, ormai, l’età da marito, non poteva darla a nessuno perché non era il padre, pur desiderandolo tanto, per evitare altri episodi come quello della sera precedente.
Tra i presenti c’era un certo Guglielmino da Medicina che era stato con Guidotto al momento della conquista.
Egli sapeva bene a chi apparteneva la casa derubata e vedendo lì ,tra gli altri, il proprietario gli si avvicinò e gli disse “ Bernarduccio ,odi ciò che Giacomino dice?” e Bernarduccio rispose “ Ricordo bene che durante tali avvenimenti io perdetti una figlioletta di quella età di cui Giacomino parla”.
E Guglielmino confermò che la ragazza affidata a Giacomino era la figlia di Bernarduccio perché egli era ben informato sulla vicenda. Gli chiese, comunque, se ricordasse un particolare segno che la fanciulla potesse avere, per favorire il riconoscimento.
Bernarduccio ricordò che la fanciulla doveva avere una cicatrice a forma di una crocetta sull’orecchio sinistro, a causa di un ascesso che poco prima le era stato asportato.
Subito, senza più aspettare, si avvicinò a Giacomino e gli chiese di condurlo a casa sua per vedere la giovane.
Giacomino lo fece volentieri e, giunto a casa, la fece chiamare.
Come Bernarduccio vide la giovane, notò la grandissima somiglianza con sua moglie, che era ancora una bella  donna. Pure chiese al gentiluomo di poterle sollevare un po’ i capelli sopra l’orecchio sinistro. Avuto il consenso, timidamente si avvicinò alla ragazza e, sollevati i capelli, vide la croce.
Riconoscendo che era la figlia, cominciò a piangere e ad abbracciarla, sebbene ella si schernisse.
Rivolgendosi a Giacomino disse “ Fratello mio, questa è mia figlia. La mia casa fu quella derubata da Guidotto e la bambina fu dimenticata lì da mia moglie e da sua madre nella fuga. Credemmo che ella fosse bruciata, quello stesso giorno, con la casa”.
La giovane, udendo ciò, abbracciò commossa il vecchio.
Bernaduccio, immediatamente, mandò a chiamare la madre di lei, i parenti, i fratelli e le sorelle.
La mostrò a tutti ,raccontando la storia, e fece una gran festa. Infine ,con il consenso di Giacomino, se la portò a casa sua.
La notizia del ritrovamento si diffuse rapidamente e giunse al capitano della città che sapeva che Giannole, che teneva presso di sé, era figlio di Bertoluccio e, dunque, fratello carnale della fanciulla. Si pose, allora, come mediatore per risolvere la cosa amichevolmente; grazie a lui Giannole e Minghino fecero pace.
Minghino ebbe in moglie, con la gioia di tutti i parenti, la giovane che si chiamava Agnese.
Crivello e tutti quelli che erano stati imprigionati per il tentato rapimento furono liberati.
Minghino, dopo le nozze, si portò la sposa a casa e visse in pace con lei per molti anni .




giovedì 21 agosto 2014

QUINTA GIORNATA - NOVELLA N.4

QUINTA GIORNATA – NOVELLA N.4

Ricciardo Manardi è trovato da messer Lizio da Valbona con la figlia, la quale egli sposa e col padre di lei rimane in buona pace.

Mentre le compagne lodavano la novella di Elissa, la regina fece cenno a Filostrato di raccontare la sua.
Egli, ridendo, iniziò dicendo che, dopo aver rattristato le donne con i suoi crudeli ragionamenti, adesso voleva rallegrarle con una novelletta breve e a lieto fine.
Non molto tempo addietro viveva in Romagna un cavaliere molto per bene, chiamato messer Lizio da Valbona,
al quale, ormai vecchio, nacque una figlia dalla moglie, di nome madonna Giacomina.
Ella era bella e gentile ed era molto amata dai genitori che le volevano far fare un buon matrimonio.
Frequentava la casa di messer Lizio un bel giovane, appartenente alla famiglia dei Manardi di Brettinoro, chiamato Ricciardo. Egli si innamorò ardentemente della bellissima giovane, ma teneva nascosto il suo amore.
La ragazza se ne accorse e cominciò ad amarlo anch’ella.
Finalmente un giorno Ricciardo le rivolse la parola e le chiese di incontrarsi per non farlo morire d’amore.
Ella gli rispose di indicarle che cosa poteva fare per incontrarsi. Il giovane ,dopo aver pensato a lungo, la pregò di andare di notte sul verone che affacciava sul giardino del padre, dove avrebbe potuto raggiungerla di notte, sebbene il verone fosse molto alto.
Subito Caterina rispose che avrebbe cercato di andare lì a dormire, se il giovane le prometteva che sarebbe venuto. Ricciardo le assicurò di si, poi si baciarono una sola volta ed andarono via.
Il giorno seguente, essendo quasi la fine di maggio, la giovane si lagnò con la madre che la notte non aveva potuto dormire per il gran caldo. La madre rispose che non le sembrava che facesse tanto caldo.
Al che Caterina rispose che le donne giovani sentivano più caldo di quelle attempate e che voleva mettere un lettino sul verone, al lato della camera del padre, sul suo giardino , per dormire. Aggiunse che lì avrebbe potuto sentir cantare gli usignuoli e sarebbe stata molto più al fresco che in camera della madre.
Messer Lizio, poiché era vecchio, era un po’ burbero e disse “ Quale usignuolo è questo dal cui canto si vuol far addormentare? Io la farò addormentare col canto delle cicale”.
Udendo ciò Caterina la notte seguente non dormì per niente e non fece dormire nemmeno la madre, lagnandosi per il gran caldo.
Madonna Giacomina, intervenendo presso il marito, affermò che non c’era niente di male se la figlia voleva dormire sul verone e sentir cantare gli usignuoli e così ottenne il permesso.
La giovane, immediatamente ,si fece preparare un letto e attese a lungo Ricciardo per fargli segno che la notte seguente sarebbe andata a dormire sul verone.
Messer Lizio, accertatosi che la figlia se ne era andata a letto, chiusa la porta della sua stanza, che affacciava sul verone, se ne andò a dormire.
Ricciardo, come sentì che tutto era tranquillo, con gran fatica, con una scala, appoggiandosi a delle sporgenze del muro, arrivò sul balcone, dove fu accolto con grande amore da Caterina.
Trascorsero tutta la notte prendendo piacere l’uno dall’altra, facendo cantare più volte l’usignuolo.
Essendo già vicino il giorno, stanchi per le fatiche d’amore, senza nulla addosso, si addormentarono.
Caterina aveva il braccio destro intorno al collo del giovane, la mano sinistra su quella cosa che le donne si vergognano di nominare davanti agli uomini.
Mentre così dormivano, giunto il giorno, messer Lizio, svegliatosi, aperta la porta ,volle vedere come l’usignuolo aveva fatto dormire bene la figlia. Scostata la tenda che circondava il letto, vide i due giovani nudi e abbracciati, come sopra descritto.
Chiamò la moglie e le disse di andare a vedere che la figlia era talmente desiderosa dell’usignuolo che se l’era preso e se lo teneva in mano.
Madonna Giacomina corse e , scostata la tenda, poté vedere come la figlia avesse preso l’usignuolo che tanto desiderava di udir cantare.
La donna stava per gridare e inveire contro Ricciardo, che l’aveva ingannata, ma il marito le disse di tacere perché la figlia l’aveva preso e se lo sarebbe tenuto. Ricciardo era un giovane gentile e ricco e poteva essere un buon marito. Se si voleva allontanare con le buone doveva prima sposarla, dopo aver messo l’usignuolo nella gabbia di lei e non di altre.
La donna, vedendo il marito sereno e la figlia tranquilla per aver passato una buona notte, avendo preso l’usignuolo, tacque.
Ricciardo, al risveglio, accortosi che era giorno, temendo di morire, chiamò Caterina, le chiese come dovevano fare.
Il padre, scostando la tenda, rimproverò il giovane, che si scusava e chiedeva perdono, tremando per la paura, accusandolo di aver tradito la fiducia che aveva in lui. Aggiunse che ,tuttavia, comprendeva che era stato trasportato dalla giovinezza  e che , per salvare la situazione, doveva prendere Caterina come legittima sposa e tenerla sempre con sé; solo in questo modo avrebbe potuto salvarsi, in caso contrario ,poteva raccomandare l’anima a Dio.
Mentre si dicevano tali cose, Caterina lasciò l’usignuolo e cominciò a piangere, pregando sia il padre di perdonare il giovane, sia Ricciardo di accontentare il padre, in modo da poter avere altre notti come quella.
Ma non ci fu bisogno di molte preghiere perché  Ricciardo, sia per la paura di morire, sia per l’ardente amore e il desiderio per la donna, subito accettò la proposta di messer Lizio.
Il padre, fattosi dare da madonna Giacomina uno dei suoi anelli, senza muoversi, sposò Caterina con Ricciardo.
Fatto ciò , i due genitori si allontanarono, lasciando soli i giovani, che si abbracciarono e ricominciarono a fare l’amore per altre due volte, fino a tardi..
Poi si alzarono e presero accordi con messer Lizio per il matrimonio che fu celebrato, con grande festa, in presenza di parenti e amici, pochi giorni dopo.
E vissero in pace a lungo, andando a caccia di usignuoli, di giorno e di notte, come vollero.




giovedì 14 agosto 2014

QUINTA GIORNATA - NOVELLA N. 3

 QUINTA GIORNATA – NOVELLA N.3

Pietro Boccamazza fugge con l’Agnolella; incontra dei ladroni; la giovane fugge in una selva ed è condotta in un castello, Pietro è catturato, ma fugge dalle mani dei ladroni e dopo qualche problema giunge nel castello dove si trova Agnolella; la sposa e se ne torna a Roma con lei.

Tutti commentarono piacevolmente la novella di Emilia, poi la regina fece cenno ad Elissa di continuare.
La giovane comunicò che avrebbe parlato di una notte terribile vissuta da due giovinetti imprudenti, cui seguirono molti giorni lieti.
Viveva in Roma, in quel tempo in decadenza, dopo essere stata nei tempi antichi a capo del mondo, un giovane chiamato Pietro Boccamazza, di una nobile famiglia romana. Egli si innamorò di una bellissima e gentile fanciulla ,chiamata Agnolella, figlia di Gigliuozzo Saullo, uomo plebeo, molto caro ai romani.
Pietro riuscì a conquistare l’amore della ragazza e la chiese in moglie.
I suoi parenti, che non volevano Gigliuozzo Saullo né per amico, né per parente, impedirono a Pietro le nozze.
Pietro, vedendo che il matrimonio incontrava molti ostacoli, si sentì morire dal dolore, decise allora di fuggire da Roma insieme ad Agnolella.
Una mattina, svegliatisi prestissimo, montarono a cavallo e si diressero verso Anagni, dove li attendevano alcuni amici fidati.
Mentre cavalcavano facevano progetti per le nozze ,baciandosi.
Purtroppo Pietro non conosceva bene la strada, per cui ,essendosi allontanati per circa otto miglia, dovendo andare a destra, svoltarono a sinistra. Giunsero nei pressi di un castello, dal quale uscirono dodici soldati, che li inseguirono. Agnolella, accortasi degli inseguitori, volse il suo ronzino verso la foresta per fuggire.
Pietro, che guardava più al viso di lei che alla strada, senza accorgersi di nulla, fu raggiunto e catturato.
Gli inseguitori, riconosciutolo come amico degli Orsini, loro nemici, decisero di impiccarlo ad una delle querce.
Mentre il giovane si spogliava per essere impiccato, piombarono addosso al gruppo venticinque soldati nemici che misero in fuga gli assalitori.
 Pietro, mentre i due gruppi combattevano tra loro, salì sul suo ronzino e si diresse verso la via per la quale aveva visto fuggire la giovane. Non riuscì a ritrovarla e, piangendo, invano la chiamò.
Ma nessuno rispondeva ed egli non osava tornare indietro perché non conosceva la strada e temeva che le fiere, che abitavano le foreste, potessero sbranare sia lui stesso che la donna. Anzi gli sembrava di vederla strangolare da un orso o da un lupo.
Tutto il giorno andò in giro nella selva, gridando e chiamando. Alla fine era talmente stanco per il piangere, per la paura e per il digiuno che non poteva più andare avanti.
Sopraggiunta la notte, non sapendo che fare, trovata una grandissima quercia, vi salì sopra per non essere divorato dalle fiere, dopo aver legato il ronzino.
Dopo poco sorse una luna chiarissima. Pietro non riuscì a dormire sia per la paura di cadere, sia per il pensiero della fanciulla.
Frattanto Agnolella, non sapendo dove andare, si inoltrò nella selva, non riuscendo più a trovare il punto in cui vi era entrata. Girò a lungo nel bosco chiamando e piangendo, finché non trovò un viottolo, che il ronzino seguì. Dopo alcune miglia giunse ad una casetta, abitata da un buon uomo e da sua moglie, entrambi molto vecchi, che ,come la videro, le chiesero dove andasse a quell’ora. La giovane rispose che doveva andare ad Anagni.
Il vecchio le disse,allora, che quella non era la strada per Anagni, che era molto distante, e non vi era alcun luogo dove alloggiare.
Il vecchio le offrì volentieri ospitalità, aggiungendo che, comunque, era molto rischioso rimanere lì, perché in quelle contrade andavano in giro, di giorno e di notte, gruppi di sbandati che si azzuffavano tra loro. Queste brigate, vedendola così giovane e bella, potevano recarle danno, senza che loro due potessero aiutarla..
Ella, vedendo l’ora tarda, considerando che era meglio essere maltrattata dagli uomini che essere sbranata dalle fiere, accettò l’ospitalità.
Entrò in casa, cenò poveramente con quello che i vecchi avevano e si gettò, vestita, su loro letto.
Prima dell’alba si sentì un gran calpestio di gente, alzatasi rapidamente, la donna andò in un gran cortile che era dietro la casa e si nascose in un grosso mucchio di fieno che si trovava lì.
Si era appena nascosta che un folto gruppo di masnadieri bussò alla porta della casa. Fattisi aprire, videro il ronzino della giovane e chiesero chi c’era.
Il vecchio rispose che non c’era nessuno e che il ronzino, forse sfuggito a qualcuno, era stato da loro portato in casa per evitare che se lo mangiassero i lupi.
I ladroni ,allora, se lo presero , poi cominciarono a guardare in giro per controllare. Uno di loro, non sapendo che fare, gettò una lancia nel fieno e quasi uccise la donna nascosta. La lancia sfiorò il seno sinistro, tanto che le stracciò i vestiti. Ella stava per gridare, ma, ricordandosi dov’era, rimase in silenzio.
La brigata, cotti i capretti, dopo aver mangiato e bevuto, se ne andò per i fatti suoi, portandosi il ronzino.
Quando rimasero soli il vecchio chiese alla moglie dove era finita la ragazza. La moglie rispose che non lo sapeva ed andò a cercarla.
Agnolella, sentendo che erano partiti, uscì dal fieno e trovò il vecchio tutto contento perché i banditi non l’avevano catturata.
Essendo ormai giorno, il buon uomo insieme alla moglie, volle accompagnarla al castello dove sarebbe stata al sicuro. Bisognava , purtroppo, andare a piedi perché i briganti si erano presi il ronzino.
Si misero in cammino e giunsero al castello verso le sette e mezzo.
Il castello apparteneva a Liello di Campo di Fiore, della famiglia degli Orsini. Egli aveva una moglie buona e santa che riconobbe la giovane, la ricevette e volle sapere come era arrivata fin lì.
La sventurata raccontò tutta la sua vicenda.
 La nobildonna, che conosceva anche Pietro, in quanto amico del marito, addolorata, pensando che il giovane fosse morto, si offrì di ospitarla nel suo castello.
Pietro, dal canto suo, stando sulla quercia, vide arrivare venti lupi  che accerchiarono il suo ronzino, il quale, rotte le cavezze, si difese con i denti e con i calci. Alla fine i lupi lo atterrarono, lo strozzarono , lo sventrarono e, ben presto ,lo divorarono, lasciando solo le ossa, poi andarono via. Il giovane temette di fare la stessa fine e di non uscire più da quel bosco.
Era ormai vicino il giorno quando, quasi morto dal freddo, vide in lontananza un grande fuoco.
Non senza paura, scese dalla quercia e andò verso il fuoco ,intorno al quale trovò dei pastori che mangiavano e bevevano.Essi lo accolsero e gli diedero da mangiare.
Raccontata la sua avventura, Pietro chiese loro se vi era ,in quella zona, un castello dove potesse andare.
I pastori gli dissero che a poche miglia di distanza c’era il castello di Liello di Campo di Fiore, dove ,in quel momento si trovava la moglie. Due di loro lo accompagnarono volentieri.
Giunto al castello, mentre voleva far cercare la giovane nella foresta, Pietro fu chiamato dalla castellana, giunto in sua presenza trovò con lei Agnolella.
Grande fu la gioia di entrambi, che non si abbracciarono per timidezza.
La gentildonna lo accolse facendogli molte feste, ma lo rimproverò perché voleva sposarsi contro la volontà de parenti. Poi, vedendo che i due si amavano perdutamente, che il loro amore era onesto, che non facevano torto a nessuno, che ciò piaceva a Dio ,che li aveva fatti scampare uno alle forche, l’altra alla lancia ed entrambi alle fiere selvatiche, decise di aiutarli.
Visto che i due erano ben decisi a sposarsi, fece preparare le nozze a spese di Liello. Pietro lietissimo e Agnolella ancora di più si sposarono.
Rimasero per parecchi giorni al castello, poi, accompagnati dalla donna se ne tornarono a Roma dove, fatta la pace con i parenti, vissero fino alla loro vecchiaia.

giovedì 31 luglio 2014

QUINTA GIORNATA - NOVELLA N.2

QUINTA GIORNATA – NOVELLA N.2

Gostanza ama Martuccio Comito,. Ella, udendo che era morto, disperata e sola, si mette su una barca ed è trasportata dal vento in Susa; ritrovatolo vivo a Tunisi, si fa riconoscere; ed egli, divenuto importante per aver dato consigli al re, la sposa e, ricco, con lei se ne torna a Lipari.

La regina, dopo aver commentato la novella di Panfilo, fece cenno ad Emilia di proseguire con la narrazione di un’altra novella.
Ed ella incominciò dichiarando che era ben lieta di obbedire alla regina che chiedeva di parlare di amori che portavano piacere e non dolore, diversamente da quelli della giornata precedente.
Vicino alla Sicilia c’era un’isoletta chiamata Lipari, dove, non molto tempo addietro, viveva una bellissima giovane, di nome Gostanza, nata da una famiglia nobile dell’isola.
Di lei si innamorò un bel giovane valoroso, nativo dell’isola, chiamato Martuccio Gomito.
Anch’ella amava con uguale passione Martuccio e si sentiva bene solo quando lo vedeva.
Il giovane, desiderando sposarla, la fece chiedere in moglie al padre di lei, che gliela rifiutò perché era povero.
Martuccio, sdegnato per il rifiuto, giurò che non sarebbe mai più ritornato a Lipari ,se non ricco.
Partì, dunque, da Lipari, divenne corsaro e ,costeggiando la Tunisia, derubò i naviganti più deboli.
La Fortuna gli fu favorevole, se avesse saputo accontentarsi.
Egli e i suoi compagni, non contenti delle ricchezze accumulate, mentre cercavano di diventare straricchi, furono catturati e derubati da alcune navi saracene. Molti di loro furono uccisi e la nave fu affondata.
Martuccio fu condotto a Tunisi e fu imprigionato, vivendo in grande miseria.
A Lipari giunse la notizia che tutti quelli che erano sulla nave con Martuccio erano stati annegati.
La giovane, avuta la triste notizia, pensando che il suo amore era annegato, decise di darsi una morte insolita. Uscita di notte dalla casa del padre, trovò, per caso, una navicella di pescatori fornita di remi e di vela, un po’ separata dalle altre. Salita su di essa, si spinse in mare con i remi, abbastanza esperta della navigazione, come lo erano tutte le donne dell’isola. Poi gettò via i remi e il timone, abbandonandosi al vento.
Sicura di sfracellarsi contro uno scoglio e morire si mise a giacere nel fondo della barca, coprendosi il capo con un mantello.
Ma le cose andarono diversamente; il giorno seguente ,al Vespro, reggendo bene, la barca la portò a cento miglia oltre Tunisi, in una spiaggia vicina alla città di Susa.
La giovane non si accorse di nulla e rimase sul fondo della barca, col capo coperto, pensando di essere morta.
Per caso, quando la barca urtò contro la spiaggia, levava dal sole le reti dei pescatori una donna umile, che si meravigliò che la barca fosse giunta a terra con le vele spiegate. Pensò che i marinai si fossero addormentati, si avvicinò alla barca e vide soltanto la giovane che dormiva profondamente.
La chiamò più volte, per farla svegliare, capì che era cristiana perché parlava italiano e le chiese come era arrivata fin lì, sola soletta.
Gostanza, sentendo parlare italiano, credette di essere ritornata a Lipari, ma, non riconoscendo le strade, domandò alla donna dove fosse. Ella rispose che era a Susa, in Tunisia.
La fanciulla, dolente perché non era morta, si sedette, piangendo, vicino alla barca.
Solo dopo molte insistenze la buona donna riuscì a farsi raccontare tutta la storia e a farle mangiare un po’ di cibo, dato che era digiuna. Gostanza, rifocillatasi, le chiese il suo nome e come mai aveva imparato l’italiano.
La donna rispose che veniva da Trapani e il suo nome era  Carapresa. Il nome udito sembrò a Gostanza di buon auspicio e, scomparso il suo desiderio di morte, senza dare informazioni su di sé, pregò la donna di darle consigli per evitare le offese.
Carapresa, messe a posto le reti, coperta Gostanza col mantello, la condusse a Susa, da una buona donna saracena all’antica e di buona indole, sicura che l’avrebbe accolta come una figlia. Lì si sarebbe potuta trattenere fino a quando Dio non le avesse mandato una sorte migliore.
La donna, ormai vecchia, commossa per il triste racconto, prese Gostanza per mano e la condusse nella sua casa, dove viveva con diverse donne, senza alcun uomo.
Le donne facevano, con le proprie mani, diversi lavori di seta, di palma, di cuoio. La giovane imparò rapidamente e cominciò a lavorare insieme a loro e, trattata con grande affetto dalla padrona di casa, in breve, apprese anche il loro linguaggio.
Frattanto, mentre a Lipari Gostanza era creduta morta, ed era re di Tunisi Meriabdela ,un giovane di Granata, potente e nobile , dicendo che il reame di Tunisi apparteneva a lui, con un grande esercito, attaccò il re di Tunisi per cacciarlo dal suo regno.
Martuccio Gomito, in prigione, udì queste cose e disse ai suoi compagni che, se avesse potuto parlare con il re,
gli avrebbe dato un consiglio che gli avrebbe fatto vincere la guerra.
La guardia riferì immediatamente la cosa al re che fece chiamare Martuccio per sentire il suo consiglio.
Martuccio ben conosceva il modo di combattere dei saraceni, che conducevano le battaglie utilizzando soprattutto gli arcieri . Perciò spiegò al re che bisognava fare in modo che agli avversari mancassero le saette, mentre i suoi arcieri ne dovevano avere in abbondanza. In questo modo si poteva vincere la battaglia.
E continuò dicendo che bisognava fare, per gli archi degli arcieri, corde più sottili di quelle che comunemente si usavano, con le cocche adatte soltanto alle corde sottili. Consigliò di fare tutto segretamente. Dopo il lancio degli arcieri nemici e quello dei propri, al momento di raccogliere le frecce, i nemici non avrebbero potuto utilizzare le frecce degli arcieri del re ,mentre essi avrebbero avuto saette abbondanti.
Al re il consiglio di Martuccio piacque molto, lo seguì e vinse la guerra, grato rese onori e ricchezze al giovane.
La notizia di questi avvenimenti giunse a Gostanza che, per lungo tempo, aveva creduto morto Martuccio Gomito.
Ella comunicò alla buona donna che la ospitava di voler andare a Tunisi per vedere, con i propri occhi,
come stavano le cose. La donna , imbarcatasi con la giovane, come se fosse stata sua madre, andò a Tunisi a casa di una  parente, dove fu ricevuta onorevolmente. Subito  mandò Carapresa ,che era andata con loro, da Martuccio e gli disse che con lei a Tunisi era venuta anche la sua Gostanza.
Il giovane, lieto per la buona notizia, si recò con lei alla casa dove era ospitata Gostanza.
La fanciulla, come lo vide, quasi morì per la gioia; gli corse incontro, gli buttò le braccia al collo e, senza parole, cominciò a piangere.
Martuccio, sorpreso, rimase un po’ in silenzio ,poi, sospirando , disse “Gostanza mia, sei viva? Per molto tempo ti ho creduta morta e anche a casa tua non si sapeva niente di te”.
Poi l’abbracciò e la baciò teneramente. Gostanza gli raccontò le sue avventure e l’onore che aveva ricevuto dalla gentildonna, che l’aveva accolta nella sua casa.
Martuccio, allontanatosi , andò dal suo signore, gli raccontò tutto e gli chiese il permesso di sposarla secondo la religione cristiana.
Il re fece portare molti doni per i due innamorati e li lasciò liberi di fare ciò che volevano.
Martuccio compensò con molti doni la gentildonna che aveva accolto Gostanza. Poco dopo la donna partì, salutata dalla giovane in lacrime.
Poi, con il permesso del re, saliti sopra una navicella, portando con loro Carapresa, se ne ritornarono a Lipari, dove furono accolti con grandi feste.
A Lipari il giovane sposò la sua donna con grandi nozze e da quel giorno vissero insieme in pace, godendo del loro amore.   






venerdì 25 luglio 2014

QUINTA GIORNATA - NOVELLA N.1

QUINTA GIORNATA – NOVELLA N.1

Cimone diviene saggio per amore e rapisce in mare Efigenia, sua donna: in Rodi è messo in prigione, da cui lo tira fuori Lisimaco, e nuovamente con lui rapisce Efigenia e Cassandrea, che dovevano sposarsi fuggendo con loro a Creta; e quindi, divenute loro mogli,con esse ritornano alla propria casa, richiamati.


Panfilo, nell’iniziare il suo racconto, premise che esso avrebbe avuto felice fine e avrebbe fatto comprendere alla brigata quanto fossero divine e poderose le forze d’Amore, cosa che avrebbero dovuto tener presente tutti gli innamorati.
Dunque (come si era già detto nelle storie dei ciprioti) nell’isola di Cipro vi fu un nobilissimo uomo, chiamato Aristippo, ricchissimo, che aveva un solo problema. Tra tutti i suoi figli, ne aveva uno di grande potenza e bellezza fisica, ma quasi stolto e che non lasciava sperare niente di buono, che si chiamava Galeso.
Ma, poiché né fatica di maestro, né lusinghe o punizioni del padre o impegno d’altri gli aveva potuto far mettere giudizio, ed egli aveva una voce grossa e deforme e modi più convenienti ad una bestia che a un uomo , per burla, era chiamato da tutti Cimone, che, nella loro lingua, come nella nostra, suonava come “bestione”.
Il padre soffriva molto per la sua vita scombinata e , per non avere davanti la causa del suo dolore, gli comandò di andarsene in campagna e di vivere lì con i suoi contadini. La qualcosa gli riuscì graditissima perché egli gradiva di più le usanze degli uomini rozzi che quelle cittadine.
Standosene, dunque, Cimone in campagna, impegnato in lavori agricoli, un giorno, dopo mezzogiorno, passando da un possedimento ad un altro, col bastone in spalla, entrò in un bellissimo boschetto, tutto pieno di verdi foglie, poiché era il mese di maggio.
Andando per il boschetto, giunse in un praticello, circondato da alberi altissimi. Su uno dei lati c’era una bellissima fontana, al lato della quale ,vide dormire una bellissima giovane, con addosso un vestito molto sottile, che non nascondeva quasi per niente le candide carni. Solo dalla cintura in giù era coperta da un manto bianchissimo e sottile ;ai suoi piedi dormivano due femmine ed un uomo, suoi servi.
Cimone, come la vide, cominciò a guardarla con grandissima ammirazione e, nel rozzo petto, sentì nascere il pensiero di non aver mai veduto una cosa più bella.
Esaminò le varie parti di lei, ammirò i capelli, simili all’oro, la fronte, il naso e la bocca, la gola, le braccia e, soprattutto, il petto, non molto prosperoso, e, da agricoltore subito diventato intenditore di bellezza, desiderava di vedere gli occhi, che erano chiusi per il profondo sonno.
Desiderava svegliarla per vederli, ma, poiché era bella più di qualsiasi donna, pensava che potesse essere una dea ed aveva timore di svegliarla. E anche se gli pareva di trattenersi troppo, non riusciva ad allontanarsi.
Dopo molto tempo, la giovane, il cui nome era Efigenia, si svegliò prima dei suoi servi e, aperti gli occhi, vide davanti a lei, appoggiato al suo bastone, Cimone. Meravigliata, riconoscendolo, gli chiese che cosa cercava in quel bosco, a quell’ora.
Egli non rispose ma, fissando negli occhi aperti la giovane, provò una dolcezza che non aveva mai provato prima.
La giovane, temendo la fissità dello sguardo del giovane, lo salutò e, chiamate le serve, si avviò.
Cimone la seguì, senza indugi. Sebbene Efigenia cercasse di allontanarlo, egli non la lasciò andare finché non l’ebbe accompagnata a casa. Poi si recò dal padre dicendo che non voleva più ritornare in campagna.
Il padre, anche se malvolentieri, lo accontentò, aspettando di vedere quale fosse la ragione del cambiamento.
Ormai nel cuore di Cimone era entrata la saetta d’Amore per la bellezza di Efigenia.
In breve tempo il giovane ebbe un tale cambiamento da far meravigliare il padre e tutti quelli che lo conoscevano.
Dapprima chiese al padre vestiti eleganti come quelli dei fratelli, poi assunse modi garbati e raffinati, come si conveniva a gentiluomini e a innamorati. In breve tempo divenne molto colto. Non solo modificò il rozzo tono della voce, ma divenne maestro di canto e di suono e divenne espertissimo nel cavalcare e nel combattere sia per mare che per terra.
Dopo quattro anni dal giorno del suo innamoramento egli si trasformò nel più elegante e raffinato giovane dell’isola di Cipro.
La forza di Amore era stata tanto grande da trasformare completamente il giovane.
Sebbene Cimone, amando Efigenia, eccedesse in alcune cose, Aristippo lo assecondava in tutto, considerando che Amore ,da montone, l’aveva fatto ritornare uomo.
Ma Cimone, che rifiutava di essere chiamato Galeso, ricordandosi che così era stato chiamato da Efigenia, voleva onestamente coronare il suo sogno d’amore sposando la fanciulla amata. Perciò più volte la fece chiedere in sposa al padre di lei, Cipseo, che rispose di averla promessa a Pasimunda, giovane nobile di Rodi.
Venuto il momento stabilito per le nozze, Cimone promise ad Efigenia, grazie alla quale era diventato un uomo, di dimostrarle tutto il suo amore o morire. Ciò detto con alcuni amici fidati preparò una nave e si mise in mare, attendendo l’imbarcazione che doveva condurre la promessa sposa a Rodi dal marito.
La fanciulla si imbarcò e partì, dopo aver salutato il padre.
In mare Cimone raggiunse la nave e chiese ai marinai di arrendersi, poi, agganciando la nave con un rostro di legno, salì su di essa e in breve tempo la conquistò.
Il giovane spiegò ai marinai che non aveva nulla contro di loro, ma voleva soltanto Efigenia, da lui amata sopra ogni cosa. Il padre di lei non gliel’aveva voluta concedere come amico e Amore l’aveva costretto a conquistarla come nemico. Trasportata la donna sulla sua nave ,lasciò andare i rodiani senza prendere alcun bottino ,e, contento della cara preda, consolò lei che piangeva.
Poi, con gli amici, decise di non tornare a Cipro ma di dirigersi verso Creta dove, avendo tutti parenti e amici, credevano di essere al sicuro.
Ma la Fortuna, fino ad allora favorevole a Cimone, cambiò in amaro pianto, l’allegria del giovane.
Erano appena passate quattro ore da quando avevano lasciato i rodiani ed era appena sopraggiunta la notte che l’innamorato prevedeva la più piacevole di tutte.
All’improvviso sorse una violentissima tempesta, il cielo si riempì di nuvole e un vento pestilenziale si scatenò sul mare. La nave non si poteva più governare.
Tutti ebbero paura di morire, soprattutto Efigenia, che piangendo malediceva l’amore di Cimone e il suo ardire, che era contrario alla volontà degli dei. Tra i lamenti sempre più forti della fanciulla, non sapendo dove andassero, i marinai furono spinti con la nave in una piccola insenatura, dove erano giunti poco prima anche i rodiani, lasciati liberi da Cimone.
Appena spuntò l’alba, si accorsero che erano approdati vicino ai loro nemici.
Cercarono invano di allontanarsi ,ma il vento fortissimo glielo impedì e li spinse a terra. Appena approdati furono riconosciuti dai rodiani, che ,immediatamente, li catturarono e li condussero ad un villaggio vicino.
Ricopriva, allora, la somma magistratura dei rodiani Lisimaco che fece condurre in prigione Cimone con i suoi compagni ,come Pasimunda, lagnandosi con il senato di Rodi, aveva richiesto.
In tal modo il misero e innamorato Cimone perse Efigenia, appena conquistata, senza averle dato nemmeno un bacio.
La fanciulla fu accolta  e confortata dalle nobildonne di Rodi e rimase con loro fino al giorno fissato per le nozze.
A Cimone e ai compagni, poiché avevano lasciati liberi i marinai rodiani, fu donata la vita, ma furono condannati alla prigione eterna.
Frattanto Pasimunda faceva di tutto per accelerare il giorno delle nozze.
La Fortuna, pentita dell’offesa fatta a Cimone, decise di salvarlo.
Pasimunda aveva un fratello più piccolo d’età, non di valore, di nome Osmida, che voleva sposare una nobile e bella giovane di Cipro, chiamata Cassandrea, che Lisimaco amava straordinariamente.
Pasimunda decise di celebrare, con un’unica grandissima festa, sia le sue nozze con Efigenia che quelle del fratello Osmida con Cassandrea, per spendere meno, e anche il fratello e i suoi parenti furono d’accordo.
Diffusasi la notizia, Lisimaco si addolorò moltissimo , perché vedeva svanire la speranza di avere la giovane.
Da uomo saggio , tenne il dispiacere dentro di sé e cominciò a pensare di rapirla, non vedendo altra soluzione.
Ciò gli sembrò facile per il ruolo che ricopriva, ma disonesto. Tuttavia ,dopo lunga riflessione, l’onestà lasciò il posto all’amore e decise di rapirla.
Pensando ad un compagno per il rapimento si ricordò di Cimone, che era in prigione con i suoi uomini, e ritenne di non poter trovare un compagno migliore e più fedele per l’impresa.
La notte seguente, di nascosto, lo fece andare nella sua camera e gli disse “Cimone, gli dei, abili nel provare il valore degli uomini, hanno voluto sperimentare la tua virtù : prima , nella casa del tuo ricchissimo padre, quando la forza dell’amore ti fece diventare un uomo da insensato animale che eri, come ho saputo; poi, attualmente, ti hanno messo a dura prova facendoti stare in prigione, per vedere se il tuo animo cambiava.
Adesso ti preparano una cosa lieta, che io ti illustrerò, se non hai cambiato idea.
Pasimunda, che sperava che tu morissi, si affretta a celebrare le nozze con la tua Efigenia, che la Fortuna prima ti aveva concesso e poi ti ha tolto. La stessa ingiuria il fratello Osmida si prepara a fare a me , sposando Cassandrea, che amo sopra ogni cosa.
Per evitare questa offesa non vedo altra via che armarci col cuore e con le spade e tentare tu la tua seconda rapina ed io la prima, in modo da riavere tu la tua donna ed io la mia”.
Queste parole fecero ritornare il coraggio a Cimone , che subito rispose “ Lisimaco, non potrai trovare un compagno più forte e più fidato di me in questa impresa, perciò spiegami che cosa dobbiamo fare e vedrai che ti seguirò con grande forza”.
Lisimaco gli spiegò che tre giorni dopo le novelle spose sarebbero entrate nelle case dei loro mariti. Lì loro due con i compagni le avrebbero rapite e le avrebbero condotte su una nave, preparata in segreto, uccidendo chiunque li volesse contrastare. Cimone fu d’accordo e rimase, silenzioso, in prigione, attendendo il momento.
Venuto il giorno delle nozze, la casa dei due fratelli si riempì di gente per la festa.
Frattanto Lisimaco, preparata ogni cosa, divise Cimone e i suoi compagni ,con le armi nascoste sotto i vestiti,
in tre gruppi. Un gruppo lo mandò al porto, affinché nessuno potesse impedire loro di salire sopra la nave al momento opportuno. Gli altri due gruppi andarono alla casa di Pasimunda; uno rimase alla porta, affinché nessuno dall’interno la potesse chiudere ed impedire loro l’uscita; con l’ultimo gruppo, insieme con Cimone, salì su per le scale.
Giunti nella sala dove le donne erano sedute per mangiare, fattisi avanti e gettate le tavole per terra, ognuno afferrò la sua donna e la affidò ai compagni, per condurla subito alla nave, pronta per salpare.
La novelle spose cominciarono a piangere e a gridare insieme a tutti i presenti. Ma Cimone , Lisimaco e i compagni, tirate fuori le spade, liberarono la strada per la fuga.
Mentre scendevano , si fece loro incontro Pasimunda armato di un grosso bastone. Cimone, coraggiosamente, gli tagliò la testa a metà e lo fece cadere morto ai suoi piedi.
Il povero Osmida, che era corso in aiuto del fratello, fu ucciso anch’egli da uno dei colpi di Cimone. Gli altri che si interposero furono feriti e respinti dai compagni dei due innamorati.
Lasciata la casa piena di sangue, giunsero alla nave, imbarcatisi con le donne e i compagni, partirono ,mentre il lido si riempiva di armati.
Giunti a Creta furono accolti da parenti e amici e sposarono le loro donne.
 Trascorso un lungo periodo, placatisi in Cipro  e in Rodi i turbamenti per le loro imprese, per intercessione dei parenti, Cimone, dopo un lungo esilio, ritornò con Efigenia a Cipro e, similmente, Lisimaco con Cassandrea a Rodi. E vissero a lungo contenti, ciascuno nella sua terra.




giovedì 17 luglio 2014

QUINTA GIORNATA - INTRODUZIONE

Finisce qui la Quarta giornata del Decameron: incomincia la Quinta nella quale, sotto il reggimento di Fiammetta, si ragiona di ciò che ad alcuno amante, dopo diverse e difficili peripezie, capitò felicemente.




QUINTA GIORNATA – INTRODUZIONE

Era già tutto chiaro l’orizzonte ed erano sorti i primi raggi del sole nel nostro emisfero, quando Fiammetta fu svegliata dai dolci canti degli uccelli sugli alberi.
Appena alzata fece chiamare tutte le altre e i tre giovani, poi se ne andò a passeggiare per la campagna fino a quando il sole non si fu alzato, chiacchierando del più e del meno.
Venuta l’ora del pranzo, essendo stata apparecchiata ogni cosa dal siniscalco, dopo aver cantato qualche ballata, si misero a mangiare. Poi ballarono un po’, alcuni andarono a riposare, altri rimasero nel bel giardino.
Verso le tre del pomeriggio, si riunirono intorno alla fontana, come di solito.
Sedendo al posto d’onore ,la regina fece cenno a Panfilo di cominciare a raccontare le novelle allegre.




QUARTA GIORNATA - CONCLUSIONE

QUARTA GIORNATA – CONCLUSIONE

La novella di Dioneo fece ridere tutti ,sollevando gli animi rattristati per le novelle precedenti.
Il re, vedendo che il suo governo stava per finire, si scusò per aver scelto di parlare di un argomento così duro come quello dell’infelicità degli amanti.
Poi si alzò ,si tolse la corona e la pose sulla testa biondissima della Fiammetta, invitandola a scegliere per il giorno seguente delle novelle che potessero consolare un poco le sue compagne.
La Fiammetta, che aveva i capelli crespi, lunghi e d’oro, ricadenti sulle spalle delicate, un viso rotondetto con un colore di bianchi gigli e di rose vermiglie, splendido, con due occhi nerissimi e due labbra che sembravano due rubini, rispose che assumeva volentieri il comando.
Comunicò che in quel giorno si sarebbe parlato di ciò che ad alcuni amanti, dopo complicate e sventurate difficoltà, era accaduto felicemente. La qual cosa piacque a tutti.
Poi decise le cose da fare con il siniscalco, e licenziò tutti fino all’ora di cena.
Gli ospiti se ne andarono una parte verso il giardino e un’altra verso il mulino dove si macinava.
Venuta l’ora di cena si riunirono tutti intorno alla bella fontana e cenarono con molto gusto.
Dopo cena, come facevano di solito, si diedero alle danze e ai canti.
Filomena, che guidava le danze, invitò Filostrato a cantare una canzone sui dolori e sulle sue delusioni d’amore, per concludere quella giornata.
Filostrato volentieri cominciò a cantare una triste canzone d’amore.
Un amante piange per l’abbandono della sua donna e decide di morire. Le parole della canzone rivelarono lo stato d’animo di Filostrato e la ragione della sua tristezza.
Filomena, che era la causa del dolore del giovane, arrossì. Il suo rossore fu celato dalle tenebre della notte.
Dopo la sua canzone ne furono cantate altre, finché, al comando della regina, tutti si ritirarono nelle proprie camere.