giovedì 29 ottobre 2015

DECIMA GIORNATA - NOVELLA N.3

DECIMA GIORNATA – NOVELLA N.3

Mitridanes, invidioso della cortesia di Natan, va da lui per ucciderlo. Senza conoscerlo si imbatte in lui e, informato dallo stesso Natan sul modo, lo trova in un boschetto, come aveva stabilito; riconoscendolo si vergogna e diviene suo amico.

A tutti sembrò di aver udito una cosa simile ad un miracolo e cioè che un religioso avesse compiuto una cosa con magnificenza.
Terminati i ragionamenti delle donne, il re comandò a Filostrato che continuasse.
Il giovane, prontamente, incominciò dicendo che grande era stata la magnificenza del re di Spagna e, cosa mai udita prima, quella dell’abate di Cluny. Ma non meno meraviglioso sarebbe sembrato loro udire che un uomo , per liberalità, dispose di offrire il proprio sangue, anzi il proprio respiro ad un altro, che lo desiderava, e l’avrebbe fatto se l’altro l’avesse voluto, così come il narratore intendeva dimostrare con la sua favoletta.
Era certissimo, se si prestava fede ad alcuni genovesi che erano stati in quei luoghi, che nel Catai ci fu, un tempo, un uomo di origini nobili, ricchissimo, chiamato Natan. Dimorava vicino a una strada per la quale necessariamente dovevano passare sia quelli che da Ponente volevano andare verso Levante, sia quelli che andavano da Levante verso Ponente.
Poichè era di animo grande e liberale e desiderava essere conosciuto per le sue azioni, avendo presso di sé molti artigiani, fece costruire, in pochissimo tempo, uno dei più belli e ricchi palazzi che si fossero mai visti.
In esso fece porre tutte le cose utili per ricevere e onorare i gentiluomini. E accoglieva e onorava cortesemente, con il suo numeroso seguito, con garbo e con feste, chiunque passava di lì.
E seguì quella abitudine per molto tempo, tanto che divenne famoso non solamente al Levante, ma in quasi tutto il Ponente.
Egli era già pieno di anni, ma non si era ancora stancato di fare cortesie, quando la sua fama giunse alle orecchie di un giovane chiamato Mitridanes, di un paese non lontano dal suo.
Il giovane si sentiva non meno ricco di Natan ed era diventato invidioso della fama e della virtù del vecchio.
Si propose, perciò, di annullare o di offuscare con la sua liberalità quella di Natan.
Fece costruire, dunque, un palazzo simile a quello di Natan, cominciò a fare cortesie a chiunque passava di lì ed in poco tempo divenne molto famoso.
Un giorno, mentre se ne stava tutto solo nella corte del suo palazzo, una femminetta, entrata da una delle porte del palazzo, gli chiese l’elemosina e la ebbe; ritornò per una seconda porta e la ebbe; continuò ad andare ed ancora l’ebbe, finchè non giunse alla dodicesima porta.
Quando tornò per la tredicesima volta, Mitridanes le disse “ Buona donna, tu sei molto zelante nella tua richiesta”. Nonostante ciò fece l’elemosina.
La vecchierella, udite quelle parole, disse “ O liberalità di Natan, quanto sei meravigliosa ! Per le trentadue porte che ha il suo palazzo, così come questo, io sono entrata per chiedergli l’elemosina.  Egli non dimostrò mai di avermi riconosciuta e sempre me la diede. Qui sono venuta solo per tredici volte e mi hai riconosciuta e rimproverata”. Così dicendo partì e non ritornò più.
Mitridanes, udite le parole della vecchia, ritenne che ogni elogio rivolto alla fama di Natan sminuisse la sua. Preso dall’ira cominciò a chiedersi quali grandi cose potesse fare per superare la liberalità di Natan, se non gli si poteva avvicinare neppure nelle piccole. Pensò che l’unico modo era di toglierlo dalla terra.
Visto che la vecchiaia non se lo portava via, doveva provvedere personalmente, con le sue stesse mani, senza indugiare.
Presa questa decisione, senza comunicarla a nessuno, montato a cavallo con pochi uomini, dopo tre giorni giunse dove abitava Natan.
Ordinò ai compagni di stabilirsi lì fino a nuovo ordine e di fingere di non conoscerlo.
Poi, rimasto solo, sul far della sera, giunse vicino al bel palazzo e trovò Natan, tutto solo, che, vestito modestamente, se ne andava a passeggio. A lui ,non conoscendolo, chiese dove abitava Natan.
Natan, lietamente,rispose che ,in quella zona, nessuno lo sapeva meglio di lui, perciò ce l’avrebbe subito condotto.
Il giovane lo ringraziò, precisando che non voleva esser visto, né conosciuto da Natan.
L’uomo lo rassicurò che così avrebbe fatto, se gli piaceva.
Smontato il giovane da cavallo, entrambi se ne andarono fino al bel palazzo di Natan, conversando molto piacevolmente.
Ivi giunti ,Natan fece prendere da un suo servitore il cavalli di Mitridanes, gli si accostò all’orecchio e gli ordinò di non svelare al giovane la sua identità. Tale ordine fu dato a tutti gli abitanti del palazzo.
Entrati nel palazzo, alloggiò Mitridanes in una bellissima camera, servito da pochi, dove nessuno lo vedeva, lo fece onorare ed egli stesso gli tenne compagnia.
Mentre stavano insieme, il giovane, con la reverenza dovuta a un padre, gli domandò chi egli fosse.
Il vecchio rispose che era un umile servitore di Natan, che era stato al servizio di lui fin dalla fanciullezza ed era invecchiato con lui,né il padrone lo aveva mai fatto salire di grado; perciò se ogni altro uomo lo poteva lodare, egli non lo poteva fare.
Le parole da lui dette fecero nascere in Mitridanes la speranza di poter avere un consiglio e un aiuto per attuare la sua intenzione.
A lui, cortesemente, Natan domandò chi fosse e per quale motivo fosse andato fin lì. Gli promise di aiutarlo per quanto potesse.
Mitridanes indugiò un po’ a rispondergli, infine decise di fidarsi di lui e con un lungo giro di parole chiese la sua fiducia, il suo consiglio e il suo aiuto.
Poi gli disse chi era,perché era venuto ed, infine, gli svelò ogni cosa.
Natan, udendo i ragionamenti e le crudeli intenzioni del giovane, impallidì, ma, senza indugio, con coraggio e con fermezza ,gli rispose “ Mitridanes, tuo padre fu un nobile uomo, dal quale tu non ti discosti, volendo compiere una così alta impresa, cioè di essere generoso e liberale con tutti.
Molto apprezzo l’invidia che provi per la virtù di Natan, perché se ci fossero molte invidie del genere nel mondo, che è miserissimo, esso diventerebbe molto migliore.
Terrò nascosto a tutti quello che intendi fare, ma ti posso dare un consiglio molto utile, che è questo. Puoi vedere, a circa mezzo miglio da qui, un boschetto, nel quale Natan si reca quasi tutte le mattine ,da solo, per passeggiare a lungo, quindi è cosa facile per te trovarlo e fare quello che vuoi.
Se lo uccidi, perché tu possa ritornare a casa tua senza difficoltà, devi andare non per la via dalla quale venisti, ma per quella che vedi uscir fuori dal bosco a sinistra. Quella, infatti, è un po’ meno selvaggia, più vicina a casa tua e per te più sicura”.
Mitridanes, ricevuta l’informazione ed essendosi Natan allontanato, mandò a dire, cautamente, ai suoi compagni dove lo dovessero aspettare il giorno seguente.
Quando giunse il nuovo giorno, dal canto suo, Natan, non avendo mutato il consiglio dato al giovane, se ne andò al boschetto per morire.
Mitridanes, presi l’arco e la spada, montato a cavallo, andò al boschetto e vide Natan che passeggiava, solo soletto. Decise di volerlo vedere e sentir parlare, prima di ucciderlo. Corse verso di lui, lo prese per la benda che aveva sul capo e disse “ Vegliardo ,sei morto”.
Natan rispose soltanto “ Dunque l’ho meritato”.
Il giovane, udita la voce, lo guardò e subito riconobbe che era colui che l’aveva accompagnato familiarmente e fedelmente consigliato. Perciò la sua ira e il suo furore caddero e si convertirono in vergogna.
Gettò la spada, che aveva sguainato per ferirlo, smontò da cavallo e, piangendo, si gettò ai piedi di Natan e disse “Riconosco, carissimo padre, la vostra liberarità, considerando con quanta prudenza siete venuto a darmi il vostro spirito che io, senza alcuna ragione, desideravo avere.
Ma Dio, più attento al mio bene che io stesso,al momento opportuno ,mi ha aperto gli occhi, che la misera invidia mi aveva serrati. Quanto più considero che voi siete stato pronto a compiacermi, tanto più mi riconosco debitore della penitenza per il mio errore.
Dunque, prendete su di me la vendetta che considerate giusta per il mio peccato”.
Natan lo fece alzare in piedi, teneramente lo abbracciò e baciò e gli disse “ Figlio mio, la tua impresa ,che vuoi chiamare malvagia o altrimenti, non deve essere perdonata, perché la volevi attuare non per odio ma per essere ritenuto migliore. Vivi ,dunque, sicuro del mio affetto e sappi con certezza che non vive nessun uomo che ti ami quanto ti amo io. Ho riguardo per la nobiltà del tuo animo, il quale si è dedicato non nell’ammassar denari, come fanno i miseri, ma a spendere quelli ammassati.
Non ti vergognare di aver desiderato di uccidermi per divenire famoso e non pensare che mi meravigli.
Gli imperatori e i re non hanno quasi altra arte ( compito) che uccidere, non un solo uomo,come volevi tu, ma infiniti, ed ardere paesi e abbattere città, per ampliare i loro regni e, di conseguenza, la loro fama.
Perciò, se, per diventare famoso, volevi uccidere un solo uomo, non facevi una cosa straordinaria, né nuova, ma una cosa fatta molto spesso”.
Mitridanes ,non scusando il suo perverso desiderio, ma apprezzando la scusa trovata dal saggio per esso, alla fine aggiunse che si meravigliava molto che Natan fosse disposto a morire e gli avesse consigliato come fare per ucciderlo.
E Natan rispose “Mitridanes, non voglio che ti meravigli della mia libera decisione di aiutarti a fare quello che avevi deciso. Nessuno capitò mai a casa mia che non fosse accontentato da me nelle sue richieste.
Venisti tu, desideroso della mia vita, ed io , sentendotela chiedere, decisi di donartela, affinchè tu non fossi l’unico ad allontanarti senza aver ottenuto ciò che chiedevi. Perciò ti diedi il consiglio utile a prendere la mia vita e a non perdere la tua.
Ancora adesso ti dico e ti prego di prenderla, se ti piace. Io non so come spenderla meglio. L’ho adoperata già per ottanta anni e l’ho usata nelle cose che mi piacevano e mi davano consolazione.
So bene che, seguendo il corso della natura, come avviene per gli uomini e per le altre cose, essa mi può essere lasciata, ormai, per poco tempo. Ritengo, dunque, preferibile donarla a te, come ho sempre donato e speso tutti i miei tesori, che conservarla fino a quando, contro la mia volontà, mi mi sarà tolta dalla natura.
E’ un piccolo dono donare cento anni, ancora più piccolo donarne sette o otto, che possa ancora avere.
Prendila, se ti piace, te ne prego. Mentre sono vissuto, non ho mai trovato nessuno che la desiderasse, e non so quando potrò trovare un altro, se non la prendi tu che me la chiedi. Seppure dovessi trovare qualcuno che me la chieda, quanto più tempo  passa, tanto più essa perderà di valore. Perciò, prima che divenga più vile, prendila tu, te ne prego”.
Mitridanes , vergognandosi, gli rispose che solo Dio poteva togliere a Natan una cosa così cara com’era la sua vita, che egli non desiderava più come prima.Aggiunse che , se avesse potuto, avrebbe aggiunto gli anni di Natan ai suoi.
Subito Natan disse “ Vuoi veramente aggiungere i miei anni ai tuoi? E vuoi permettere a me di prendere le tue cose, il che, cioè prendere le cose altrui, io non feci mai? “.
Immediatamente Mitridanes rispose di si.
“ Dunque” disse Natan “ farai come ti dico. Tu, giovane come sei, resterai qui, nella mia casa e ti chiamerai Natan, io me ne andrò nella tua e mi farò chiamare Mitridanes”.
Allora il giovane rispose “ Se io sapessi operare bene come voi fate e avete fatto, prenderei, senza pensarci troppo, quello che mi offrite. Ma temo che le mie opere potrebbero diminuire la fama di Natan ed io non voglio guastare negli altri ciò che non so aggiustare in me. Dunque non accetterò”.   
Dopo aver molto piacevolmente discusso, ritornarono al palazzo.
Lì Natan ospitò con grandi onori ,per molti giorni, Mitridanes, spingendolo col suo ingegno e il suo sapere verso nobili obiettivi.
Alla fine ,Mitridanes ,ormai consapevole che non avrebbe mai potuto superare Natan in liberalità, decise di ritornare a casa.

      
 



giovedì 22 ottobre 2015

DECIMA GIORNATA - NOVELLA N.2

DECIMA GIORNATA – NOVELLA N.2

Ghino di Tacco cattura l’abate di Cluny, lo cura del male allo stomaco e poi lo lascia libero; tornato alla corte di Roma, l’abate riconcilia Ghino con il papa Bonifacio VIII, che lo nomina priore dell’Ordine degli Spedalieri.

Era già stata lodata la magnificenza che il re Alfonso aveva dimostrata nei confronti del cavaliere fiorentino, quando il re ordinò ad Elissa di continuare.
Elissa subito obbedì, dicendo che sicuramente il re Alfonso era stato degno di lode, avendo usato la sua magnificenza nei confronti del cavaliere.
Ella, dal canto suo, voleva raccontare di un religioso che aveva usato una ammirevole magnificenza verso una persona che se l’avesse trattata come un nemico, nessuno l’avrebbe potuto biasimare.
Sicuramente la magnificenza del re era stata virtù, quella del religioso miracolo, perché si sapeva bene che i chierici erano più avari delle donne, nemici di ogni liberalità. E , sebbene ogni uomo desiderava vendetta delle offese ricevute, i religiosi, come si poteva vedere, benché predicassero la pazienza e il perdono delle offese, più focosamente degli altri si lasciavano andare ad essa.
Nella novella che avrebbe narrato, avrebbero potuto conoscere la magnificenza del religioso.
Ghino di Tacco, molto famoso per la sua forza e per le sue ruberie, fu nemico dei conti di Santafiore, cacciato da Siena, fece ribellare il castello di Radicofani  alla Chiesa di Roma.
Abitando lì, faceva derubare dai suoi masnadieri chiunque passava da quelle parti.
Mentre era papa Bonifacio VIII, giunse a Roma, alla corte papale, l’abate di Cluny, che era ritenuto uno dei più ricchi prelati del mondo. Durante il soggiorno romano si ammalò di stomaco.
Dai medici gli fu consigliato di andare ai bagni di Siena, dove sarebbe sicuramente guarito.
Il Papa gli diede il permesso ed egli si mise in cammino, con un gran seguito di masserie, di muli da soma, di cavalli e di servitori, senza tener in conto le ruberie di Ghino.
Ghino di Tacco, avuta notizia di quel viaggio, preparò l’agguato e, senza che gli sfuggisse neppure un servitorello, circondò l’abate con tutto il suo seguito. Fatto ciò, mandò dal prelato il più istruito dei suoi uomini, che lo invitò cortesemente ad andare con lui al castello di Ghino.
L’abate, udendo ciò,infuriato rispose che non voleva avere niente a che fare con quelli come Ghino, ma voleva andare avanti e voleva vedere chi glielo poteva impedire.
L’ambasciatore umilmente gli disse che si trovava in un luogo in cui si  temeva soltanto la forza di Dio e le scomuniche e le interdizioni non erano tenute in nessun conto. Per questo la cosa migliore era di obbedire a Ghino.Mentre egli parlava i masnadieri avevano circondato tutto il luogo.
L’abate, catturato con tutti i suoi, si avviò verso il castello, con tutta la sua brigata.
Come Ghino aveva ordinato, fu messo, tutto solo, in una cameretta del palazzo, assai buia e scomoda, mentre tutti gli altri uomini del suo seguito furono sistemati decorosamente, secondo il rango. I cavalli e tutte le masserizie furono messi al sicuro, senza che fosse toccato nulla.
Fatto ciò ,Ghino si recò dall’abate e gli disse “ Messer Ghino, di cui siete ospiti, mi manda a pregarvi di dirgli dove andavate e per quale ragione”.
L’abate che, saggiamente,aveva già deposta la superbia, gli disse dove andava e perché.
Ghino, dopo aver ascoltato, si allontanò e pensò di volerlo guarire senza i bagni di Siena.
Fece accendere nella cameretta un gran fuoco e non tornò da lui fino alla mattina seguente. Allora gli portò, in una tovaglia bianchissima ,due fette di pane arrostito e un grosso bicchiere di vernaccia di Corniglia, quella dell’abate stesso. Poi disse all’abate “Messere, quando Ghino era più giovane studiò medicina e dice che non aveva trovato nessuna cura per il mal di stomaco migliore di quella che vi farà, della quale queste cose sono l’inizio; perciò prendetele e state tranquillo”.
Il religioso, che aveva più fame che voglia di discutere, anche se malvolentieri, mangiò il pane e bevve la vernaccia.
Poi disse molte altre cose e fece molte domande. Soprattutto chiese di poter vedere Ghino, il quale, celando la sua identità, lasciò cadere alcune domande perché inutili, ad alcune rispose e disse che Ghino, appena possibile, sarebbe andato a visitarlo.
Detto ciò, partì e ritornò il giorno dopo con la stessa quantità di pane arrostito e di vernaccia. E così tenne l’abate per molti giorni, finchè non si accorse che costui aveva mangiato fave secche, messe lì apposta e di nascosto. Gli disse, poi, che Ghino voleva sapere come stava con lo stomaco.
L’abate rispose che gli sembrava di star bene, eccetto il fatto che era prigioniero. Non desiderava altro che di mangiare, tanto bene l’avevano guarito le sue cure.
Ghino, dunque, fece sistemare, per lui e i suoi servitori, una bella stanza con le stesse masserie che aveva portato e fece apparecchiare un gran banchetto ,al quale fu invitato a partecipare tutto il seguito del religioso.
Il mattino seguente si recò da lui e gli disse “Messere, poiché vi sentite bene, è ora di uscire dall’infermeria”.
Poi lo prese per mano e lo condusse nella stanza apparecchiata, lasciandolo con i suoi.
L’abate si confortò e raccontò ai suoi quale fosse stata la sua vita nel castello, mentre, al contrario, tutti dissero che erano stati trattati splendidamente.
Venuta l’ora di mangiare, all’abate e a tutti gli altri furono serviti buone vivande e ottimi vini, senza che Ghino si facesse ancora riconoscere.
Dopo un certo tempo Ghino fece portare nella sala molti bagagli e nel cortile sotto la sala fece sistemare tutti i  cavalli, anche il più misero ronzino  Poi andò dall’abate e gli chiese se si sentiva bene e credeva di poter cavalcare.
L’altro rispose che era forte e del tutto guarito dal mal di stomaco e sarebbe stato meglio se fosse stato fuori delle mani di Ghino.
Allora Ghino lo fece accostare ad una finestra ,da cui poteva vedere tutti i suoi cavalli, e disse “ Messer abate, dovete sapere che l’essere un nobile uomo, l’essere stato cacciato dalla propria casa, l’essere povero ed avere molti nemici potenti, hanno costretto Ghino di Tacco, che sono io, ad essere brigante e nemico della Corte di Roma, per difendere la propria vita e la propria nobiltà.
Poiché mi sembrate un signore valente e poiché vi ho guarito dal mal di stomaco, non voglio trattarvi come farei con un altro, al quale prenderei quello che volessi. Scegliete voi, conoscendo le mie necessità, lasciate ciò che volete. Tutte le vostre cose sono davanti a voi e i vostri cavalli sono nella corte, come potete vedere.
Perciò prendete, come vi piace, e la parte e il tutto. D’ora in poi potete andare o rimanere, come vi piace”.
L’abate si meravigliò che un ladro di strada parlasse con parole così nobili e gli piacque molto.
Subito l’ira e lo sdegno si tramutarono in benevolenza e ,divenuto di tutto cuore amico di Ghino, corse ad abbracciarlo, dicendo “ Giuro, in nome di Dio, che,per guadagnare l’amicizia di un uomo come ormai ritengo che tu sia ,sopporterei di ricevere molte maggiori ingiurie rispetto a quelle che mi è sembrato che tu mi abbia fatto. Sia maledetta la fortuna che ti costringe ad un mestiere così dannoso”.
Poi, prese soltanto pochissime cose necessarie, gli lasciò tutte le altre e se ne tornò a Roma.
Il Papa aveva saputo della cattura dell’abate e se ne era rammaricato molto. Quando lo vide gli chiese se i bagni gli avevano giovato.
L’abate, sorridendo, gli rispose “ Santo padre, più vicino dei bagni, trovai un valente medico, che mi ha guarito ottimamente”. E gli raccontò il modo, di cui il Papa rise.
Continuando a parlare, l’abate, spinto dalla magnificenza del suo animo, chiese una grazia.
Il Papa ,credendo che volesse chieder altro, generosamente si offrì di fare ciò che gli veniva chiesto.
L’abate allora disse “ Santo Padre, io intendo domandarvi che voi concediate la vostra grazia a Ghino di Tacco, mio medico. Di quanti uomini valorosi ho conosciuto, e ne ho conosciuti tanti, egli è certamente uno dei migliori.Il male che egli fa ritengo che sia più un peccato della fortuna che suo. Se mutate la fortuna dandogli qualche cosa, grazie alla quale possa vivere secondo il suo stato, non dubito che, in poco tempo, egli sembrerà a voi, quello che sembra a me”.
Il Papa ,udendo ciò, essendo di animo grande e amante degli uomini valorosi, disse che l’avrebbe fatto, se era un uomo di tanto valore. Invitò ,pertanto, l’abate a farlo andare di lui ,senza pericolo.
Ghino, dunque, si recò a corte sicuro, come volle il suo protettore.
Quando fu al cospetto del Papa, il Santo Padre apprezzò il suo valore, si riconciliò con lui e gli donò la grande prioria dell’ordine degli Spedalieri, di cui l’aveva nominato cavaliere.
Fu amico e servitore della Santa Chiesa e amico dell’abate di Cluny finchè visse.





giovedì 15 ottobre 2015

DECIMA GIORNATA- INTRODUZIONE E PRIMA NOVELLA

DECIMA GIORNATA – INTRODUZIONE

Ancora erano vermiglie alcune nuvolette ad occidente, mentre quelle ad oriente erano diventate splendenti, simili all’oro per i raggi solari che, avvicinandosi, le ferivano, quando Panfilo, svegliatosi, fece chiamare le donne e i suoi compagni.
Riuniti tutti, decise con loro dove potessero andare per divertirsi. Poi, accompagnato da Filomena e da Fiammetta, si avviò, seguito da tutti gli altri.
Conversando piacevolmente del loro futuro, passeggiarono a lungo. Fecero un ampio giro, e, quando il sole cominciò a riscaldare troppo, ritornarono al palazzo. Qui si disposero intorno alla fontana e chi volle bevve un po’,dopo che erano stati sciacquati i bicchieri.
Poi, tra le piacevoli ombre del giardino, andarono scherzando fino all’ora di pranzo. Dopo aver mangiato e dormito, come solevano fare, si riunirono dove piacque al re, il quale comandò a Neifile di raccontare la prima novella della giornata.
Neifile volentieri incominciò.

























DECIMA GIORNATA – NOVELLA N.1

Un cavaliere è al servizio del re di Spagna, gli sembra di essere mal ricompensato, ; il re con grande sicurezza gli mostra che non è stata colpa sua, ma della malvagia fortuna del cavaliere, donandogli poi molto generosamente.

Neifile ringraziò il re perché l’aveva invitata a narrare per prima di atti di magnificenza, la quale, come il sole dà al cielo bellezza e ornamento, così dà luce ad ogni altra virtù.
Aggiunse che avrebbe raccontato una novella assai leggiadra, che sarebbe stato utile ricordare.
Un tempo in Firenze, tra tanti valorosi cavalieri, ve ne era uno, forse il migliore, di nome messer Ruggieri de’ Figiovanni, il quale era ricco e nobile di animo.
Egli, considerata la qualità del vivere e dei costumi del suo tempo in Toscana, vedendo che se fosse rimasto lì il suo valore non sarebbe mai stato apprezzato, decise di andarsene per un certo tempo al servizio di Alfonso, re di Spagna. La fama del valore del re superava quella di tutti gli altri signori di quel tempo.
Se ne andò, dunque in Ispagna, fornito onorevolmente di armi, cavalli e servitù ,e fu ricevuto cortesemente
dal re.
Dimorando colà messer Ruggieri, vivendo splendidamente e facendo imprese d’armi meravigliose, si fece presto conoscere come uomo valoroso.
Vivendo in Spagna per un buon periodo, osservando le maniere del re, si accorse che il sovrano donava castelli, città e baronie ora all’uno, ora all’altro con poco discernimento, dandoli a chi non valeva nulla. A lui , che ben conosceva il proprio valore, non aveva donato nulla.
Ritenne che ciò sminuisse la sua fama, perciò decise di partire e domandò commiato al re.
Il re glielo concesse e gli donò, perché la cavalcasse, un’ottima mula, la più bella che aveva, la quale fu molto utile al cavaliere, dato il lungo cammino che doveva fare.
Il re ordinò, poi, ad un suo servitore di accompagnare messer Ranieri, con discrezione, come se non fosse stato mandato dal sovrano , con l’incarico di farlo parlare e di riferigli poi tutto quello che il giovane aveva detto di lui durante il viaggio. Gli ordinò, ancora, di far ritornare indietro messer Ranieri il giorno dopo.
Il servitore, con molta prudenza, come il cavaliere si mise in viaggio, gli si affiancò, facendogli credere che andava verso l’Italia.
Cavalcarono insieme, messer Ruggieri sulla mula donatagli dal re , e l’altro, parlando del più e del meno.
Quasi alla terza ora (alle nove circa) messer Ruggieri decise di dare riposo alle bestie.
Entrati in una stalla, tutte le bestie, ad eccezione della mula, defecarono.
Proseguendo il cammino, giunsero ad un fiume. Qui, mentre abbeveravano le loro bestie, la mula defecò nel fiume. Vedendo ciò messer Ruggieri disse “ Che Dio ti punisca, bestia, ché tu sei fatta come il signore che a me ti donò”.
Il servitore raccolse quelle parole,e, in tutta la giornata, udì soltanto parole di somma lode in favore del re.
La mattina dopo, mentre stavano per partire verso la Toscana, il servitore riferì al cavaliere il comando del re e Ruggieri  immediatamente ritornò indietro.
Il re seppe subito quello che egli aveva detto alla mula, lo fece chiamare e gli chiese perché aveva paragonato lui alla mula o meglio la mula a lui.
Il giovane, con sincerità, gli disse “ Signor mio, io la paragonai a voi perché come voi donate dove non dovreste e non date dove dovreste, così ella non defecò dove era opportuno e, invece, defecò dove non era opportuno”.
Allora il re rispose “ Messer Ruggieri ,il non avervi donato, come ho donato a molti che a paragone di voi non valgono niente, non è stato dovuto al fatto che non abbia stimato voi valorosissimo cavaliere e degno di grandi doni . La colpa è stata della vostra fortuna che non me lo ha permesso. E’ stata lei a peccare, non io. Adesso vi dimostrerò che dico la verità”.
A lui Ruggieri rispose “ Signor mio, non mi turbo perché non ho ricevuto da voi alcun dono perché non ne avevo bisogno, essendo già molto ricco. Ma sono addolorato perché non ho avuto da voi alcun riconoscimento del mio valore. Accetto la vostra giustificazione e sono pronto a vedere ciò che volete fare, sebbene credo che non ce ne sia bisogno”.
Il re lo condusse, dunque, in una grande sala, dove erano due forzieri serrati e, alla presenza di molti, gli disse
“ Messer Ruggieri, in uno di questi forzieri vi è una corona, lo scettro ,il pomo reale e tutti i miei gioielli, l’altro è pieno di terra. Prendetene uno, quello che avrete preso sarà vostro .Potrete vedere chi è stato ingrato verso il vostro valore, se io o la vostra fortuna “.
Messer Ruggieri, visto che il re così desiderava, ne prese uno.
Il re comandò che fosse aperto e tutti videro che era pieno di terra.
Allora il sovrano, ridendo, disse “ Potete, dunque, ben vedere, messer Ruggieri, quello che vi dico della fortuna.
Ma poiché il vostro valore merita un riconoscimento, io mi opporrò alle sue forze. So che voi non volete diventare spagnolo, perciò non vi voglio donare né castelli, né città in Spagna. Voglio, invece, che sia vostro quel forziere che vi tolse la fortuna, per farle un dispetto, affinchè lo portiate nelle vostre contrade a testimonianza del vostro valore e vi possiate ,meritatamente, gloriare dei miei doni con i vostri vicini”.
Messer Ruggieri lo prese e rese grazie al re come si conveniva.
Lieto con il forziere se ne ritornò in Toscana.






venerdì 9 ottobre 2015

NONA GIORNATA - CONCLUSIONE

NONA GIORNATA – CONCLUSIONE

        Quanto ridessero di quella novella le donne, che l’avevano compresa meglio di quel che Dioneo voleva, si poteva immaginare.
         Ma, essendo finite le novelle e già incominciando ad intiepidire il sole, la regina, essendo giunta la fine della sua signoria, si alzò in piedi, si tolse la corona e la pose in testa a Panfilo.
         Rivolta al giovane,disse “ Signor mio, ti resta un compito difficile, essendo tu l’ultimo: cioè di correggere i difetto miei e degli altri che hanno rivestito l’incarico che tu ora ricopri. Che Dio ti aiuti, come ha aiutato me nel farti re “.
Panfilo lietamente ricevette l’incarico e, secondo il costume dei suoi predecessori, dispose con il siniscalco le cose che era opportuno fare.
Poi si rivolse alle donne che aspettavano e disse “Donne innamorate, Emilia, nostra regina, in questo giorno, per farvi riposare, vi ha lasciato libere di novellare su ciò che più vi piacesse. Ritengo che ora sia bene ritornare alla legge stabilita e , perciò, voglio che domani ciascuna di voi pensi di ragionare su questo tema : e cioè di chi liberalmente e magnificamente facesse qualcosa sia intorno a fatti d’amore che ad altra cosa.
Sicuramente questo tema troverà i vostri animi ben disposti ad operare con impegno. Tutto ciò ci porterà lodevole fama, perché la vita nel corpo mortale non può che essere breve, ma essa continuerà nella fama. Fama che deve desiderare e cercare con attenzione ognuno che non serve soltanto al ventre, come fanno le bestie”.
Il tema piacque all’allegra brigata.
Poi, col permesso del re, tutti si alzarono e fecero ciò che preferivano fino all’ora di cena. Dopo cena si dedicarono ai soliti balli e cantarono mille canzonette divertenti. 
Infine, il re ordinò a Neifile di cantare una canzone in suo onore ed ella ,con voce chiara e lieta, subito iniziò a cantare una canzone d’amore:
“Io sono una giovinetta , e volentieri
in primavera, sono allegra e canto,
 spinta dall’amore e dai dolci pensieri.
Io me ne vò per i verdi prati, guardando
i fiori bianchi, gialli e vermigli,
le rose con le loro spine e i bianchi gigli,
e ,tutti quanti, li paragono
al viso di colui che amandomi
mi ha presa e terrà per sempre, come colei
che desidera più di ogni altra.
Tra quei fiori, quando ne trovo uno,che sia
a mio parere, bello come lui,
lo colgo, lo bacio e gli parlo;
come so fare ,gli apro la mia anima e ciò che il cuore desidera;
poi ne faccio una ghirlandetta
e lo lego ai miei capelli biondi e leggeri.
Il guardare il fiore, con la sua naturale bellezza,
mi procura un piacere come quello
che proverei se vedessi la persona
che mi ha fatta ardere con il suo amore:
la sensazione che mi provoca il suo profumo
non la posso esprimere con le parole,
ma ne sono testimoni i miei sospiri.
Tali sospiri non escono mai dal mio petto
aspri e gravi,come dal petto delle altre donne,
ma vengono fuori caldi e soavi
e vanno al cospetto del mio amore,
il quale, come li avverte, si muove verso di me,
proprio quando  comincio a disperarmi”.
Molti furono i commenti sulla canzone da parte del re e delle donne.Subito dopo, essendo già trascorsa buona parte della notte, il re comandò che ciascuno andasse a riposare fino al giorno.





















Finisce la Nona giornata del Decameron: incomincia la Decima e ultima, nella quale, mentre è re Panfilo, si ragiona di chi operò con liberalità e magnanimità nelle imprese amorose o in altre cose.









giovedì 1 ottobre 2015

NONA GIORNATA - NOVELLA N.10

NONA GIORNATA – NOVELLA N.10

Don Gianni, su richiesta di compare Pietro, fa un incantesimo per far diventare la moglie una cavalla; quando va ad attaccare la coda, compare Pietro, dicendo che non voleva la coda, guasta tutto l’incantesimo.

La novella raccontata dalla regina fece mormorare le donne e ridere i giovani.
Quando finirono le risate, Dioneo cominciò a parlare. Egli disse che, come tra tante colombe bianche aggiungeva maggiore bellezza un nero corvo piuttosto che un candido cigno, così tra molti saggi accresceva bellezza alla loro saggezza un uomo poco saggio, portando divertimento e allegria. Perciò, essendo tutte loro molto discrete e attente, egli, che si sentiva alquanto scemo, faceva risplendere la loro virtù molto più che se fosse stato molto sapiente.Di conseguenza aveva grande libertà di dimostrare la sua stupidità e doveva essere sostenuto da loro, in quello che stava per dire, molto più che se fosse stato saggio.
Avrebbe raccontato una novella non troppo lunga, dalla quale avrebbero compreso come bisognava osservare diligentemente le cose imposte da coloro che facevano gli incantesimi e come ogni piccolo errore commesso guastasse ogni cosa fatta dall’incantatore.
L’anno precedente c’era stato a Barletta un prete, chiamato don Gianni di Bardo,il quale, poiché aveva una chiesa povera, per sostenersi, con una cavalla ,cominciò a portare mercanzia di qua e di là per le fiere della Puglia e a comprare e a vendere.
Nel suo andare diventò amico di un tale, che si chiamava Pietro da Tresanti, che con un asino faceva il suo stesso mestiere. Lo chiamava compare Pietro in segno di amicizia, alla maniera pugliese.
Tutte le volte che arrivava a Barletta, lo conduceva alla sua chiesa, lo ospitava e lo onorava come poteva.
Compare Pietro, dal canto suo, pur essendo poverissimo e avendo una piccola casetta a Tresanti, appena sufficiente per lui, la sua bella e giovane moglie e il suo asino, ogni volta che don Gianni capitava in paese, lo conduceva a casa sua e lo onorava, per ricambiare l’ospitalità che riceveva a Barletta.
Purtroppo non poteva ospitarlo come avrebbe voluto perché aveva solo un lettino, nel quale dormiva con la moglie. Aveva, però ,una stalletta dove veniva alloggiata, accanto all’asino ,la cavalla di don Gianni, il quale, a fianco a lei, giaceva sopra un po’ di paglia.
La moglie, sapendo dell’ospitalità che il prete offriva al marito a Barletta, spesse volte, quando il religioso andava da loro, voleva andarsene a dormire da una sua vicina, di nome Zita Carapresa di Giudice Leo, perché il prete dormisse con il marito nel letto. L’aveva detto tante volte a don Gianni, ma egli non aveva mai voluto.
Una volta il prete le disse “ Comare Gemmata, non ti preoccupare per me,perché io sto bene. Infatti, quando mi piace, faccio diventare questa cavalla una bella fanciulla e sto con lei, poi, quando voglio la faccio diventare nuovamente cavalla; per questo non mi allontanerei mai da lei”.
La donna si meravigliò ma ci credette e lo disse al marito. Aggiunse “ Se egli è amico tuo, come dici, perché non ti fai insegnare questo incantesimo, in modo da far diventare me cavalla e fare il tuo lavoro con l’asino e la cavalla?  guadagneremo il doppio e poi, quando ritorneremo a casa, mi potresti far ridiventare femmina, come sono”.
Compare Pietro, che era un sempliciotto, le credette, fu d’accordo e , come meglio seppe, cominciò a chiedere a Don Gianni di insegnargli quella cosa.
Don Gianni cercò di allontanare il compare da quella sciocchezza, ma, non riuscendovi, disse “ Visto che voi insistete, domani mattina ci alzeremo, come facciamo di solito, prima del giorno, e vi mostrerò come si fa.
La cosa più difficile in questo incantesimo è attaccare la coda, come tu vedrai”.
Compare Pietro e comare Gemmata dormirono appena, tale era l’ansia con cui aspettavano questo fatto.
Come il giorno fu vicino, si alzarono e chiamarono don Gianni, il quale, ancora in camicia, andò nella cameretta di compar Pietro e disse “ Non c’è nessuna persona al mondo per cui farei ciò se non per voi, ma visto che a voi piace, io lo farò. Dovete, però, fare tutto ciò che vi dirò, se volete che l’incantesimo avvenga ”.
Essi promisero che avrebbero fatto tutto ciò che egli diceva.
Dunque, don Gianni, preso il lume, lo pose in mano a compar Pietro e gli disse “ Guarda bene come farò e tieni bene a mente come dirò; guardati bene, se non vuoi guastare ogni cosa, dal dire una sola parola, qualunque cosa tu veda o oda. E prega Dio che la coda si attacchi bene”.
Il sempliciotto, preso il lume, promise che così avrebbe fatto.
Poco dopo, don Gianni fece spogliare nuda comare Gemmata e la fece stare con le mani e i piedi per terra, come stavano le cavalle, ammaestrandola, come aveva fatto col marito, che non dicesse una sola parola, qualunque cosa avvenisse.
Poi, toccandole con le mani il viso e la testa, cominciò a dire “ Questa sia una bella testa di cavalla” e, poi, toccandole i capelli ,disse “ Questi siano bei crini di cavalla” e, poi, toccandole le braccia, disse “  Questi siano belle gambe e bei piedi di cavalla” e ,poi, toccandole il petto e trovandolo sodo e tondo, ebbe un’erezione ( si svegliò il pene senza essere chiamato) non prevista, si alzò e disse “ E questo sia bel petto di cavalla”. E così fece alla schiena e al ventre e alle natiche e alle cosce e alle gambe.
Infine non gli restava da fare altro che la coda.Si levò la camicia e preso il piuolo col quale si piantavano gli uomini, subito lo mise nel solco fatto per quel motivo e disse “ E questa è una bella coda di cavalla”.
Compar Pietro, che aveva, fino ad allora, guardato attentamente ogni cosa, vedendo quell’ultima e non sembrandogli fatta bene, disse “ O don Gianni, io non voglio la coda,io non voglio la coda”.
Era già fuoriuscito il liquido che fa attecchire tutte le piante, quando don Gianni, tirato indietro il piuolo, disse  “Oimè, compar Pietro, che hai fatto? Non ti dissi di non proferir parola ,qualunque cosa vedessi? La cavalla stava per esser fatta, ma tu parlando hai rovinato ogni cosa, e ormai non si potrà fare mai più”.
Compare Pietro di rimando “ Mi sta bene, io non volevo quella coda lì. La stavate attaccando troppo bassa”.
Don Gianni rispose “ Perché tu, per la prima volta, non l’avresti saputa appiccicare come me”.
La giovane, udendo quelle parole, si alzò in piedi e, ingenuamente, disse al marito “ Bestia che sei, perché hai guastato i fatti tuoi e miei? Quale cavalla vedesti mai senza coda? Se Dio mi aiuta, tu sei povero, ma dovresti esserlo ancora di più”.
Non essendo più possibile farla diventare cavalla, per le parole che aveva detto compare Pietro, ella addolorata e malinconica, si rivestì . Compare Pietro continuò a fare il suo mestiere, come al solito, con il suo asino.
Con don Gianni andò alla fiera di Bitonto e non gli chiese mai più di fargli un tale incantesimo.