DECIMA GIORNATA – NOVELLA N.8
Sofronia, credendo di essere
moglie di Gisippo, diventa moglie di Tito Quinzio Fulvo e con lui se ne va a
Roma, dove arriva Gisippo in povero stato e, credendo di essere disprezzato da
Tito, afferma di aver ucciso un uomo, per essere condannato a morte. Tito lo
riconosce e, per salvarlo, dice di aver ucciso l’uomo; vedendo ciò, colui che
aveva commesso il fatto, si dichiara colpevole. Per la qual cosa vengono tutti
liberati da Ottaviano e Tito da in moglie a Gisippo la sorella e divide con lui
tutte le sue ricchezze.
Dopo che Pampinea aveva smesso di
parlare e tutte, soprattutto la ghibellina,
avevano commentato il comportamento di re Pietro, Filomena, per ordine
del re, cominciò .
Disse che tutti non ignoravano che
i re, quando volevano, sapevano essere magnifici e, sicuramente, facevano bene
a comportarsi come conveniva loro.
Se avevano elogiato con tante belle
parole le opere del re, certamente avrebbero apprezzato molto di più le opere
compiute da due giovani, lor pari, somiglianti o addirittura maggiori di quelle
del re.
Voleva, dunque, raccontare
un’impresa magnifica e degna di lode, compiuta da due cittadini amici.
Nel tempo in cui Ottaviano, non
ancora divenuto imperatore, comandava Roma, nel primo triumvirato, visse in
Roma un gentiluomo, chiamato Publio Quinzio Fulvo.
Costui aveva un figlio ,di nome
Tito Quinzio Fulvo, di grande ingegno, che mandò a studiare filosofia ad Atene.
Lo raccomandò, quanto più potè, ad un ateniese, suo amico di vecchia data,
chiamato Cremete, che lo ospitò nella propria casa, dove fu alloggiato insieme
al figlio, di nome Gisippo.
Cremete affidò l’istruzione di
entrambi i giovani ad un filosofo, chiamato Aristippo.
Tra i due giovani, che crebbero
insieme, nacque una fratellanza ed un’amicizia così grande che durò fino alla
morte. Ognuno di loro aveva pace solo quando erano insieme. Cominciati gli
studi, ciascuno ,dotato di altissimo ingegno, apprendeva la filosofia,
ottenendo grandissime lodi, in pari misura.
Vissero così per tre anni con
grandissimo piacere di Cremete, che li considerava entrambi suoi figli.
Quasi trascorsi tre anni, Cremete, ormai vecchio, morì.
I due giovani soffrirono ,in egual
modo, come se avessero perso il padre e i parenti e gli amici di Cremete non
sapevano chi consolare di più.
Dopo alcuni mesi, i parenti, gli
amici e lo stesso Tito spinsero Gisippo a prendere moglie e gli trovarono ,come
sposa, una bellissima giovane, di origine molto nobile, cittadina di Atene, il
cui nome era Sofronia, di quasi quindici anni.
Avvicinandosi il tempo delle nozze,
Gisippo pregò Tito di andare con lui a vederla, perché non l’aveva ancora
vista. Quando giunsero a casa di lei, la fanciulla si sedette in mezzo a loro.
Tito cominciò a guardarla attentamente e provò una grande attrazione per lei.
Ogni parte di Sofronia gli piaceva straordinariamente e , senza darlo a vedere,
se ne innamorò follemente.
Dopo essersi trattenuti per un
certo tempo se ne ritornarono a casa. Qui Tito, ritiratosi nella sua camera,
cominciò a pensare alla giovane e si accendeva sempre di più. Tristi pensieri
lo assillavano. Considerava gli onori che aveva ricevuti da Cremete e dalla sua
famiglia e l’amicizia che lo legava a Gisippo, a cui la fanciulla era promessa.
Perciò , si diceva, la doveva considerare come una sorella ,frenare il
desiderio dei sensi e rivolgere altrove i suoi pensieri. Quello che desiderava
non era onesto e la vera amicizia richiedeva che egli abbandonasse quell’amore
sconveniente.
Poi, ricordandosi di Sofronia, pensava
il contrario, e cioè che le leggi dell’amore erano più potenti delle altre e
rompevano non solo le leggi dell’amicizia ma anche quelle divine; era già
capitato tante volte che un padre aveva amato la figlia, il fratello la
sorella, la matrigna il figliastro, cose sicuramente più mostruose di un amico
che amava la moglie di un altro. Egli era giovane e doveva abbedire alle leggi
dell’amore, l’onestà apparteneva agli uomini più maturi. La fanciulla meritava
di essere amata da tutti per la sua bellezza. Egli non l’amava perché era la
moglie di Gisippo, ma per la sua bellezza e l’avrebbe amata di chiunque fosse
stata.La fortuna aveva sbagliato a concederla all’amico, invece che ad un
altro,e Gisippo doveva essere contento perché l’amava lui e non un altro.
Tra mille ragionamenti consumò quel
giorno, la notte seguente e molti altri giorni e notti, perdendo il sonno e
l’appetito, tanto che per la debolezza fu costretto a stare a letto.
Gisippo, che l’aveva visto prima
preoccupato e poi infermo, cercava di recargli conforto e aiuto, senza
allontanarsi mai da lui e gli chiedeva continuamente la causa della sua
malattia.
Tito gli raccontava un sacco di
frottole per risposta.
Alla fine, costretto dall’amico,
gli disse “ Gisippo,se agli Dei fosse piaciuto, avrei preferito morire,
piuttosto che vivere, pensando che la fortuna mi ha spinto ad un’azione per cui
provo grandissima vergogna.
Siccome a te non devo celare
niente, ti svelerò la causa della mia vergogna, non senza gran rossore”.
E, cominciando daccapo, gli rivelò
il motivo della battaglia di tutti i suoi pensieri e il suo desiderio di morire
per amore di Sofronia. Aggiunse che sapeva bene quanto ciò fosse sconveniente e
per punizione aveva deciso di voler morire, cosa che sarebbe successa presto.
Gisippo, udendo quelle parole e
vedendo il pianto disperato, rimase sovrapensiero, essendo anch’egli preso
dalla bellezza della fanciulla. Poi decise che la vita dell’amico gli era più
cara di Sofronia e così, turbato da quelle lacrime, piangendo anch’egli, gli
rispose “ Tito, hai violato la nostra amicizia tenendomi a lungo nascosta la
tua forte passione. I pensieri disonesti non devono essere celati all’amico,
che amico sarebbe se si rallegrasse soltanto delle cose oneste e non si
preoccupasse di aiutare l’altro in difficoltà?
Ritornando al presente, non mi
meraviglio se tu ami ardentemente Sofronia , a me promessa, mi meraviglierei
del contrario, conoscendo la sua bellezza e la sua nobiltà d’animo. E ,quanto
più ami Sofronia, tanto più ti lagni che la fortuna l’abbia concessa a me,
sebbene non lo dici.
Ti sembra che se fosse stata di un
altro e non mia avresti potuto amarla onestamente.
Invece è stato molto meglio che la
fortuna l’abbia concessa a me, perché chiunque altro l’avesse amata, l’avrebbe
voluta tutta per sé. Invece io, siccome siamo amici da sempre, non ricordo di
aver mai avuto alcuna cosa che non fosse tua, come mia.
Se la cosa fosse ormai tanto avanti
da non poter fare altrimenti, la dividerei con te. ma siamo ancora in tempo a
fare in modo che ella possa essere soltanto tua.
E così farò in nome dell’amicizia,
che mi permette di fare onestamente una cosa che tu vuoi.
E’ vero che Sofronia è mia promessa
sposa; che io l’amavo molto e aspettavo con grande gioia le nozze. Ma, poiché
tu l’ami molto più di me e con maggiore ardore la desideri, sta tranquillo che
ella verrà nella mia camera come tua moglie non come mia.
Lascia , dunque, i tristi pensieri,
caccia la malinconia, recupera la salute, l’allegria e ,da questo momento,
aspetta di godere del tuo amore che
è più forte del mio”.
Tito, udendo parlare così Gisippo,
da un lato gioiva ,perché nasceva per lui una speranza, dall’altro, a ragione,
provava vergogna, sembrandogli ancor più sconveniente accettare la liberalità
dell’amico.
Non smettendo di piangere, gli
rispose che l’amicizia dimostratagli gli faceva capire ancor più chiaramente
che cosa doveva fare. Dio non avrebbe permesso che la donna che aveva donato a
Gisippo, perché più degno, divenisse sua. Aggiunse che se l’avesse voluto darla
a lui gliel’avrebbe concessa. Doveva, dunque, essere lieto di essere stato
scelto, accettare il dono e lasciare a lui le lacrime.
Infine, gli chiese di lasciarlo
consumare nelle lacrime, le quali, alla fine, avrebbe vinto o esse avrebbero
vinto lui, facendolo morire e liberandolo così dalla pena.
Gisippo, prontamente, rispose
“Tito, se l’amicizia mi può permettere di spingerti a seguire il mio desiderio,
io intendo adoperarla, e se tu non mi obbedirai volentieri, con la forza, che
un amico deve usare, farò in modo che Sofronia sia tua. So bene quanto possono
le forze dell’amore e so che molte volte hanno condotto alla morte gli infelici
amanti. Vedo te così vicino ad essa che non potresti più tornare indietro, né
vincere le lacrime, ma ti aggraveresti e presto verresti meno e , sicuramente
dopo poco io ti seguirei.
Dunque, devi vivere se ti è cara la
mia vita. Sofronia sarà tua, perché non potresti facilmente trovare un’altra
che ti piacesse quanto lei. Io rivolgerò il mio amore ad un’altra, così avrò
accontentato te e me.
Non sarei così ben disposto se le
mogli si trovassero con la difficoltà con cui si trovano gli amici.
Poiché posso trovare più facilmente
una moglie piuttosto che un altro amico, voglio , non perdere lei donandola a
te, ma consegnandola ad un altro me stesso migliore di me, trasferirla a te,
piuttosto che perderti.
Perciò ti prego, liberandoti di
questa afflizione, di consolare ,nello stesso tempo, te e me, e di buon grado
di prepararti a prendere la cosa amata, che il tuo amore desidera”.
Tito, pur trattenuto ancora dalla
vergogna, spinto dall’amore e dall’insistenza dell’amico, disse “ Gisippo,
poiché la tua liberalità è tanta che vince la mia giusta vergogna, farò come tu
vuoi, come uomo che sa di ricevere da te non solo la donna amata, ma la stessa
vita.
Vogliano gli dei che ti possa
dimostrare quanto ti sono grato perché sei nei miei confronti più pietoso di
quanto lo sono io stesso”.
Gisippo , allora, disse “ Tito,
perché la cosa vada a buon fine, bisogna seguire questa strada. Come ben sai,
dopo lunghe trattative tra i miei parenti e quelli di Sofronia, ella mi è stata
promessa. Se ora io andassi a dire di non volerla per moglie, ne nascerebbe un
grandissimo scandalo e turberei i miei e i suoi parenti. Questo non mi
preoccuperebbe se sapessi per certo che ella diventasse tua moglie. Ma temo che
potrebbero darla in sposa ad un altro, e tu avrai perduto quello che io non
avrò acquistato.
Mi sembra, dunque, il caso, se sei
d’accordo, che la conduca in casa come mia moglie e celebri le nozze. Poi, di
nascosto, tu giacerai con lei come se fosse tua moglie. A tempo e a luogo
opportuno riveleremo il fatto.
Se la cosa piacerà ,sarà tutto a
posto, se non piacerà, sarà un fatto compiuto e tutti si dovranno per forza
adattare”.
A Tito piacque la proposta. Dopo la
guarigione di Tito, avendo già tutto organizzato, Gisippo portò Sofronia a casa
come sua moglie e fece una gran festa di nozze.
Giunta la notte, le donne
lasciarono la sposa nel letto del marito e se ne andarono.
La camera di Tito era congiunta a quella di Gisippo ,tanto che si poteva
andare dall’una all’altra.
Gisippo chiamò Tito dicendogli di
andarsi a coricare con la sua donna.
Tito, vergognandosi ,non voleva
andare, ma Gisippo, dopo aver discusso a lungo, ve lo mandò.
Giunto nel letto, il giovane, quasi
scherzando, domandò alla donna se voleva essere sua moglie.
Ella, credendo che fosse Gisippo,
rispose di si .Tito le pose al dito uno splendido anello e disse “ Io voglio
essere tuo marito”.
Consumato il matrimonio, si amarono
appassionatamente, senza che né lei né gli altri si accorgessero che era un
altro e non Gisippo che giaceva con lei.
Mentre il matrimonio di Tito e
Sofronia procedeva in tal modo, Publio, padre di lui, morì.
Gli fu scritto di ritornare
immediatamente a Roma, per curare i suoi interessi. Egli decise, d’accordo con
Gisippo, di andare a Roma e di condurre con sé Sofronia, cosa che non si poteva
fare senza informarla di come stessero le cose. Perciò un giorno la chiamarono
e le rivelarono tutto.
Ella, dopo averli guardati sorpresa,
scoppiò a piangere, rammaricandosi dell’inganno di Gisippo.
Senza far commenti, andò a casa sua
e a suo padre e sua madre narrò l’inganno che avevano subito, affermando che
era la moglie di Tito e non di Gisippo, come tutti credevano.
Il padre ritenne il fatto
gravissimo e si lamentò moltissimo con i parenti di Gisippo, che fu aspramente
rimproverato ed odiato da tutti.
Gisippo, dal canto suo, affermava
di aver fatto la cosa giusta ed i parenti di Sofronia gli dovevano essere grati
perché l’aveva maritata ad un uomo migliore di sé stesso.
Tito, che sentiva tutte le
lamentazioni, ne provava gran disagio.
Egli conosceva bene l’animo degli
ateniesi e sapeva che avrebbero continuato a lamentarsi all’infinito, se non
avessero avuto delle risposte. Perciò, avendo animo romano e senno ateniese,
con molto garbo fece radunare i parenti di Gisippo e quelli di Sofronia in un
tempio.
Entrato lì, accompagnato solo da
Gisippo, così parlò ai presenti “ Molti filosofi credono che gli dei immortali
dispongano le opere dei mortali, per cui, secondo alcuni, ciò che è accaduto e
accadrà nel mondo è stabilito dalla volontà degli dei, ed è necessario. Altri
ritengono che lo stato di necessità riguardi soltanto le cose che già sono
state fatte. Si capisce che non è possibile cambiare le cose già accadute,
perciò è più saggio credere che gli dei governino per l’eternità e senza alcun
errore noi e le nostre cose. Si può ,dunque, ben vedere come sia presuntuoso e
da bestie pensare di cambiare ciò che essi hanno disposto e meritano grandi
punizioni coloro che si lasciano trasportare dall’ardire.
Tra questi ci siete a mio giudizio,
tutti voi, se avete detto e continuate a dire che Sofronia è diventata mia
moglie, mentre voi l’avevate data a Gisippo. Non considerate ciò che era stato
disposto ab eterno e cioè che ella non divenisse di Gisippo ma mia, così come
appunto è accaduto.
Ma parlare della provvidenza e
dell’intervento degli Dei pare a molti difficile da comprendere, supponendo che
gli Dei non si impiccino affatto delle cose degli uomini. Perciò voglio
considerare le opinioni degli uomini a riguardo ed esaminare due cose molto
contrarie ai miei costumi. L’una consiste nell’elogiare me, l’altra nel
biasimare gli altri, senza allontanarmi dalla verità.
I vostri rimproveri, dovuti più
alla rabbia che alla ragione, con continui mormorii, criticano e condannano
Gisippo che mi ha data, con sua decisione, costei in moglie, mentre voi
l’avevate data a lui.
Per la sua decisione ritengo che
egli sia da elogiare sommamente per due motivi. L’uno perché ha fatto ciò che
un amico deve fare; l’altra perché si è comportato più saggiamente di voi.
Non voglio spiegare ora ciò che le
sante leggi dell’amicizia vogliono che un amico faccia per l’altro. Ma voglio
soltanto ricordarvi che il legame dell’amicizia è più forte di quello del
sangue e della parentela, perché gli amici ce li scegliamo, i parenti ce li dà
la fortuna.
Nessuno, dunque, si deve
meravigliare se Gisippo amò più la mia vita che la vostra benevolenza, essendo
mio amico. E ,inoltre, egli è stato più saggio di voi, che mi sembra non
conosciate la provvidenza degli dei e molto meno gli effetti dell’amicizia.
Infatti, avevate deciso di dare
Sofronia a Gisippo, giovane e filosofo. Gisippo ha deciso di darla ad un
giovane e filosofo. Decideste di darla ad un ateniese, Gisippo ad un romano.
Decideste di darla ad un giovane nobile, Gisippo ad uno più nobile; decideste
di darla ad un giovane ricco, Gisippo ad uno ricchissimo; decideste di darla ad
un giovane che non solo non l’amava, ma la conosceva appena, Gisippo la dette
ad un giovane che l’amava più della propria vita.
E che quello che dico sia vero si
può facilmente verificare. E’ vero ,infatti, che sono giovane e filosofo come
Gisippo, che ho la sua stessa età, che abbiamo fatto gli stessi studi. E’ vero
che egli è ateniese ed io romano.
Se si discuterà della gloria delle
due città ,dirò che io sono di una città libera ed egli di una città
tributaria; io di una città signora di tutto il mondo, egli di una città che
obbedisce all’altra; io di una città fiorentissima per le armi, l'impero e gli
studi, mentre egli potrà lodare la sua solo per gli studi.
Inoltre, sebbene qui mi vediate
come uno studente molto umile, non sono nato dalla feccia del popolazzo di
Roma. Le mie case e i luoghi pubblici di Roma sono pieni delle immagini dei
miei antenati , gli Annali romani sono pieni dei trionfi che i Quinzi hanno
condotto sul Campidoglio e la loro gloria è ancora fiorente.
Per pudore taccio delle mie
ricchezze perché ricordo l’onesta povertà degli antichi nobili romani, mentre
io, non come avido, ma come amato dalla fortuna, ne abbondo.
So che avevate caro l’avere per
parente Gisippo, che era ed è di qui (ateniese), ma non vi devo essere meno
caro io che sono di Roma. Pensate ,infatti, che avrete in me un ottimo ospite e
un utile ed autorevole protettore sia nelle faccende pubbliche che in quelle
private.
Dunque, considerando razionalmente
il tutto, chi loderà i vostri consigli più di quelli di Gisippo? Certamente
nessuno. Sofronia è ben maritata a Tito Quinzio Fulvo, nobile, antico e ricco
cittadino di Roma e amico di Gisippo, perciò chi se ne duole sbaglia e non sa
quello che fa.
Alcuni potranno dire che non si
rammaricano del fatto che Sofronia è moglie di Tito ma del come lo è diventata,
furtivamente, senza che né amici, né parenti lo sapessero. Ciò non deve
meravigliare.
Volentieri tralascio quelle che si
sono maritate contro la volontà dei padri, quelle che sono fuggite con gli
amanti e sono state prima amiche che mogli, e quelle che con la loro gravidanza
e i parti hanno palesato il loro matrimonio, che è stato accettato per
necessità, prima che con le parole e si è fatta di necessità virtù.
A Sofronia non è accaduto ciò,
anzi, con discrezione e onestamente, è stata data da Gisippo a Tito, anche se,
secondo alcuni, non ne aveva il diritto. Queste sono lagnanze di poco conto.
La fortuna ora usa nuove strade per
ottenere i suoi scopi. Non mi devo preoccupare se il calzolaio, piuttosto che
il filosofo,portò a buon fine i fatti miei, devo solo ringraziarlo. Se Gisippo
ha ben maritato Sofronia, lamentarsi del modo e di lui è cosa stolta e inutile.
Se non vi fidate del suo senno, evitate che possa maritare altre donne in
futuro e ringraziatelo per adesso.
Dovete sapere che non cercai né con
l’astuzia, né con l’inganno, di macchiare l’onestà di Sofronia e la nobiltà del
vostro sangue. Sebbene la sposai occultamente, non andai come un ladro o come
un nemico a toglierle la verginità, rifiutando di imparentarmi con voi. Ma
,acceso dalla sua bellezza e dalla sua virtù, dovetti agire di nascosto, per
paura che voi non me l’avreste mai concessa.
Ora posso svelare il segreto,
conosciuto solo da Gisippo. Sebbene ardentemente l’amassi, mi unì a lei non
come amante, ma come marito, non avvicinandomi a lei prima di averla sposata,
domandandole se mi voleva come marito, con le dovute parole e con l'anello,
come ella stessa può testimoniare, ed ella mi rispose di si.
Se ella si ritiene ingannata, deve
essere rimproverata lei che non mi ha chiesto chi fossi, non io.
Dunque, questo è il gran male, il
gran peccato, compiuto da Gisippo, amico, e da me, innamorato, che Sofronia sia
diventata la moglie di Tito Quinzio e per questo criticate e minacciate
Gisippo.
E che sarebbe mai successo se egli
l’avesse sposata ad un contadino, ad un malandrino o a un servo?
Quali catene, o prigioni, o croci
basterebbero? Ma, tralasciando tutto, ormai è venuto il tempo che, essendo
morto mio padre, devo ritornare a Roma e voglio portare Sofronia con me.
Ho dovuto, perciò, rivelarvi ciò
che forse ancora vi avrei tenuto nascosto. Siate lieti perché ,se avessi voluto
ingannarvi e oltraggiarvi, l’avrei lasciata qui. Ma tanta viltà non può esservi
in un romano.
Sofronia, per volontà degli Dei, in
virtù delle leggi umane, grazie a Gisippo e al mio inganno ,è mia.
Voi che pure siete saggi, potete
condannarmi e punirmi in due modi: l’uno tenendovi Sofronia, sulla quale non
avete alcun diritto; l’altro trattando Gisippo come nemico.
Vi consiglio, considerandovi amici,
di deporre lo sdegno e il rammarico e di restituirmi la mia sposa, in modo che
lietamente possa partire come vostro parente, ora e sempre. Ormai, vi piaccia o
non vi piaccia, non si può cambiare quello che è fatto.
Se volete diversamente, vi toglierò
Gisippo e, una volta giunto a Roma, riavrò mia moglie, che, a ragione, mi
appartiene, malgrado sia rimasta con voi. Vi farò conoscere, considerandovi per
sempre nemici, quanto sia potente lo sdegno dei romani”.
Detto ciò, Tito si alzò in piedi
,molto turbato, e ,preso per mano Gisippo, senza più curarsi dei presenti,
minacciando, uscì dal tempio.
Quelli che erano rimasti là dentro,
alcuni spinti dalla parentela, alcuni dall’amicizia e spaventati dalle ultime
parole del giovane, decisero che la cosa migliore era avere Tito come parente,
poiché Gisippo non aveva voluto esserlo, piuttosto che aver perso Tito come
parente ed aver acquistato Gisippo come nemico.
Andarono da Tito e gli dissero che
faceva loro piacere che Sofronia fosse sua moglie e ritenevano lui parente e
Gisippo buon amico.
Festeggiarono tutti insieme, poi
partirono e gli rimandarono Sofronia.
Ella, saggiamente, fatta di
necessità virtù, l’amore che provava per Gisippo rapidamente rivolse a Tito e
andò con lui a Roma, dove fu ricevuta con grande onore.
Gisippo, rimasto ad Atene,poco stimato
da tutti, per lotte politiche ,fu cacciato dalla città, povero e meschino, e fu
condannato all’esilio perpetuo.
Stando così male, povero e
mendicante, andò a Roma, per vedere se Tito si ricordava di lui.
Seppe che era vivo, che era stimato
dai romani e, avendo saputo dove erano le sue case, si mise ad aspettare
davanti ad esse finchè Tito non giunse.
Non ebbe il coraggio di farsi
riconoscere, per cui l’amico passò oltre.
A Gisippo parve che Tito l’avesse
veduto, ma avesse finto di non riconoscerlo. Ricordando quello che aveva fatto
per lui, offeso e disperato si allontanò.
Era ormai notte, il giovane
,digiuno e senza denari, senza sapere dove andare, desideroso di morire, giunse
in un luogo molto solitario, dove c’era una gran grotta, in cui si rifugiò; si
sdraiò sulla nuda terra e, dopo aver pianto a lungo, si addormentò.
Nella stessa grotta, all’alba,
giunsero due ladri che avevano commesso un furto durante la notte, con il loro
bottino. Cominciarono a litigare, il più forte uccise l’altro e andò via.
Gisippo, che aveva udito tutto,
pensò di aver trovato il modo di avere la morte, senza uccidersi lui stesso.
Perciò non si allontanò ed attese
l’arrivo dei gendarmi che lo catturarono.
Interrogato, confessò di aver
ucciso il ladro e di non essersi potuto allontanare dalla grotta.
Il pretore, il cui nome era Marco
Varrone, lo condannò alla morte sulla croce, come si usava a quel tempo.
Per caso Tito era andato quel
giorno al pretorio.
Vedendo il viso del condannato e
uditi i motivi della condanna, subito riconobbe che era Gisippo e si meravigliò
della sua misera condizione e di come era giunto fin lì.
Per aiutarlo e salvarlo, non
vedendo altra via che accusare sé stesso, si fece avanti e gridò “ Marco
Varrone, richiama il pover’uomo che hai condannato, perché è innocente. Io sono
il colpevole, infatti, ho offeso gli dei uccidendo colui il quale le tue
guardie trovarono morto questa mattina, non voglio offenderli ancora,
provocando la morte di un altro
innocente”.
Varrone si meravigliò e si
rammaricò che tutto il pretorio l’avesse udito.Dovendo fare ciò che comandavano
le leggi, fece ritornare indietro Gisippo e, alla presenza di Tito , gli chiese
perché era stato così folle da confessare un delitto che non aveva commesso,
pur sapendo che avrebbe perso la vita. Sosteneva che aveva ucciso un uomo, ma,
ecco che si presentava un altro che diceva di essere l’assassino.
Gisippo guardò l’uomo, riconobbe
che era Tito e ben comprese che l’aveva fatto per salvarlo.
Insistette, dunque, con Varone
affermando che era stato lui a compiere il delitto.
Tito, dal canto suo, invitava il
pretore a considerare che Gisippo era forestiero e che era stato trovato
accanto al corpo del morto senza armi. Diceva che era povero e misero e perciò
voleva morire. Gli chiedeva di liberarlo
e di punire lui.
Varrone ,sorpreso, già presumeva
che fossero innocenti entrambi.
Ed ecco che giunse un tale,
chiamato Publio Ambusto, giovane senza speranza, conosciuto da tutti i romani,
un grandissimo ladrone, che veramente aveva commesso l’omicidio. Costui sapeva
bene che nessuno dei due era colpevole di quello di cui si accusava. Si
commosse a tal punto per la loro innocenza, che andò davanti a Varrone e disse
“ Pretore, il mio fato mi spinge a risolvere la disputa tra costoro, non so
quale dio mi spinge a confessare il mio peccato. Sappi, dunque, che nessuno di
loro è colpevole di ciò di cui accusa sé stesso.
Quell’uomo l’uccisi io all’alba e
vidi questo sventurato, che è qui, nella grotta ,che dormiva, mentre io
dividevo la refurtiva con colui che poi uccisi. Non è necessaio che scagioni
Tito, la cui fama tutti voi conoscete.
Dunque liberali e dai a me la
condanna prevista dalle leggi”.
Ottaiano, che aveva avuto notizia
della cosa, fece andare alla sua presenza tutti e tre, chiese a ciascuno quale
motivo avesse per voler essere condannato. Ognuno spiegò le sue ragioni.
Ottaviano liberò i primi due perché
erano innocenti e il terzo per amor di loro.
Tito, facendogli gran festa,
condusse Gisippo, dopo averlo rimproverato per la sua diffidenza, a casa sua,
là dove Sofronia, piangendo, lo accolse come un fratello.
Lo confortò, lo rivestì e divise
con lui ogni suo tesoro ed ogni suo avere.
In seguito gli diede in moglie una
sua sorella giovinetta, chiamata Fulvia, poi gli disse “ Gisippo, spetta a te
solo decidere se rimanere qui con me a vivere o volertene tornare in Grecia con
tutto ciò che ti ho donato”.
Gisippo, costretto dall’esilio che
gli impediva di ritornare nella sua città e spinto dall’amicizia per Tito,
decise di diventare romano.
A Roma ,con la sua Fulvia, con Tito
e la sua Sofronia, vissero a lungo e lietamente nella stessa casa, divenendo
ogni giorno sempre più amici.
La narratrice concluse che
grandissima cosa era l’amicizia, massimamente degna di rispetto e di lode,
madre di ogni magnificenza e onestà, nemica dell’odio e dell’avarizia, senza
aspettare preghiere, pronta a fare per gli altri ciò che avrebbe voluto fosse
fatto verso di sé.
Gli effetti dell’amicizia molto
raramente in quei luoghi si vedevano, per colpa della cupidigia dei mortali,
che guardavano soltanto alla propria utilità, e l’avevano relegata ai confini
estremi della terra ,in esilio perpetuo.
Solo l’amicizia, infatti, aveva
spinto Gisippo ad astenersi dagli abbracci della bella giovane, senza curarsi
di perdere i suoi parenti e quelli di Sofronia e di esporsi ai mormorii, alle
beffe e allo scherno del popolazzo.
Solo l’amicizia, d’altra parte,
aveva subito spinto Tito, che poteva fingere di non vedere, a procurarsi la
morte per liberare Gisippo dalla croce, alla quale egli stesso si condannava.
Solo l’amicizia aveva spinto Tito,
senza che nessuno l’obbligasse, a dividere il suo grandissimo patrimonio con
Gisippo, dopo che la fortuna gli aveva tolto il suo.
Solo l’amicizia aveva, infine,
spinto Tito a dare in sposa la propria sorella a Gisippo, divenuto poverissimo
e
miserabile.
Gli uomini pensavano soltanto ad
accrescere con il loro denaro il numero dei servitori, temendo per sé ogni
minimo pericolo, e non guardavano se potevano alleviare le difficoltà del
padre, del fratello o del signore, mentre gli amici facevano tutto il
contrario.
Err Decamerone
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